Cos’è una donna? Sembra una domanda innocua, ovvia. Cosa c’è di più evidente di una donna? In realtà dalla risposta a questa domanda, ammesso appunto che sia una domanda sensata – perché come tutte le domande che cercano l’essenza di qualcosa ha preliminarmente già deciso che quell’essenza debba esistere, ciò che non è affatto scontato – derivano, evidentemente, significative conseguenze politiche e morali:

Forse il problema non è tanto nella nostra incapacità di rispondere (alla domanda “cos’è una donna”?), quanto nella nostra – all’apparenza innocente – “volontà di sapere”. Questa aspirazione alla conoscenza ci sembra l’espressione di un desiderio del tutto legittimo di avere accesso alla verità sul nostro corpo e sui corpi degli altri. La domanda “che cos’è una donna?”, però, non è una domanda inoffensiva: ci sono risposte che possono limitare la libertà di alcune persone e legittimare l’esercizio di forme sistematiche di violenza (Tripaldi 2023, p. 5).

La questione è quella della “verità” di un corpo, e in particolare del corpo della donna (un corpo molto più interrogato di quello maschile, e già da questo si comprende quanto non si tratti di una domanda non innocua). Ma appunto, perché dare per scontato che questa essenza esista, cioè che da qualche parte possa esistere la “verità” di qualcosa, in questo caso la “verità” – cioè ciò che è in sé – del corpo della donna? Come abbiamo appena detto tutte le volte che si chiede qualcosa la domanda stessa pregiudica la risposta, nel senso che predetermina lo spazio delle risposte ammissibili. La domanda, in questo caso, ottiene il suo effetto indipendentemente dalla risposta che si riceve, perché il punto dirimente era che l’essenza esistesse, non quale fosse (si può rispondere che l’essenza è questa o quest’altra, ma comunque esiste). In questo senso, appunto, «pronunciare la verità sui corpi significa dichiarare il diritto all’esistenza di alcuni e scegliere di condannarne altri alla marginalità e all’oppressione» (ivi, p. 6). In effetti la domanda sull’essenza di qualcosa è sempre anche, e soprattutto, una domanda politica, se non addirittura poliziesca: se qualcosa è un x, allora non può anche essere un y, sarà anzi vietato che sia qualcosa di diverso da un x.

Quando, davanti a un corpo, ci chiediamo “che cos’è”, stiamo comprimendo nello spazio sottilissimo della parola “è” la profonda stratificazione di processi tecnologici che ci hanno permesso di conoscere e costruire la sua identità. Questo è vero per tutti i corpi, ma è particolarmente importante quando i corpi di cui parliamo sono soggetti politici, come nel caso della donna. Come dispositivi di costruzione e trasformazione dei corpi e delle identità, le tecnologie diventano oppressive ogni volta che la loro profondità viene dimenticata o nascosta, e il risultato della loro mediazione viene trasformato in un’affermazione, apparentemente immediata, su quello che un corpo “è” (ivi, p. 9).

Ogni procedura che si applichi su qualcosa – a partire da quella più elementare che ci sia, che consiste nel dare un nome ad un’entità (è il nome che “decide” che qualcosa esiste come entità e non come processo, ad esempio) – modifica quello stesso qualcosa che cerca di studiare. In questo senso la tecnologia non è mai neutrale, e il luogo comune che l’uso di uno strumento non dipende dallo strumento stesso, non è altro, appunto, che una affermazione che trascura completamente l’agentività intrinseca della tecnologia. Per capire che cosa significhi, allora, rispondere alla domanda “che cos’è una donna” dobbiamo tenere in conto non soltanto la “natura” della “donna”, ma anche i modi – cioè appunto le tecnologie – con cui si stabilisce una relazione con la “donna”.

Se ora torniamo alla domanda “che cos’è una donna” si possono avere, in generale, due tipi di risposte: quella di chi sostiene che la risposta dipenda direttamente dalla biologia – ed in ultima istanza dalla genetica (le donne hanno due cromosomi X, gli uomini sono invece XY, tralasciando tutti gli altri casi possibili) – oppure che dipenda da come la società, ed in ultima istanza il singolo soggetto decida quale sia l’identità di un certo corpo, se femminile o maschile o un’altra ancora, indipendentemente da quanto sia “inscritto” nel genoma. Per questa seconda risposta la biologia non determina un destino immodificabile. Mentre per la prima risposta donna si nasce, e non lo si diventa, per la seconda invece donna si diventa, e non lo si nasce (ammesso e non concesso che ci siano solo due modalità di essere, femminile o maschile). La proposta di Laura Tripaldi cerca di evitare questo dualismo, perché mentre la prima esclude ogni partecipazione soggettiva alla determinazione del genere (è il sesso che determina il genere), la seconda, al contrario, esclude ogni partecipazione del corpo alla determinazione del genere (prima il genere poi il sesso). Laura Tripaldi da un lato vuole salvaguardare la storica scoperta del femminismo (la biologia non è un destino), dall’altro, però, vuole salvaguardare anche l’autonoma e tenace agentività del corpo:

Il motivo per cui sono una donna (e non un elicottero) non può essere ridotto alla natura materiale del mio corpo; quello che io esperisco come un “corpo femminile” non è, cioè, il risultato di un’essenza profonda e immutabile, ma il prodotto di un insieme di pro­cessi tecnologici immersi nella società e nella storia. Questo non significa, d’altra parte, che la mia identità non abbia nulla a che fare con il mio corpo. Le tecnologie di genere agiscono su e attraverso la materia come un campo di forze, costruendo il corpo tanto sul piano materiale quanto sul piano dell’im­maginario (ivi, p. 8).

