Nella prefazione al suo celebre volume L’uomo comune del cinema, Jean Louis Schefer rifletteva sulla propria condizione di «uomo senza qualità» che prova a dire qualcosa sul cinema che «non appartiene a un discorso (alla trasmissione di un sapere), ma appartiene a una scrittura (alla ricerca che ha per oggetto non una costruzione ma l’enigma di un’origine)» (Schefer 2006, p. 7). Leggendo il recente La parata dei fantasmi di Alessandro Cappabianca, una sorta di taccuino in cui si affastellano delle riflessioni sul cinema, potrebbe tornare in mente l’approccio scheferiano che prevede lo scrivere «di questa particolare esperienza del tempo, del movimento e delle immagini». Ad assumere rilevanza è l’atto stesso dell’andare al cinema, ossia lì dove «ha luogo una nuova esperienza del tempo e della memoria che, di per sé, forma un essere sperimentale». Si potrebbe altresì essere tentati di soffermarsi sul sottotitolo e, nello specifico, a quel termine – post-cinema – che per il dibattito più à la page risuona come il punto di non ritorno, l’esplosione di una supernova che non è ormai possibile chiamare “cinema”. Si approda allora al vocabolo ben più asettico, quasi scientista, di “audiovisivo” (che include serialità; installazioni; realtà aumentata; ecc.) il quale, per continuare la metafora astronomica, diventa un buco nero auto-fagocitante ogni prodotto e supporto tramite cui delle immagini in movimento pretendono di assumere una forma (e una dignità?) cinematografica.
Pur non disdegnando delle incursioni in territori eterodossi, il testo in questione lascia risuonare i pensieri attorno al cinema e ai film senza alcuna intenzione di porsi «come appunti in vista d’una filosofia del cinema, ma come suggestioni di una filosofia dal cinema, nel senso […] d’una filosofia che venga dal cinema» (Cappabianca 2018, p. VII). Pertanto, se post-cinema è in grado di fungere da termine ombrello per una concezione espansa dell’universo cinematografico, è pur vero che il “post” assume una caratterizzazione temporale tutt’altro che di secondaria importanza. Ci sono un mondo e un intellettuale diversi prima e dopo il cinema – è chiaro –, ma ciò che preme, al di là di ogni macro-riflessione, è il riflusso infinitesimale, lo slittamento interiore più flebile che si innesca dopo ogni proiezione e re-visione.
Se, difatti, come rileva Cappabianca, il cinema è «un dispositivo di conservazione di tracce corporali di corpi scomparsi, cioè di fantasmi» condannati a ripetere sempre gli stessi gesti, la memoria e la ri-proiezione dello spettatore conducono tuttavia il gesto oltre sé stesso. Da qui si potrebbe meglio comprendere la nozione coniata da Janet Harbord che, in un recente studio sul cinema a partire dal pensiero di Agamben, ha parlato di “ex-centricità”, poiché, per quanto il gesto sia in qualche modo ripetizione di sé medesimo, esso, come il pensiero, sfugge da tutte le parti e, nel suo eccedere, determina delle nuove configurazioni memoriali, capaci di alterare il ricordo.
In tale direzione, le suggestioni di Cappabianca intorno alla ripetizione e all’arresto, ossia le «condizioni trascendentali del cinema» rimarcano come il montaggio – sia quello “meccanico” sia quello fantasticato/immaginato – viri costitutivamente verso l’effrazione di senso per abbracciare quella tensione propulsiva grazie alla quale esso sottrae l’immagine all’arco narrativo. Come scrive l’autore:
Il linguaggio (il montaggio delle parole o delle immagini) rivela la connessione del movimento con la morte, del fantasmata con il fantasma, del soggetto con le allucinazioni che lo percorrono. […] I momenti d'arresto che si celano nel fluire delle immagini, anche rimanendo del tutto inavvertiti, possono essere considerati allora, oltre che momenti di scomposizione del movimento, come elementi che, montati insieme, ne implicano la torsione, la tensione, l'uscir-da-sé (nel senso di Ejzenštejn).
