Nell’arco di un decennio la categoria di modernismo è entrata nel panorama critico, per quanto ancora i confini cronologici e la definizione del canone rimangano questioni fluide. La nascita del modernismo italiano di Mimmo Cangiano (2018), edito per Quodlibet, si inserisce nel dibattito per mettere a sistema le varie voci e idee che hanno popolato la cultura italiana di inizio secolo, negli anni in cui, appunto, la corrente modernista stava prendendo vita in Italia. Il lavoro prende le mosse dalla riflessione di Lukács: irrazionalità e cultura della crisi (gnoseologica e del sistema platonico-hegeliano), conseguenti alla morte di Dio, sono la genesi della cultura modernista in Europa, ovvero della scomparsa «del sopramondo simbolico in grado di riempire di significato la contingenza delle nostre idee, azioni, parole» (Cangiano 2018, p. 11). La premessa lukácsiana converge verso una chiarificazione di senso, rintracciando la “logica culturale” che passa per la razionalizzazione delle contraddizioni della modernità. L’oggetto del discorso viene rintracciato nel dialogo tra la dimensione filosofico-culturale con quella storico-sociale, per mostrare il rispecchiamento tra modernismo e borghesia. Per fare ciò il lavoro si concentra sulla storia degli intellettuali, su coloro che seppero diffondere (a favore o per contrasto) le idee moderniste attraverso la lettura di Nietzsche, Bergson, James, ma anche Mach, Boutroux, Weininger, Poincaré, dall’epoca giolittiana, alla Prima guerra mondiale poi, fino ad arrivare all’annus horribilis del 1922 che segna il capolinea cronologico del volume.

Al pensiero di Lukács, Cangiano affianca quello di Eugenio Garin, vero iniziatore della riflessione critica sul modernismo. Da lui l’autore riprende una delle questioni principali del volume: la messa a fuoco del contesto culturale, che Cangiano mette a confronto con il dibattito americano e inglese, è testimonianza dell’erronea vulgata sull’arretratezza dell’Italia. La portata del modernismo non si appiattisce come cultura occidentale-borghese tout court, ma tende a una lettura non omogenea, nel rispetto della particolarità del caso italiano che, seppur radicato in dinamiche culturali, letterarie e filosofiche europee, presenta una formalizzazione propria. Uno dei tratti peculiari è, come Cangiano giustamente osserva, il «rifiuto del romanzo» (ivi, p. 17).

Lo scopo del volume è perciò quello di mostrare le vie carsiche che percorre la cultura modernista per entrare in Italia; ma chi sono i pionieri dell’età della crisi? Cangiano sceglie di non trattare i nomi più canonici (Svevo, Tozzi, Montale), ma di concentrarsi sulle voci spurie che meglio rappresentano il coacervo di riflessioni che esprimono la crisi epistemologica. Questo ha la finalità ulteriore di contrastare il presunto stato di minorità del modernismo italiano, che non coinvolge appunto un numero esiguo di letterati, ma si costituisce come la componente culturale egemone. Sotto questo aspetto, uno dei punti più interessanti e centrali del volume, è l’analisi del gruppo della “Voce”, a lungo lasciato in sospeso dalla critica. Inoltre, individuare nel gruppo di letterati che ruotavano intorno a Prezzolini uno dei crocevia della cultura modernista è utile anche per definire (o ridefinire) cosa sia stato il modernismo italiano.

L’eccezione, all’assenza dei modernisti italiani più noti, è rappresentata da Pirandello. Sulla via inaugurata da Salinari, Cangiano vede ne I vecchi e i giovani (1909) la messa in atto della poetica dell’Umorismo. Il sentimento del contrario decostruisce la visione progressiva della storia di matrice idealista, in favore dell’immagine del “flusso”: nella distanza incolmabile tra vita e forma, il divenire, scaturito dalla relativizzazione, esprime il paradosso per razionalizzare la realtà, che si rimodula attraverso una mobilità continua in principio statico. Le cause storiche di questo processo sono individuate da Pirandello nel costituirsi della fase post-Risorgimentale, in cui “il tempo della parola” ha aperto il campo a una crisi totale e assoluta dei valori, degli ideali e della conoscenza, che viene rimodulata su un piano antropologico.

Individuare agli esordi del modernismo, perciò, la relativizzazione della conoscenza e l’atomizzazione della società, lo qualifica come una posa (agonistica) verso la modernità, avvertita come “malattia”, a cui ogni intellettuale tenta di trovare una propria “cura”. La tensione del volume sta proprio, nonostante la lunghezza considerevole, nel bilanciare le forze centripete e centrifughe, in cui a una sistematizzazione delle idee moderniste, corrisponde l’analisi con cui gli intellettuali se ne distanziano. Il lavoro perciò si modula attraverso quattro coppie, quattro pose di fronte alla modernità: Papini – Prezzolini, Soffici – Palazzeschi, Boine – Jahier e Slataper – Michelstaedter.

