«Il mio colorito è questo» ho detto io.
«Perché una volta ero di pietra.»
Avevamo lasciato Galatea, da qualche parte, nei recessi più profondi del nostro immaginario, in preda ai baci e alle carezze ardenti di Pigmalione: volendo ridurre ai minimi termini, la statua, frutto della sua arte sublime di scultore, aveva miracolosamente preso vita, discendendo dal piedistallo e avventurandosi nel mondo, a passo di danza, come donna nuova, libera, viva, al fianco del suo creatore-compagno.
Nella versione di Madeline Miller, la ritroviamo ancora donna, almeno apparentemente, ma rinchiusa in una specie di ricovero-prigione, in cima a una scogliera a picco sul mare: sono passati undici anni e Galatea è una creatura debilitata, sofferente, intrappolata in una soglia di chiaroscuri, tra il ricordo ottuso della pietra e il clamore asfissiante della carne. Pallida, ovviamente, ha le mani gelide, perché senza sole non può scaldarsi. Nella solitudine della sua cella percepisce se stessa come una macchia di colore (un ematoma) e lascia che le pareti di legno gradualmente la riassorbano. Gli altri (i medici, le infermiere) esistono solo in formato residuale, come umori sgradevoli sospesi nell’aria, tracce invisibili, ingombri. Ma deve mostrarsi viva in loro presenza e si sforza di variare: abbassa lo sguardo, si torce le dita, piange, prova a svenire, respira, mugugna. Sente ancora la necessità di provare la sua esistenza, eppure le viene vietata qualsiasi cosa, perfino passeggiare: il suo giaciglio è un’orrida tomba, da cui non può più destarsi, se non per accogliere Pigmalione, che spesso viene a trovarla.
Mi sono sdraiata per bene, sistemandomi nella posizione giusta. È facile, perché mi sono allenata molto, e poi perché credo che ci sia una parte di me, la parte di pietra, che conserva la memoria ed è ben contenta di ritrovare la sua antica forma. La sola cosa difficile sono le dita, cui mio marito ama dire di aver dedicato un anno intero per farle apparire reali invece che immobili e inerti, come l’opera di certi scultori indolenti. Quindi devo concentrarmi e tenerle proprio come piace a lui, se no si rovina tutto (Miller 2021).
Non si può dire che le visite di Pigmalione siano propriamente gradite, anche se Galatea sente la sua mancanza (e quella della loro unica figlia Pafo, venuta al mondo a nove mesi dalla sua creazione), perché l’unico desiderio dell’uomo è quello di mettere in scena, sempre nello stesso modo, il momento dell’animazione, rivivendo ogni volta l’estasi originaria, accompagnata da quell’indelebile, accecante, esaltante senso di onnipotenza. Si sdraia su di lei, comincia a toccarla, a baciarla, a invocare la Dea, a ordinarle di prendere vita, fino a quando non avverte il calore e non nota il rossore sulle sue guance di marmo: «Quello è il momento: apro gli occhi, occhi rugiadosi da cerbiatta, e lo ammiro, immobile su di me come il sole, e ansimo appena di stupore e gratitudine, e poi lui mi scopa» (Miller 2021). Pigmalione non è mai andato oltre il marmo, continua a vedere Galatea come la sua opera, contemplandone la perfezione e, inevitabilmente, notando tutti i “difetti” causati dalla metamorfosi. La vuole statua, eterna bell’addormentata, arrendevole, disponibile, utile a sufficienza, muta.
E invece, per quanto si sforzi di assumere sempre e comunque la posa della supplice e di assecondare il suo delirio, questa meravigliosa, tiepida, bianca moglie-figlia-sorella-amante inaspettatamente parla, ride, pone delle domande, prova dei sentimenti, rivendica, lo contraddice, tenta perfino la fuga in un frangente della storia (ed è per questo motivo che adesso vive reclusa), invecchia, porta sul corpo i segni della gravidanza, è madre di una bambina, a sua volta pallida come il latte, intelligente e curiosa, con cui ama trascorrere del tempo e imparare cose nuove. Per un narcisista con turbe compulsive – folle manipolatore, innamorato eccessivo, geloso e scettico senza saggezza e senza misura –, secondo cui non esiste donna degna del suo amore (non è un caso se ha deciso di plasmarsene una, assecondando il suo proverbiale disgusto per tutte le abitanti del pianeta terra), si tratta di uno stato di cose che non può essere tollerato. Deve però fare i conti con la realtà – incontrovertibile, animalesca, resiliente – della sua creatura, diventata a sua volta creatrice, e con il potenziale di reversibilità (e di biunivocità) celato in ogni processo metamorfico.
L’autrice di questo prezioso racconto, condotto attraverso parole e immagini che si corrispondono in un’armonia liminale di suggestivi raddoppiamenti e stratificazioni (al testo originale di Miller si accompagnano, infatti, ben 34 tavole illustrate di Ambra Garlaschelli, tutte costruite sui toni del nero, del grigio, del bianco e del rosa, ossia i cromatismi evocati nelle prime versioni del mito), si fa carico di un’operazione piuttosto audace, già in parte brillantemente condotta per i suoi due romanzi precedenti, La canzone di Achille del 2011 e Circe del 2018: confezionare una nuova veste narrativa alla figura mitologica di Galatea, che da più di duemila anni preserva una sua peculiare centralità letteraria, artistica e critica, e che continua a cambiare pelle di versione in versione, manifestando sempre e comunque (verrebbe da dire, suo malgrado) un incontestabile appeal transmediale.