Il post-cinema, insomma, potrebbe intendersi come un rimontaggio retrospettivo e autoriflessivo che contempla la struttura vuota – il nulla che abbellisce ciò che è – alla base del cinema e, ça va sans dire, alla vita. Non a caso, Cappabianca dedica a tale argomento un capitolo nevralgico del libro, intitolato proprio “Il Nulla è qualcosa?”. Le discussioni attorno all’essere e al non essere, alla possibilità e all’impossibilità, rischiano di arenarsi a mero ragionamento apodittico, ma grazie alla macchina cinematografica, che dà diritto di cittadinanza alla totalità contraddittoria dell’esistenza, si può forse accettarne le regole del gioco.
In questo senso il cinema di Resnais – e in particolare L’amour à mort (1984) – offrono la rappresentazione di un passato inattualizzato ma incontrovertibilmente concreto. Del nulla non si può forse dire qualcosa, ma è comunque possibile osservare il suo avvicinarsi concreto, il suo celarsi nell’apparenza del pieno. Del resto, come ricorda Cappabianca a proposito della tomba di Ozu sulla quale vi è inciso l’ideogramma Mu (Vuoto, Nulla) è già il segno a fare problema giacché «deriva […] dalla stilizzazione di una balla di fieno sotto la quale viene acceso un fuoco» (ivi, p. 82).
Lo scheletro strutturale del libro richiama in fondo quel «paradossale equilibrio di mancanze» cui l’autore fa riferimento analizzando il piano-sequenza iniziale de Il cavallo di Torino (Tarr, 2011). Così i collegamenti si fanno tortuosi perché è solo divagando che si modulano risposte a delle macro-questioni inerenti all’essenza stessa del cinema. Ci si chiede, ad esempio, che cos’è l’inquadratura o, ancora, cosa soggiace al mistero dell’incarnazione (filmica, ma anche religiosa). Ciò che subentra è comunque, in entrambi i casi, una forma di mancanza, da non intendersi necessariamente come privazione denegante.
L’inquadratura crea uno spazio che soltanto per via del taglio può anelare a rivelare la natura (spettrale) delle cose. Parimenti, l’incarnazione, «energia che si concretizza in materia solida», poggia sulla propensione trasfigurante della cornice. Difatti, grazie alla cornice e all’inquadratura, che implicano dialogo ma anche espunzione, si possono riscoprire corpi e territori, anatomia e geografia dell’esistenza.
E se già in un testo importante come L’immagine estrema. Cinema e pratiche della Crudeltà (2005) Cappabianca si soffermava su questioni simili, è qui però che trova, in questa esposizione per suggestioni scandite da paragrafi asciutti, una forma di montaggio capace di esaltare gli spazi vuoti dove albergano i fantasmi. Lo spazio cosmico, come quello dell’inquadratura, è dunque il luogo per eccellenza in cui l’universo, concreto e sconfinato, si manifesta – o si occulta – fra le trame del vuoto.
Allo stesso modo in cui «ogni essere contribuisce alla negazione che l’altro fa di se stesso» (Bataille 2009, p. 98), il movimento cinematografico, attraverso una discontinuità non troppo dissimile, sancisce un “limite parlante”, quello di un fuori campo che si propaga in due direzioni: verso ciò che si nega/è negato – e che quindi ha una “voce” – all’inquadratura; verso ciò che non si offre allo sguardo, finanche se inquadrato.
Scisso dal tempo convenzionale – dagli orologi che «su qualunque fuso orario siano regolati […] segnano sempre, al cinema, l’ora dei fantasmi» (Cappabianca 2018, p. 142) – il cinema costruisce una memoria che supplisce alla Mancanza, attraverso cui «l’umanità ricostruisce le icone mobili del proprio passato». Alla stregua di quello soggettuale, il tempo cinematografico non può che essere discontinuo e impuro, come tutto ciò che sopravvive. La parata dei fantasmi non si riduce dunque soltanto alla vistosa sfilata dell’esistenza ma si rivela, anzitutto, nell’elusione, nell’arresto e nel “rifacimento” del precostituito.
Riferimenti bibliografici
G. Bataille, L’erotismo, ES, Milano 2009.
A. Cappabianca, La parata dei fantasmi. Proposte per una filosofia post-cinema, Accademia University Press, Torino 2018.
J. Harbord, Ex-Centric Cinema. Giorgio Agamben and Film Archeology, Bloomsbury, New York-London 2016.
S. Kuki, La struttura dell’iki, Adelphi, Milano 1992.
J. L. Schefer, L’uomo comune del cinema, Quodlibet, Macerata 2006.