A noi ora importa, invece, la cosa solo in quanto si dà nella percezione.
Gernot Böhme

Uscito nel 1940 in Francia per Gallimard, Malempin fu pubblicato in Italia nel 1960 da Mondadori con il titolo Ricordi proibiti. Georges Simenon lo aveva scritto in un periodo particolare della sua vita, nel 1939, quando stava per diventare padre per la prima volta e viveva le ansie per un profondo cambiamento privato ma anche per l’inesorabile procedere degli eventi che avrebbero portato allo scoppio della seconda guerra mondiale. I “ricordi” citati nel vecchio titolo italiano del romanzo (cui Adelphi preferisce restituire l’originale francese) sono quelli di Edouard Malempin, padre di famiglia e medico che vive ed esercita la professione a Parigi. Narrato in prima persona come Lettera al mio giudice e Gli altri, con l’espediente metaletterario della missiva o del diario, Malempin restituisce l’esperienza percettiva del presente in una prosa impressionista, in cui l’attenzione è costantemente spostata da un oggetto all’altro, da una sensazione all’altra; con gli stessi strumenti fotografici, Simenon ricostruisce il passato del protagonista per frammenti che dapprima faticano a concatenarsi, per poi trovare una direzione, una linea del tempo e soprattutto un senso.

La dorsale narrativa del presente è costituita da un evento che impone un cambio di programma: Malempin è in partenza con la famiglia per una vacanza nel Midi, ha addirittura comprato un’auto nuova per affrontare il viaggio, ma il figlio più piccolo, soprannominato Bilot, contrae la difterite. Il padre non può far altro che curarlo e attendere che l’infezione si attenui oppure che si aggravi irreparabilmente: il destino di Bilot si chiarirà nell’arco di una decina di giorni, un periodo durante il quale Malempin si ritrae dal mondo esterno e si colloca al capezzale del figlio. La condizione obbligatoriamente statica e la preoccupazione dominante per il bambino lo portano a ritrarsi in sé stesso e a muoversi nel tempo, alla ricerca prima confusa e poi sempre più nitida della sua relazione con il proprio padre morto da tanti anni.

L’impossibilità di avviare la macchina dello spazio spinge dunque Malempin ad avviare la macchina del tempo. L’inazione del presente si rovescia in detection, in indagine sul passato, un’indagine destrutturata in cui, come sempre in Simenon, il non-detto prevale sul detto, se si parla di indizi veri e propri. Perché la memoria di Malempin è ricca di dettagli atmosferici e non di fatti. Il protagonista ricorda le domeniche di quando era bambino, trascorse nella casa degli zii materni in Aquitania, dove nessuno dei Malempin andava volentieri: «Litigavamo tutte le domeniche; a maggior ragione le domeniche di visita ai Tesson» (Simenon 2024, p. 26). Il dato atmosferico, in queste pagine in cui i primi ricordi si manifestano, è preponderante: «L’atmosfera era così opprimente che mi chiedo se non scoppiai a piangere anch’io» (ivi, p. 37) . Con una tecnica secondo cui «un dettaglio chiama l’altro» (ivi, p. 43), Simenon (attraverso il suo intermediario Malempin) ricostruisce un’atmosfera che irradia sentimenti negativi. È una considerazione di non poco conto nell’economia del romanzo: una narrazione in soggettiva, una detection nella memoria, quindi tutto un progetto orientato alla centralità della dimensione interiore, va a fondarsi su un oggetto esterno, appunto l’atmosfera, che permea i luoghi del romanzo, la fattoria dei Tesson, le conversazioni, il cibo, i corpi. Tutto contribuisce a questo senso di oppressione senza sfogo e senza sbocco, dalla realtà fisica verso il soggetto e non al contrario.

