Proteggo ogni tuo ricordo nel luogo in cui l’inverno non arriva mai,
lontano dai tuoi occhi amorevoli, in una corsa contro il vento.
Nick Cave
Fotogrammi in nero, s’insinua il sibilo del vento, la voce fuori campo di una ragazza ci sussurra il suo testamento emotivo. Dissolvenza. È notte, nevica, l’inquadratura si apre su una distesa montuosa dove la giovane donna fugge via da un imprecisato pericolo. Stacco. È mattina ora: un gregge di pecore pascola tra la neve, un branco di lupi lo accerchia minaccioso, un cowboy solitario lo protegge sparando ai predatori dall’alto. Ecco: sin dalle primissime inquadrature I segreti di Wind River (Sheridan, 2017) dispiega il suo dispositivo metaforico con sorprendente e primigenia semplicità. I campi lunghissimi sulle foreste del Wyoming ci immergono istantaneamente nell’elegia di un paesaggio vergine e negli istinti ferini che lo abitano: il cinema americano, quindi, torna ciclicamente al mito della Frontiera manifestando quel mai sopito bisogno di riattivare un’epica fondativa capace di riflettere (su) qualsiasi fase storica.
Ma procediamo con ordine. La guardia forestale Cory Lambert e la sua ex moglie indiana (di origine Arapaho) hanno un figlio adolescente da educare. L’iniziale addestramento del bambino a cavallo termina con un dialogo di cristallina nettezza: «sono stato un bravo cowboy» dice; «no, è la tua parte Arapaho!» gli risponde il padre. Un proverbiale cartello stradale suggella l’ideale raccordo: «Benvenuti nella riserva indiana di Wind River». Il film, insomma, fonde da subito due soggettività classicamente oppositive concependole come i resti contemporanei di un immaginario evidentemente mutato. Perché nel 2018 i cowboy e gli indiani vivono entrambi in una stessa riserva (quella del cinema?), hanno un simile passato traumatico (non riescono a proteggere i propri cari e a superare il dolore) e lottano fianco a fianco contro nuove forme di potere (le grosse corporation senza volto che ingaggiano mercenari violenti minacciando gli antichi equilibri naturali e sociali). Pertanto: quando viene ritrovato il cadavere della ragazza nativa le indagini vengono affidate a una giovanissima agente dell’FBI, Jane Benner, che oltre a portarsi dietro le tradizionali inadeguatezze metropolitane (viene addirittura da Las Vegas!), rivendica con forza le istanze di una figura femminile detentrice di un rinnovato sguardo sulle cose (tematica forte nella Hollywood di questi anni).
Ci siamo. Terzo di un’ideale trilogia firmata da Taylor Sheridan come sceneggiatore – dopo i notevoli Sicario di Denis Villeneuve (2015) e Hell or High Water di David Mackenzie (2016), in attesa che l’imminente Soldado di Stefano Sollima (2018) arricchisca questo strutturato universo di segni comunicanti –, Wind River è il suo secondo film firmato anche da regista. Un occhio ancora acerbo ma comunque efficace quello di Sheridan, capace cioè di sondare i fantasmi più intimi dei suoi personaggi piegando il montaggio evidentemente classico (campo-controcampo) a una macchina-a-mano che renda sottilmente precaria ogni inquadratura. Ecco che nella nitidezza frontale delle suture classiche s’insinua l’instabilità emotiva del western contemporaneo: dalle riletture teoriche di Tommy Lee Jones (The Homesman, 2014) a quelle antropologiche di Kelly Reichardt (Certain Women, 2016). La musica di Nick Cave, infine, innerva di lamenti ancestrali ed epifanie sonore ogni svolta narrativa e ogni campo lungo in uno schermo che aspira ostinatamente a tornare grande.
Ma perché tutto questo? C’è un trauma passato che affligge Cory. La morte della figlia diciottenne in circostanze misteriose riemerge con la morte della giovane figlia del suo caro amico Arapaho. Un trauma simboleggiato dal feroce puma che uccide gli animali della riserva, si nasconde nelle montagne e lascia inquietanti tracce dietro di sé. Il cowboy, pertanto, non può che accettare le due sfide incrociate: s’immerge nel bosco per cacciare l’animale e pedinare gli indizi dell’omicidio, con la regia di Sheridan che lo scruta da hitchcockiane soggettive della foresta o da friedkiniani plongée in movimento. Sguardi senza corpo che ci restituiscono un fuori campo perturbante con cui fare necessariamente i conti per preservare la propria identità e la propria memoria.
Eccoci al punto: le primitive tracce del western (l’amicizia virile, i codici etici incrollabili, la wilderness da attraversare e civilizzare) s’incontrano e si scontrano con le tracce di sangue fresco lasciate dal noir (le ombre lunghe della Storia, un omicidio che schiude i fantasmi della piccola comunità, le catene della colpa che ingabbiano il protagonista in cerca di redenzione), strutturando un interessantissimo ibrido tutto contemporaneo (siamo in epoca di devastante crisi economica e di antiche tensioni sociali che scuotono gli Stati Uniti). Il cuore di ogni film scritto da Sheridan, allora, si conferma l’ostinato e originario bisogno di trovare flebili “tracce” di luce nel buio: in Sicario (2015), Hell or High Water (2016) e Wind River i tormentati protagonisti s’immergono nelle ambiguità del loro ambiente sociale (il senso di giustizia privato, del resto, è un abisso morale insito al concetto di “frontiera”), ritrovando nel tempo i segni dei generi classici che hanno ormai introiettato ogni modernità di sguardo (dalla New Hollywood in poi) in un’inscindibile ed esibita auto-riflessività. Taylor Sheridan concepisce ancora il cinema come terreno d’elezione di un racconto per immagini che ha bisogno di storie (elementari) e di generi (codificati ma riformati) per riattivare le potenze di una complessa memoria condivisa. Wind River configura con coraggio i resti immaginari del western rintracciandoli politicamente nelle ombre presenti del neo-noir.