Non lo abbiamo certo voluto né programmato, ma appare indubbio che, nonostante gli sforzi di razionalizzazione e perfino di rimozione che pure possono essere tentati, questo nostro “tempo del Coronavirus” riporta in primo piano un’emozione di vecchia data, spesso nostra compagna di strada: la paura. Essa, come giustamente è stato scritto da Maria Antonietta Foddai, «è un sentimento molto antico che, come i neuroscienziati insegnano, nasce nell’amigdala, la parte più antica del nostro cervello, ed è legata all’istinto di conservazione che ha consentito, alla nostra e ad altre specie animali, di sopravvivere ed evolversi».
Sullo sfondo dell’intreccio di luci e ombre che sicuramente avvolge la difficile situazione attuale, occorre senza ulteriori indugi far tesoro di un’intenzione che, per dirla con le parole di Elena Pulcini, sappia “attuare una metamorfosi virtuosa della paura” e dunque «rompere la dinamica paralizzante dell’angoscia e risvegliare quella che, per riprendere la proposta di Hans Jonas, vorrei definire non una paura di, ma una paura per: per il mondo, l’ambiente, le generazioni future. Alludo cioè ad una paura mobilitante che nasce dalla relazione empatica con l’altro e prelude alla capacità di farsi carico delle sorti dell’umanità e del pianeta: non in quanto ispirata da un generico altruismo – mi preme ribadire anche in questo caso – ma in quanto generata dalla consapevolezza di un’analoga e universale condizione di vulnerabilità».
Abbiamo dunque bisogno della paura; ma di una paura che non si blocchi sulla soglia dell’oggetto che ci spaventa, ma scateni energie o promuova soluzioni in grado di risolvere i problemi che quell’oggetto nuovo e terrificante suscita. Tutto ciò potrebbe o quasi dovrebbe prendere la direzione di una rinnovata antropologia, legata a un discorso sull’uomo, non infittito di retoriche considerazioni astratte o sostanziato da asfittiche prospettive angustamente antropocentriche, ma sorretto da esigenze che non possono che essere etiche nel senso più ampio del termine. Ci si dovrebbe allora orientare verso quello che in filosofia si chiama “ambito della moralità”, ben sapendo che un passo del genere porta in primo piano, subito e senza residui di sorta, la necessità di tematizzare il concetto stesso della libertà, questa rischiosa peculiarità, la cui ampiezza si misura solo ed esclusivamente nel momento in cui essa si lascia guidare dalla responsabilità.
Ho volutamente evocato questa triade (moralità-libertà-responsabilità), perché è questo il motivo conduttore di tutto lo sforzo teorico portato avanti da un grande pensatore del Novecento, già evocato in precedenza, Hans Jonas, alle cui conclusioni, applicate a quella che egli lapidariamente definiva “un’etica per la civiltà tecnologica”, vorrei richiamarmi per approfondire almeno alcuni elementi cruciali di una nuova riflessione antropologica.
Nell’analisi che Jonas conduce sulla condizione umana, essa deve ormai fare i conti con una situazione completamente mutata. Come egli scrive proprio all’inizio di quello che forse è stato il suo libro più importante o comunque quello dal maggiore “impatto mediatico”, ovvero Il principio responsabilità, lo sfondo attuale è quello in cui «il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo».
Questa è la cruda diagnosi proposta da Jonas: poiché ciò che lo sviluppo della tecnica aveva promesso e promette rischia di diventare o meglio è già diventato una minaccia concreta e quotidiana per la vita stessa del pianeta, si sente il bisogno di una prospettiva forte, che vada alle radici stesse dei nostri più importanti ed eticamente alti comportamenti. Alla luce di tutto ciò Jonas può avanzare la sua proposta, che è teoreticamente avviata verso una nuova forma di “ragion pratica” (con Kant e naturalmente anche oltre Kant). Il debordare di una simile tecnica (o se si preferisce di una tecnologia) fuori controllo, alimentata sì da una scienza sempre più avvertita dei suoi metodi, ma nello stesso tempo piegata alle esigenze di un’economia votata al solo, indiscriminato profitto, impone infatti un cambiamento di radicale profondità, che investe l’essenza stessa dell’agire dell’uomo.