Simenon, attraverso un preciso lavoro estetico, ci permette di condividere l’oppressione di Edouard Malempin. Veramente rimarchevole e memorabile è il secco incipit del lungo flashback: «Non pioveva» (ivi, p. 26). Da qui, una lunga e articolata serie di descrizioni strappate alla memoria. Partiamo dagli elementi cromatici e luministici: nelle sue domeniche di bambino c’era «un cielo incolore, con altra acqua in sospeso; una luce proveniente dal nulla, che non dava ombre né rilievo agli oggetti, evidenziando la crudezza dei toni» (ibidem). Dallo spazio si irradiava un sentimento che si traduceva, nel soggetto, in un atteggiamento di evidente topofobia: «avevo paura del color verde cupo che d’inverno assumono i campi paludosi, che a tratti ghiacciano in chiazze d’acqua da cui spuntano maligni ciuffetti d’erba; avevo paura degli alberi che si stagliavano contro il cielo […]; quanto alla terra da poco arata, il suo marrone scuro mi dava la nausea» (ivi, p. 27). E poi: «Perfino le siepi, d’inverno, avevano un aspetto maligno» (ibidem).

Passiamo alle impressioni motorie, fondamentali per definire una relazione soggetto-luogo: «Avevo la sensazione angosciante di un universo vuoto dove le mie gambette non osavano avventurarsi» (ibidem); e anche «mi guardai intorno e la stanza mi apparve immensa» (ivi, p. 36). Citiamo gli elementi sonori: «Prima di entrare, [mio padre] batteva a lungo le scarpe sulla soglia» (ibidem). E quelli olfattivi e tattili: «Dovetti baciare le guance rosee e profumate di zia Élise, poi il viso al tabacco di zio Tesson» (ivi, p. 31). Altrettanta importanza rivestono i caratteri comunicativi, conversazionali, che Simenon allestisce con un’attenzione speciale per combinare negatività e opacità: il ragazzo non capisce perché, ma sente l’atmosfera ostile nelle parole degli adulti, nella spigolosità degli atteggiamenti, nel risentimento delle reazioni al più piccolo stimolo – «Zia Élise fissava con irritazione mia madre» (ivi, p. 36).

In queste magnifiche pagine atmosferiche, dunque assolutamente pre-narrative, Simenon getta quasi alla rinfusa oggetti iconici a vocazione drammatica, come a creare le condizioni di uno sviluppo causale, ma la relazione del set-up con il pay-off, della semina con il raccolto, è tutt’altro che serrata e ravvicinata, e a dominare è piuttosto la frustrazione della falsa pista, del vicolo cieco. Pensiamo a come fa cadere l’occhio su un coltello a serramanico che sia il padre di Edouard sia il garzone di famiglia utilizzano durante il pasto, come se fosse una posata, senza assegnare a questa descrizione nessun tipo di valore drammaturgico, ma proprio per questo disseminando inquietudine.

A intervallare la domenica dai Tesson di tanti anni prima, Simenon taglia l’atmosfera del passato e torna al presente, quindi il bambino Malempin ogni tanto ridiventa adulto e padre, fermo dinanzi al figlio malato. Ma poi torna inesorabilmente al passato, suggerendo che c’è qualcosa da cercare, qualcosa di importante, tanto che un’analessi è annunciata dalla frase: «Non ho alcuna certezza di arrivare alla verità» (ivi, p. 64). Ma ci può essere verità nel vissuto? Ora la storia di Edouard Malempin prende la forma più canonica del romanzo di formazione (l’adolescenza e i suoi turbamenti, da cui i “ricordi proibiti” del primo titolo italiano dell’edizione Mondadori) e fila più dritta non tanto verso la verità quanto verso l’unico scioglimento possibile, la vita. Dopo un largo giro, passato e presente si riannodano, la faglia temporale si richiude e la vita ricomincia, dunque non ha più senso stare a pensarci su.

Riferimenti bibliografici
G. Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale della percezione, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2010.

Georges Simenon, Malempin, Adeplhi, Milano 2024.

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