Le tracce dei suoi passaggi sono visibilissime ovunque: dall’episodio contenuto nelle Metamorfosi (8 d.C.) di Ovidio ai Pigmalyon di Jean-Jaques Rousseau (1765) – ufficialmente il primo melodramma della storia – e di George Bernard Shaw (1912) – da cui è tratto il musical My Fair Lady (portato sul grande schermo da George Cukor nel 1964), passando per altre rielaborazioni più o meno apocrife come Il racconto d’inverno (1610-1611 ca.) di William Shakespeare, Frankenstein (1818) di Mary Shelley o la novella Gradiva (1903) di Wilhem Jensen (resa celebre dalla rilettura di Freud), solo per citare i casi più conclamati. Un originale studio di Victor I. Stoichita (2006) considera il mito dello scultore e della statua alla base dell’arte simulacrale e, nel definire il cosiddetto “effetto Pigmalione”, problematizza il legame teorico con il mondo del cinema e con il fenomeno del divismo: è o non è ogni star una sorta di misteriosa divina creazione generata dallo sguardo desiderante di un regista? Allo stesso modo, il nucleo mitologico sopravvive a livello narrativo in tutti quei film che raccontano come nasce una stella – un motivo che, per chi si fosse distratto, questa rivista ha più e più volte affrontato negli ultimi anni.
Madeline Miller riprende soprattutto la carica erotica dei personaggi ovidiani, in tutto il loro spessore poetico, e la trasporta in uno spazio-tempo vergine, essenziale, indeterminato – lontano dai connotati metarappresentazionali riferibili ad altre celebri riletture del mito –, che ci riporta direttamente ai margini dell’enunciazione, alla voce della protagonista. Per la prima volta qui Galatea non solo guadagna la ribalta del titolo, come la precedente eroina milleriana Circe (riconsegnata alle nuove generazioni nel suo fulgore di personaggia a tutto tondo), ma è anche narratrice interna, sorgente del racconto, e non semplice carattere in guerra con i dilemmi identitari di chi nasce, risorge, si schiude e deve imparare a esistere entro nuovi confini.
Quello rappresentato da Miller è pertanto il sito ideografico di una coscienza, rilevata diffusamente dall’interno, come flusso (non ci sono nemmeno i numeri di pagina), non soltanto la sua mera verbalizzazione. Per questo forse la sua Galatea inizia a raccontarsi alla fine del mito, quando tutte le parole e le immagini che l’hanno preceduta tacciono, laddove emerge una rinnovata forma di libertà legata sia al femminile sia al pensiero come espressioni del possibile: nel momento in cui diventa madre. Madre di una figlia che, potenza dei miti, ha solo un anno meno di lei e che pertanto necessita allo stesso modo di essere educata, plasmata, (ri)creata. La sfera della maternità assurge, dunque, a chiave epifanica di alterità e separazione: la diversità di Pafo aiuta paradossalmente Galatea a comprendere i termini della propria, a percepirsi correttamente e a trovare la forza di dissolvere il vincolo fusionale che la lega al suo Pigmalione, l’unico personaggio emblematicamente condannato a restare pietra – quando Galatea, esasperata, gli chiede un ritratto che possa tenerle compagnia nei momenti di solitudine e l’uomo le propone una sua effige scultorea, colei che è stata statua risponde: «Una statua sarebbe un tormento. Sarebbe troppo simile a te per poterla sopportare».
Al di là del portato polisemico del nucleo originario, che evidentemente si presta, oggi più che mai, a un numero esorbitante di transiti, questa versione di Miller ci suggerisce che, oltre a essere il mito fondativo del simulacro, oltre a riguardare l’immagine, la metamorfosi, la sublimazione, il virtuale, l’arte, il melodramma, il cinema, quello di Galatea può essere riletto soprattutto (e in ciò risiede la sua attualità) come un racconto che parla dei limiti dell’umano e di patologia, vale a dire di come l’amore agisca sottoforma di potenza creatrice e distruttiva, della violenza atavica che è connessa alle relazioni e che ha a che fare, da sempre, con le infinite sfumature fisiche e psicologiche della sopraffazione, del possesso, dell’abuso. La metamorfosi abissale posta a chiusura del racconto, nella sua struggente e indicibile fatalità che sembra riconvocare certi spettri di ascendenza shakespeariana ed eliottiana, diventa quindi un monito per le lettrici e i lettori contemporanei: aprite gli occhi, cessate di essere pietra, riemergete dal fondo del mare, lasciatevi redimere dalla primavera della vita e non dal torpore desolante della morte. Vedete, si muove.
Riferimenti bibliografici
C. Tognolotti, a cura di, Cenerentola, Galatea e Pigmalione. Raccontare il divismo femminile nel cinema tra fiaba e mito, ETS, Pisa 2021.
V.I. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, il Saggiatore, Milano 2006.
Madeline Miller, Galatea, Sonzogno, Venezia 2021.