Papini e Prezzolini sotto questo aspetto sono le figure più interessanti per trattare di un modernismo agli esordi, non compiuto, ma sentito come fase necessaria. La caduta della totalità, per Papini, porta alla negazione di sistemi generalizzanti (scienza e filosofia), a cui subentra una pre-comprensione psicologica e sentimentale. La parzialità gnoseologica qualifica l’intellettuale come «individuo superiore» nel terreno del contingente, che rifiuta l’atteggiamento contemplativo in favore dal «fare», ovvero «il primato dell’agire che segue al riconoscimento del valore strumentale/ideologico delle teorie» (ivi, p. 91). L’«Uomo-Dio» insomma è la risposta di Papini per domare la crisi gnoseologica. La stessa direzione soggettivistica-pragmatistica è quella seguita da Prezzolini: per lui la crisi della parola ha aperto lo spazio per l’agire dell’intellettuale, per la sua capacità persuasiva di guida delle masse al tempo della dispersione del senso. Opinione che si consolida a contatto con l’idealismo crociano (al contrario di Papini), in cui trova «il superamento della sfera della gnoseologia nichilista mediante quella partecipazione al reale che è partecipazione al farsi» (ivi, p. 166). La funzione psicologica-sentimentale è motivo per Cangiano di rileggere l’irrazionalismo lukácsiano, usato superficialmente da tanta critica marxista, che lontano dall’estetismo dannunziano, permette di interpretare le idee di Papini e Prezzolini non come una forma di attardato misticismo, ma come la nuova prospettiva filosofico esistenziale, ovvero modernista.

Il particolarismo però, che segue alla dispersione della conoscenza, porta a leggere in ideologie quali il nazionalismo la risposta per contrastare la crisi della modernità, espressione del capitalismo-liberale giolittiano. Affine è il caso di Soffici che, dopo una prima fase nichilista in cui la relativizzazione del reale è garante per la decostruzione di ogni gerarchia e processo totalizzante, individua nel fascismo la rappresentazione dell’idea di stile, nel tentativo di formalizzare la realtà. Palazzeschi, invece, non attua una sintesi tra totalità e frammento, optando per una posizione vitalistica di anarchica consapevolezza del senso. Il formalizzarsi in posizioni regressive (nazionalismo, imperialismo e fascismo) è perciò conseguenza della relativizzazione della realtà e della società. In altre parole, per Cangiano il modernismo è in rapporto dialettico con le ideologie reazionarie che si concretizzano all’alba della Prima guerra mondiale.

Se quindi la ricostruzione di senso, per quanto parziale e soggettiva, è implicita nel modernismo, anche la posizione etico-moralistica di Boine e Jahier può essere letta come un riscatto teologico, che si concretizza in un intervento politico-economico conservatore e anti-capitalistico. Per Slataper invece la crisi modernista permette la riqualificazione dell’etica individuale che, operando attraverso il primato della cultura, è garante di certezze valoriali. In conclusione, troviamo Michelstaedter, colui che per Cangiano meglio ha saputo mettere in luce i nodi e i paradossi della cultura modernista. Lungi dal ripiegarsi in un nichilismo gnoseologico, la riflessione di Michelstaedter introietta l’atomizzazione sociale per riemergere in una prospettiva comunicativa, rimanendo in una dimensione di relativizzazione, a cui solo la persuasione può trovare un freno.

La nascita del modernismo partendo da Lukács, ricostruisce la riflessione culturale-filosofica modernista, i cui poli sono il relativismo e l’atomizzazione sociale, da Giolitti a Mussolini, connessa con l’idealismo crociano, con il fascismo (compresi i suoi precedenti nazionalismo e imperialismo) e con il modernismo teologico. Ciò non vuole essere un mero parallelismo che riconosce una compresenza di idee nella cultura italiana, ma le pone in rapporto dialettico, come sintesi di percorsi collettivi che a loro volta si esprimono nella peculiarità della singola persona (a ciò si deve la divisione dei capitoli in coppie binomiali). Ancora di più perciò emerge che il modernismo ben lungi da essere un movimento programmatico è una categoria critico-storiografica che partendo da una comune matrice si è andata delineando attraverso gli intellettuali che l’hanno attraversata, vissuta o respinta.

Mettere a sistema un intero periodo culturale (tralasciando le avanguardie che ovviamente fanno sistema a parte), poggiando su un’aggettivazione del modernismo ampia, permette di evitare angoli ciechi (soggetti ignorati o esclusi in virtù di qualche eccezionalità che invece di rendere coerente il discorso minacciano di minarlo), spesso insiti in qualsiasi categoria. D’altro canto, il rischio è forzare la questione, condizione tipica di tutti gli -ismi come ha mostrato Debenedetti; pericolo che Cangiano aggira rimanendo fedele alla pluridimensionalità degli intellettuali analizzati, di cui molto spesso il modernismo rappresenta solo il punto di partenza (la posa antagonistica verso la modernità dicevamo).

Se riscontrare delle tangenze con il modernismo non rende Papini o Soffici pienamente dei modernisti, per scrivere la storia delle idee bisogna guardare da lontano, a costo di creare una frizione tra prassi letteraria e teoria filosofica-culturale. Rischio che Cangiano è pronto ad affrontare proprio per dare concretezza a una situazione culturale, sistematizzandola intorno a un punto gravitazionale forte: la crisi modernista della realtà, della sua conoscenza e rappresentazione e di conseguenza della figura dell’intellettuale. Trovo più problematico non operare un distinguo tra modernismo come epoca culturale e come produzione artistico-culturale che in sostanza avrebbe permesso un chiarimento tra letteratura e idee.

Il valore del volume è, perciò, quello di saper demarcare all’interno dei confini temporali precisi (1903-1922) la situazione politica-sociale, quella del consolidamento in Italia del liberismo giolittiano fino al fascismo, collegandola a un gruppo di intellettuali spesso trascurati della critica modernista. Dopo questa generazione, la storia d’Italia entra in nuova stagione e, come lascia intravedere Cangiano, anche il modernismo.

Riferimenti bibliografici
M. Cangiano, La nascita del modernismo italiano, Quodlibet Studio, Macerata 2018.

*In copertina A. Malfatti, A Onda, 1917.

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