“Le cose vere non si perdono”: così recita uno dei versi del brano napoletano che la “matrigna” della storia che noi tutti conosciamo, Angelica Carannante, intona nel cabaret/bordello della nave Megaride ancorata nel porto di Castel dell’Ovo, la sera in cui comincerà a rendersi conto che sta perdendo proprio perché ha avuto fiducia in una verità inesistente. Ma Gatta Cenerentola, questo incredibile film rifacimento moderno del racconto di Giambattista Basile (dalla raccolta Lo cunto dei cunti, 1634) solo in seguito ripreso da Perrault e Grimm, esiste per dimostrarci che l’uomo – l’uomo animatore, l’uomo-artista, l’uomo-protagonista, l’uomo-spettatore – è capace di una strabiliante autenticità che si deve avere l’abilità di portare alla luce, potente come un fuoco d’artificio sul lungomare partenopeo.
L’opera di animazione del quartetto Rak, Cappiello, Guarnieri e Sansone è un coraggioso omaggio al tempo e all’identità, ancor più che alla città di Napoli e alla favola seicentesca. Nella nave Megaride, Vittorio Basile decide di costruire il Polo della scienza e della memoria: un laboratorio in costante attività in cui un foto-scandaglio dà vita ad un globo olografico di azioni, gesti, presenze passate, che continuamente si inseriscono nelle fessure del presente. Tuttavia non si tratta semplicemente (per modo di dire) di una futuristica macchina capace di “custodire le meraviglie per l’eternità” facendo sì che esse riaffiorino, più o meno inaspettate, di fronte a chi si muove negli spazi del transatlantico: attraverso i suoi giochi di luce che durante l’intera pellicola non fanno che risuonare nelle nostre orecchie con un “bzz” tutt’altro che freddamente tecnologico, il foto-scandaglio registra e riproduce la realtà ai fini di farla “scintillare” con quella presente; le scene ripescate indietro nella linea del tempo non vogliono solo essere preservate dall’oblio interrompendo saltuariamente lo scorrere del reale, chiedono piuttosto di essere fuse con l’”ora”, di essere destrutturate e di ristrutturare a loro volta l’hic et nunc. Nella scena di apertura del film, quella in cui la piccola Mia, futura Gatta muta e traumatizzata di una “soffitta marina”, ha perso la sua scarpetta e viene accompagnata nello studio del papà inventore da Primo Gemito, il futuro principe azzurro e schiumoso come le onde della notte che fa da guardia del corpo ad un uomo troppo puramente creativo per non essere pericoloso e attirare su di sé pericoli, già capiamo quale sarà la posta in gioco di tutta la storia. Primo Gemito, che porta nel suo nome la rinascita di cui dall’assassinio di Basile in poi, la notte stessa del suo fittizio matrimonio con Angelica, si sentirà responsabile, manifesta al suo protetto (ancora per poche ore) le sue perplessità sul mondo olografico che infesta i corridoi della Megaride.
Ha la sensazione di non vedere solo gesta del passato (remoto o prossimo) bensì anche “cose mai accadute”: perché? Il perché arriva sereno e cristallino da Basile, che gli dà la spiegazione chiave: la nave non sputa fuori solo le cose già avvenute, ma “ci osserva, ci elabora” e, cosa più importante, “ci rimette in scena”. Gemito stesso potrebbe essere un ricordo che “galleggia nel suo futuro”; più semplicemente, a Gemito potrebbe capitare di camminare davanti a sé, e di voltarsi e guardarsi già come un ologramma sbiadito. Se la nave ci ri-mette in scena, è perché attraverso l’incontro con la memoria ci induce a riautenticarci, ad essere noi stessi ancora un poco di più, a riconquistarci; ma è proprio in questa progressiva riconquista che passato, presente e futuro cortocircuitano facendoci sentire un secondo carne e quello dopo ologramma.
Questo tipo di processo diventa chiaro in una scena centrale del film in cui Primo, passati quindici anni e ormai eroe della favola in cui l’arte onesta di un padre e il destino crudele a cui è stata costretta una giovane orfana vanno vendicate, riesce ad entrare di nuovo nell’antico laboratorio di Basile ed incontra il se stesso ignaro (ma già spaurito) di quindici anni prima. Il commissario, che lo guida da lontano con una radiolina, lo sente improvvisamente ammutolire e lo incalza a parlare. “Un attimo commissario…un attimo” dice l’uomo, rapito e concentrato nella visione della sua proiezione olografica: sta avvenendo la fusione, quell’esplosione di temporalità che sola porterà ogni personaggio sulla retta via, donandogli coordinate che gli facciano percepire chi erano e chi saranno, in un vortice repentino di nuova, ma atavica, consapevolezza. D’altronde la Megaride è schermata dalle comunicazioni esterne perché lì dentro avvengono comunicazioni ben più urgenti e straordinarie, che non lasciano il “campo” a nient’altro: quelle con il proprio “io”.
