Divaricato in due lunghe parti (l’attraversamento di una foresta e il ritorno a casa), pervaso da una luce livida e abbacinante, in un grumo di bianco e nero dove si diffonde un clima allucinatorio, Genus Pan di Lav Diaz è un film sulla natura animale dell’essere umano, il residuo dell’ominide, dello scimpanzé (Genus Pan, il genere Pan) che vive nel sottosuolo della nostra psicofisicità. Su un’isola sospesa nel tempo, tra i fruscii e le voci animali che la percorrono, tre uomini, il giovane Andres, Baldo e Paulo, tutti lavoratori sfruttati in una miniera, si mettono in cammino per inoltrarsi nella foresta e fare ritorno al villaggio, dall’altra parte dell’isola.

Un’isola “mistreriosa”, piena di sortilegi, che sembra uscita dalle pagine di Stevenson, o di H.G. Wells o di Melville. Si tratta di un attraversamento filogenetico lungo un cammino che è un risalire il tempo dell’umano, verso le origini animali. Il respiro della terra, il fremito degli alberi, la notte incipiente mettono i tre l’uno di fronte all’altro fino a scatenare tra di loro una dinamica insieme di espiazione e redenzione. Suggestioni evangeliche si succedono: i tre dormono nel bosco come gli apostoli, Paulo si atteggia come un santo a invocare il cielo, si parla del tempo di Quaresima, comincia a respirarsi un’aria sacrificale. Finché risuona dall’alto uno strano richiamo, come d’uccello. Baldo lo identifica con un misterioso “clown” e rievoca il numero degli uomini-geco che faceva con Paulo in un circo.

Intanto si insinua, come in Dostoevskij, il tema del denaro e del senso di colpa, mentre incede la regressione animale. Diaz sembra ripercorrere come nel Buñuel di La selva dei dannati quella circolarità che involge il percorso dei personaggi. Andres aveva chiesto all’inizio dei soldi che Baldo aveva trattenuto dalla sua paga, senza ottenerli. Ora Paulo, invaso da uno spirito di carità, fa in modo che Baldo li dia ad Andres. Ma nel buio, nel folto del bosco, qualcosa accade: Baldo uccide Paulo davanti allo sguardo di Andres.

Con il ritorno di Andres al villaggio si apre la seconda parte dove comincia una sorta di calvario per Andres. Appare un personaggio femminile, Mariposa, figlia di Baldo, dal nome di farfalla (ma chiamata anche tartarughina, evocando l’antico nome dell’isola “Tartaruga dormiente”, all’epoca dei contrabbandieri, prima che diventasse “Huguaw”, che vuol dire “sporca”) una creatura zoppicante che incede come ipnotizzata. Qualcosa è avvenuto: Baldo non è ritornato, la moglie lo attende invano. Appare un persecutore, Iingo che, come uno Iago shakespeariano, induce il sospetto di un’altra versione dell’omicidio, inducendo Mariposa a raccontare che il vero colpevole del duplice assassinio è Andres. Come in Rashōmon di Kurosawa vediamo l’altra versione dell’omicidio. Mentre si celebra con processioni di penitenti la Settimana Santa, Andreas viene giustiziato, colpevole-incolpevole. Un lento, implacabile movimento di macchina lascia nel fuoricampo l’esecuzione.

Diaz procede a un lavoro sul tempo imbricato e dissolto nell’allucinatorio, scompaginando l’immagine e disseminandola lungo un tempo congetturale, immerso nei suoi tipici campi lunghissimi e insieme dipanando le durate in modo da far “abitare” lo spettatore nel paesaggio insieme reale, ma dove si raggrumano le allucinazioni che ne dilatano il senso, sospendendolo eppure facendo toccare allo spettatore la sua consistenza, facendo lievitare il fuori campo. L’isola maledetta, il viaggio allucinante ci trascinano inesorabilmente in un film che più che essere visto sembra fatto per essere vissuto. Per invitarci a una paradossale consapevolezza, allineando involuzione ed evoluzione come due forze contrastanti eppure coesistenti, in modo da procedere a un riscatto della visione che necessariamente ne penetri il fondo panico.

È curioso che “Pan” sia insieme il dio della natura selvaggia, assorbendo e in certo modo sacralizzando nelle sue zampe caprine il lato animale, e insieme sia il termine che Diaz usa per definire il genere ominide, e ancora sia contenuto in una condizione attuale pandemica, che ci mette di fronte a un salto virale dall’animale all’uomo. Ci sembra tale la riflessione segreta di questo film in cui ancora una volta Diaz riesce a penetrare nel nostro stato percettivo, ipnoticamente alterandolo. Una riflessione che lui stesso esprime con queste parole, con le quali ci piace chiudere:

Nonostante la specie umana sia la più sviluppata, la maggior parte di noi reca ancora in sé l’atteggiamento dello scimpanzé, il genere Pan, degli ominidi, la grande famiglia di primati. Dunque, per nostra stessa natura, siamo violenti, aggressivi, ossessivi, trasgressivi, invidiosi, territoriali, narcisisti ed egocentrici, esattamente come il nostro cugino, il genere Pan. Tuttavia c’è speranza. Gli studi sostengono che il cervello umano si stia ancora sviluppando e, dopo che questo processo sarà definitivamente compiuto, l’uomo sarà completo: una specie pienamente realizzata, altruista, pura e vera, esattamente come Buddha, Gandhi, Cristo e l’agricoltore Mang Osting che generosamente provvede alle mie esigenze vegetariane. […]  Ho sempre desiderato realizzare un film sugli animali. In realtà sull’uomo come animale, l’uomo che si comporta autenticamente come un animale, così come ha fatto, comunque, per tutta la sua vita.

Lahi, Hayop (Genus Pan). Regia: Lav Diaz; sceneggiatura: Lav Diaz; fotografia: Lav Diaz; montaggio: Lav Diaz; musiche: Lav Diaz; interpreti; Bart Guingona, Don Melvin Boongaling, Nanding Josef, Hazel Orencio, Joel Saracho, Noel Sto. Domingo; produzione: sine olivia pilipinas (Lav Diaz); origine: Filippine; durata: 157’.

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