Partiamo da una foto: in quest’immagine vediamo Gillo Pontecorvo sulla sinistra dell’immagine, ha lo sguardo assorto, gli occhi cerulei che guardano verso il basso, verso un punto indefinito del fuori campo, un abbigliamento sportivo ma elegante, la mano destra sollevata in un gesto che esprime una volontà di chiarificazione, le labbra socchiuse come se stesse parlando, sussurrando piuttosto, fornendo probabilmente indicazioni di regia. Il fusto di un albero, forse parte della scenografia, divide l’immagine in due parti; nella parte destra, separati dal regista, vediamo Evaristo Marquez di spalle che guarda annoiato verso un punto lontano, esprimendo il triste disagio di colui che si sente palesemente fuori posto e poi Marlon Brando che catalizza lo sguardo con la sua camicia bianca, i capelli mossi dal vento, il volto fiero e lo sguardo concentrato a captare le centellinate informazioni fornite dal regista. La traiettoria della foto è data da un triangolo in cui gli sguardi dei tre soggetti non si incontrano mai, tre punti di fuga. A sottolineare la separazione, l’albero che divide l’inquadratura. La foto è stata scattata in occasione delle riprese di Queimada (1969), il suo quarto e penultimo lungometraggio.
Infatti Pontecorvo – a cui dal 16 al 18 aprile la Cineteca Nazionale dedica un omaggio in occasione del centenario della nascita – in cinquanta anni di carriera gira soltanto cinque lungometraggi e un numero ridotto di medi e cortometraggi. La motivazione di tale pigrizia (come da alcuni suoi critici è stato affettuosamente sottolineato) è riconducibile ad uno straordinario rigore etico: di fronte ad ogni progetto il regista pisano si domandava se valesse veramente la pena portarlo a termine, se sarebbe stato un lavoro importante, con qualcosa da dire, con un “messaggio” e non solamente un’operazione commerciale finalizzata al guadagno sugli investimenti iniziali. La risposta era il più delle volte negativa, non valeva la pena, non valeva l’impegno incommensurabile a fronte delle urgenze della storia, della società, e quindi il progetto veniva presto abbandonato. Molti progetti, per Pontecorvo, stavano bene nel cassetto, con l’eccezione di Romero, il film che era giunto più di ogni altro in fase di realizzazione e che soltanto l’intempestiva uscita del mediocre film di John Duigan nel 1989 aveva definitivamente accantonato. Nel tracciare la vita e l’assassinio di Oscar Romero, l’arcivescovo salvadoregno barbaramente ucciso nel 1980, Pontecorvo costruisce ipotesi di carattere investigativo, individua complotti, responsabili, non si limita ad innalzare un peana agiografico, ma in linea con il suo spirito informato di furori resistenziali si avvicina ad una realtà per svelarne la corruzione, la responsabilità, gli ingranaggi sempre torbidi del potere e dell’avidità.
Impegnato sul fronte resistenziale durante la guerra, assistente di Yves Allégret nel dopoguerra, folgorato dalla visione di Paisà, Pontecorvo è chiaramente un figlio del neorealismo. Nella sua limitata filmografia si legge un progetto culturale e politico ben chiaro, sempre condotto con impegno rivoluzionario ma mai ideologico, dare voce e immagine ai più deboli, ai maltrattati dalla storia, ai dannati della terra, citando Fanon. Sono le operaie sfruttate in quanto operaie e in quanto donne dai nuovi squali del miracolo economico in Giovanna (1956), i pescatori sardi de La grande strada azzurra (1957), gli ebrei massacrati nei campi di concentramento di Kapò (1959), gli algerini torturati dai francesi de La battaglia di Algeri (1966), gli schiavi antillesi avviliti dal colonialismo portoghese di Queimada (1969), potente metafora sempre attuale, e la minoranza basca dominata dalla violenta dittatura franchista in Ogro (1979). In ogni progetto Pontecorvo si è scontrato con le necessità del mercato, con la lingua corrotta del denaro, e si è dovuto piegare ad amari compromessi come l’imposizione delle star Valli-Montand e della pellicola a colori per la Grande strada azzurra, oppure la posticcia love story in Kapò (rigoroso sino all’entrata in campo di Laurent Terzieff). Oppure basti ricordare l’intervento censorio subito per Ogro, accusato di incitamento alla lotta armata e per il quale il regista fu costretto a inserire un nuovo finale in cui i terroristi dell’ETA si mostravano pentiti delle azioni commesse.