Prendiamo il caso della pillola contraccettiva, in apparenza un semplice dispositivo tecnico-scientifico che in linea di principio dovrebbe solo risolvere un “problema” determinato, evitare il “rischio” di una gravidanza indesiderata. Già in questa formulazione è evidente quanto la tecnologia incida sull’idea che una donna ha, o può avere, di sé stessa. In effetti già vedere nella “gravidanza” un problema da risolvere rimanda ad una idea della donna e del suo ruolo nella società, un’idea di cui non discutiamo qui, ma questo non significa che ci sia una certa immagine della donna e del suo ruolo sociale alla base in una pillola che vorrebbe presentarsi come qualcosa di neutrale e asettico. Si pensi, un esempio a cui Tripaldi dedica diverse pagine estremamente interessanti, all’uso della pillola non come contraccettivo ma come regolatore dell’umore (ad esempio per evitare gli sbalzi emotivi durante le mestruazioni): «Non posso fare a meno di chiedermi se la ricerca di una soluzione farmacologica al “problema” della femminilità non nasconda una legittima­zione implicita delle strutture sociali e politiche oppressive che rendono così difficile abitare il mondo in un corpo di donna» (ivi, p. 41). Intesa in questo modo pillola diventa immediatamente anche un dispositivo bio-politico:

La mia esperienza con la pillola contraccettiva ha iniziato a diventare inquietante quando ho cominciato a sospettare che la mia dose quotidiana di steroidi sintetici avesse modificato la mia sessualità, il mio modo di relazionarmi con le altre persone, il modo in cui le altre persone si relazionavano con me, e il modo in cui facevo esperienza delle mie emozioni. A un certo punto ho iniziato a pensare che la pillola avesse cambiato la mia identità in un mo­do così radicale da avermi trasformata in un’altra persona. Da una parte, questa mi appariva come una conseguenza ovvia: se gli ormoni sono così determinanti nella nostra biologia ripro­duttiva, è inevitabile che intervenire sui nostri equilibri ormo­nali abbia un impatto enorme anche sulla nostra vita emotiva, affettiva, sessuale e sociale. D’altra parte, l’idea che un paio di molecole sintetizzate in laboratorio potessero trasformare ra­dicalmente la mia soggettività mi sembrava del tutto inaccetta­bile. Era come ammettere di essere schiava della mia biologia (ivi, p. 59).

Si tratta allora di immaginare il corpo, e la sua sfuggente identità, né come qualcosa fissato in modo deterministico dalla biologia ma nemmeno come qualcosa che può prescindere dalla biologia, come pura assegnazione soggettiva, perché il corpo – come dimostra proprio il caso della pillola contraccettiva – reagisce per conto suo. In questo senso la pillola è una tecnologia medico-scientifica che modificando il corpo modifica anche la mente, e quindi l’immaginario del corpo. Dove tracciare, allora, il confine fra il sesso e il genere, fra la biologia e la sfera socio-politica? Dove stanno i corpi? I termini della relazione, per Tripaldi, non sono solo due – il corpo e la mente (il sesso e il genere), piuttosto sono tre: corpi, assegnazioni soggettive e tecnologie che permettono le relazioni fra i primi due termini. In questo senso ogni corpo è tanto un corpo artificialmente “naturale” quanto un corpo naturalmente “artificiale”. Muoversi all’interfaccia tecnologico fra corpo e società permette di pensare la tecnologia come una forza potenzialmente liberatoria:

Le tecnologie di genere, come la pillola contraccettiva, ci ricordano che tra la biologia e la società, tra la natura e la cultura, c’è un vasto territorio di confine: uno spazio in cui la separazione tra il genere come costruzione culturale e il sesso come dato biologico diventa profondamente ambigua. Cosa resta del costruttivismo dopo aver riconosciuto che la biologia è, a tutti gli effetti, profondamente connessa alla nostra identità? E cosa resta dell’essenzialismo se il discorso culturale in cui siamo immersi ha il potere di agire, attraverso la tecnologia, sulla biologia dei nostri corpi? (ivi, pp. 62-63). 

Non si tratta di negare il genere in nome del sesso, ma non è nemmeno possibile negare il sesso in nome del genere. Quella di cui abbiamo bisogno è una operazione di disgiunzione inclusiva, che tiene insieme tanto la separatezza di sesso e genere quanto la necessità della loro relazione mediata dalle tecnologia di genere. Liberarsi dall’essenza, per aprire lo spazio alla “libera” sperimentazione corporea:

Parlare dei corpi nei termini della loro “natura” e della loro “realtà”, come spesso accade nel contesto delle questioni di genere, significa di fatto rendere invisibile la complessità degli intrecci di sapere e potere che hanno permesso a quegli stessi corpi di prendere forma. La materializzazione non ha nulla a che fare con la realtà o l’irrealtà, con l’esistenza o con l’inesistenza di un corpo. È un processo che ci permette di riavvicinarci ai nostri e agli altri corpi rinunciando al verbo essere. In una cultura che pretende da noi una continua autodichiarazione di esistenza, che ci chiede incessantemente di dichiarare “chi siamo” e “che cos’è” il nostro corpo, rivendicare lo spazio tecnologico e poetico tra la realtà e l’irrealtà non è una scappatoia retorica ma una tattica politica di gioia e sopravvivenza (ivi, p. 132).

Laura Tripaldi, Gender tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne, Laterza, Bari 2023.

Tags     Donna, sesso, tecnologia
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