In quei quindici anni vari eventi, e radicali, si sono succeduti: Basile è stato ammazzato, Angelica ha adottato Mia bistrattandola al fianco delle altre cinque figlie e del figlio “femminiello” (tutte prostitute all’Asso di Bastoni, il cabaret della nave), il vero “cattivo”, ‘O re, Salvatore Lo Giusto, ha pianificato alle spalle degli altri tutto questo. Per quest’ultimo Angelica è un’amante abbandonata ma da tenere “in caldo”, mentre l’inventore degli ologrammi ormai scomparso è il simbolo di tutto ciò che deve essere incenerito perché si torni alla vita cruda e crudele che compete al capoluogo campano, senza stare appresso ad inutili progetti onirici (salvo poi corromperli e sfruttarne venalmente l’eredità).
È oramai lui ad avere il controllo delle cose, lui che con il suo sguardo tagliente e bicolore dice al suo pubblico che tanto “chi s’è visto s’è visto”, che dunque rifiuta la riscoperta identitaria e il ritrovamento del tempo in nome di un superficiale e riduttivo vivere ogni momento come se esso recidesse, puntuale, tutto il resto. Ma poi anche ‘O re si tradisce perché la voce gli si rompe quando chiede ai suoi spettatori se si ricordano cos’è l’amore, perché quella bella donna che lo aspetta per anni e che infine ripudia per portare a compimento il suo fallimento, è il suo personale, intimo, carnale ologramma. Le bugie “gli hanno messo paura”, ad entrambi: se avessero assecondato la ricerca della verità della Megaride non si sarebbero persi, sarebbero sopravvissuti. La nave chiede di essere leali con se stessi, e forse non è un caso che, nel pulviscolo un po’ magico e un po’ opaco dei suoi corridoi e delle sue stanze, la maggior parte degli ologrammi siano pesci: pesci luminosi, brillanti, da tempo immemore simbolo cristiano di due fedeli che si incontrano e si giurano eterna fiducia nel completare, l’uno, il disegno della figura ittica tracciato nella sabbia dall’altro.
Ma l’azione più autentica, l’hanno fatta Rak e i suoi compagni, nel costruire un “papocchio” – come l’ha definito il regista – di generi narrativi e di ispirazioni estetiche, in cui venga una volta per tutte delineato il rischio che comportano i sogni ma la contemporanea impossibilità di rinunciare a cercare immagini salvifiche, far rifiorire un “senso” nella battaglia che comporta la sua faticosa ricerca. Del resto anche la famosa opera teatrale di Roberto De Simone, del 1976, tratta dallo stesso racconto e diretta da Domenico Virgili, è un vero e proprio melodramma “nuovo e antico”, in cui tra villanelle, moresche e tammurriate si va in cerca di un altro modo di esprimersi, “cantando per parlare e parlando per cantare”, incarnando le frasi in esperienze ripetute come il nascere, il morire e il fare l’amore. Cosicché alla fine tutti capiscano anche ciò che non si capisce solo a parole – come nella “canzone del Monacello” in cui la Gatta viene istigata a cambiare pelle, perché per vestirsi in un altro modo, più vero, più felice, bisogna osare spogliarsi ed esporre le proprie nudità.
In quella piccola scarpa perduta all’inizio – poi declinata nelle scarpe del commercio di Lo Giusto che volano nei manifesti pubblicitari aerei e che con un colpo da maestro ‘O re sgretola in finissima cocaina, fino ad arrivare al paio di scarpette di cristallo che acquisiscono un valore solo quando vengono tolte, perché sono i piedi scalzi che corrono o che si arrendono le “cose vere” – non c’è la volontà di ricreare una fiaba a lieto fine che scenda nelle profondità umane per poi riemergere nelle vesti di valore didattico (stile Disney-Pixar); c’è piuttosto lo schietto desiderio di mettere in una forma colorita e multi-linguistica – e una delle lingue più importanti, oltre al dialetto, è quella musicale, nelle sonorità neomelodiche/jazz/postmoderne di Daniele Sepe ed Enzo Gragnaniello – un immaginario condiviso che scardini il recente, ostentato, realismo cinematografico in nome di una veridicità più raffinata, che nasca a metà strada tra bene e male, nel caos doloroso e nella fantasia adulta. Nelle pieghe del volto animate dalle voci calde e sensuali di attori del calibro di Alessandro Gassmann, Maria Pia Calzone, Renato Carpentieri e Massimiliano Gallo.
Dopotutto si tratta di quello che Rak aveva già in parte realizzato nella sua altra opera sorprendente, L’arte della felicità (2013), in cui il protagonista (tassista) affermava di non ricordare più chi fosse, e un suo cliente lo redarguiva dicendogli che non significa nulla non ricordare, perché “siamo qui, siamo ora, siamo quello che possiamo, quello che ci riesce meglio”. Nella mobilità di quel taxi e nell’apparente staticità di questa nave che non salpa mai, viene rivelato il medesimo messaggio: il ricordo non va temuto come si teme un fantasma, un’àncora che blocca il futuro; quello che conta è sapersi costruire nel presente, ma riusciamo meglio se non ci perdiamo, tra le altre, le cose vere.
Riferimenti bibliografici
G. Basile, Lo cunto de li cunti. Testo napoletano a fronte, a cura di M. Rak, Garzanti, Milano 2007.
R. De Simone, La gatta Cenerentola: favola in musica in tre atti, Einaudi, Torino 1997.
H.G. Gadamer, Verità e Metodo (I vol.), Bompiani, Milano 2001.