L’enormità di questo scenario capillarmente mutato (nonché decisamente pericoloso, agli occhi di Jonas) rende perfino inefficace ogni richiamo fatto al singolo di rispettare le leggi. Il nuovo corso da dare alle prescrizioni morali dell’uomo e per l’uomo, del resto, non può più neppure accontentarsi di quella che si potrebbe definire “l’etica del prossimo”, evangelicamente (o kantianamente) intesa. Abbiamo uno spazio più ampio su cui esercitare la nostra libertà e dunque un fardello di responsabilità a essa connessa decisamente aumentato, visto che la natura stessa sembra reclamare con forza i suoi diritti. Come scrive Jonas, infatti:
è quantomeno non privo di senso chiedersi se la condizione della natura extraumana, la biosfera, ora sottomessa al nostro potere nel suo insieme e nelle sue parti, sia diventata appunto qualcosa che è dato in custodia all’uomo e avanzi perciò nei nostri confronti una sorta di pretesa morale, non soltanto al nostro ma anche a suo favore e in base a un proprio diritto. Se così fosse, sarebbe necessario un ripensamento non di poco conto dei fondamenti dell’etica. Questo comporterebbe la ricerca non soltanto del bene umano, bensì anche del bene delle cose extraumane, estendendo il riconoscimento dei “fini in sé” al mondo naturale e includendone la cura nel concetto di bene umano.
Comuni sono dunque diventati i destini dell’uomo e di tutto ciò che lo circonda, al punto che la nostra struttura antropologica non può più chiudersi in sé stessa né dimenticare la dignità intrinseca della natura nel suo insieme, al punto da ridurla a mero oggetto di sfruttamento utilitaristico, ma deve diventare, si direbbe con termine orami usato, abusato e molto alla moda, “ecologica”. Facendo risuonare ancora una volta un accento kantiano, occorre che l’uomo nuovo descritto ed equipaggiato dalle riflessioni di Jonas sappia e voglia accettare il pieno rispetto di un imperativo sì sempre categorico, ma che si imponga, per tutti e ovunque, in modo diverso:
Un imperativo adeguato al nuovo tipo di agire umano e orientato al nuovo tipo di soggetto agente, suonerebbe pressappoco così: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”, oppure, tradotto in negativo: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita”, oppure, semplicemente: “Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra”, o ancora, tradotto nuovamente in positivo: “Includi nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà”.
E per garantire questo spazio di salvaguardia alla vita della biosfera intera, per esercitare, con consapevole responsabilità, scelte che vadano a vantaggio dell’integrità futura e globale, per riaccendere le luci di una razionale e consapevole moralità a tutto vantaggio di un produttivo controllo dei rischi aperti dal nostro (spesso disastroso) agire (o piuttosto agitarsi?) si può e anzi si deve imparare, nuovamente, ad aver paura. Come si può fare?
Anche in questo caso Jonas avanza la sua proposta: quella di un’attenta e proficua euristica della paura, in virtù della quale «si dovranno apprendere nuovamente il rispetto e l’orrore per tutelarci dagli sbandamenti del nostro potere […]. Il paradosso della nostra situazione consiste nella necessità di recuperare dall’orrore il rispetto perduto, dalla previsione del negativo, il positivo: il rispetto per ciò che l’uomo era ed è, dall’orrore dinanzi a ciò che egli potrebbe diventare, dinanzi a quella responsabilità che ci si svela inesorabile non appena cerchiamo di prevedere il futuro».
Riferimenti bibliografici
M.A. Foddai, La paura necessaria, “Ricerca”, 2 Luglio 2012.
H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P. Portinaro, Einaudi, Torino 1990.
H. Jonas, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, a cura di P. Becchi, Einaudi, Torino 2000.
E. Pulcini, Metamorfosi della paura nell’età globale, “Thaumàzein”, 2 (2014).
E. Spinelli, Climate Change, Philosophical Reflections and Moral Responsibility: Hans Jonas and the Future of the Biosphere, in G. Gioia (a cura di), Casting light on climate change, ETS, Pisa 2019.