Pontecorvo è stato l’unico regista a coniugare con efficacia le leggi di una spettacolarità molto spesso imposta ma sempre ben gestita con il rigore intellettuale, il cinema d’avventura con le forme sperimentali del Terzo Cinema, romanzo e documentario storico, il cinema d’intreccio con il film a tesi, sempre profondamente schierato dalla parte dei più deboli. Il regista ha tuttavia amaramente scontato le sue aperture verso il sistema, che gli ha permesso, tra l’altro, la possibilità di indirizzarsi ad un pubblico più vasto. Basti pensare al successo commerciale di un film difficile come Kapò o alla visibilità internazionale del suo capolavoro La battaglia di Algeri; emarginato in patria perché politicamente sospetto e ripudiato all’estero perché esteticamente abietto (non possiamo non ricordare la condanna senza appello di Jacques Rivette con il suo intervento De l’abjection, a proposito del controverso carrello di Kapò e anche le difficoltà distributive che hanno accompagnato l’uscita francese de La battaglia di Algeri).
Pontecorvo non è mai stato un regista particolarmente amato nel panorama europeo. Sicuramente la sua riscoperta si deve all’interesse mostrato negli Stati Uniti per la sua opera, in particolare Kapò, che ha fornito un modello di riferimento per Schindler’s List (1994) di Spielberg e La battaglia di Algeri che a seguito degli attacchi dell’11 settembre 2001 è diventato un training film proiettato al Pentagono per civili e militari, prossimi alla partenza per l’Iraq. Anche dal punto di vista bibliografico risulta stridente il confronto tra le monografie e i saggi di approfondimento in lingua inglese con quelli in lingua italiana o francese; la fortuna critica di Pontecorvo si è giocata interamente oltreoceano. Le motivazioni sono ovviamente di carattere estetico e ideologico, dal momento che la critica statunitense è stata sempre più attenta alle forme ibride di cinema colto e popolare allo stesso tempo, ed è anche storicamente più scevra da connotazioni di carattere ideologico. Un regista come Pontecorvo non poteva non essere accolto favorevolmente all’interno di un panorama critico di questo tipo, inoltre la vocazione internazionale del regista pisano manifestatasi attraverso le collaborazioni con Susan Strasberg e Marlon Brando (due emanazioni dell’Actors Studio) ha favorito l’immagine di un regista globale, come Pontecorvo è effettivamente stato.
Sicuramente la sua attualità si gioca sulla fusione perfetta tra etica ed estetica, trattandosi di un autore che in ogni suo film ha portato avanti una ricerca estetica finalizzata non tanto alla costruzione di uno stile quanto piuttosto alla ricerca di una forma che potesse pienamente sposare il contenuto di volta in volta proposto. In Giovanna sceglie un “purissimo stile neorealista”, come venne notato da alcuni critici dell’epoca, in Kapò e ne La battaglia di Algeri il regista pisano arriva a controtipare alcuni fotogrammi per rendere la grana dell’immagine sporca, imperfetta, documentaristica, mentre in Queimada ha fatto ricorso ad una pellicola dalle tonalità sature, una ricostruzione scenografica imponente per dar forma ad un romanzo metaforico, e infine in Ogro ha privilegiato l’estetica da film poliziesco con la macchina mobile e una fotografia cronachistica. Forme diverse finalizzate a dare visibilità a chi non l’ha mai avuta, dare un’immagine agli emarginati dalla storia; non un’immagine epica e in quanto tale falsata ma un’immagine empatica, di condivisione umana, anche se, come molto spesso la storia ci insegna, mentre noi guardiamo gli ultimi, gli oppressi, molto spesso loro guardano altrove, come nella foto con la quale abbiamo aperto, in cui Evaristo è come perso nei suoi pensieri. E questo Pontecorvo lo sapeva bene, come dimostra l’illuminante tesi alla base di Queimada: nell’eterna lotta tra oppressori e oppressi sono sempre questi ultimi a rimanere fuori dalla Storia e a rivolgersi costantemente al fuori campo.