Secondo lo studioso Yi-Fu Tuan, bisogna distinguere tra luoghi e spazi nella descrizione del rapporto tra soggetti d’esperienza e mondo. In noi ci sarebbe sempre un attaccamento di tipo emotivo al luogo di cui facciamo esperienza, mentre lo spazio indefinito diventa occasione di libertà e possibilità (Tuan 1977, p. 3). In seguito, a partire dalle definizioni di Tuan, Robert Tally Jr. si interroga sulla specificità dei luoghi della diaspora: di quale tipologia di luogo possono fare esperienza le comunità diasporiche, che provano un attaccamento diverso rispetto al posto in cui si trovano, perché sono invece legate affettivamente a spazi da loro distanti? Tale spaesamento non rientra più necessariamente nel quadro teorico della topofilia proposto da Bachelard e ripreso da Tuan, ma dobbiamo ricorrere a un ulteriore neologismo, che per Tally Jr. risulta più adatto a definire l’esperienza dello spazio che si ha nella diaspora: ovvero quello di topofrenia, inteso come una forma di ansiosa place-mindedness, a cui si tenta di dare forma ricorrendo all’immaginazione cartografica.

Il secondo film del regista di origine iraniane Babak Jalali è una sensibile rappresentazione di ciò che abbiamo definito “topofrenia diasporica”. Il titolo Fremont fa riferimento a una città della California in cui si ritrova la giovane Donya insieme ad altri rifugiati afghani. Scopriamo subito che la protagonista ha ottenuto la green card grazie alla sua collaborazione in qualità di traduttrice con le forze militari americane presenti nel suo Paese. Arrivata in America, invece, la ragazza trova lavoro all’interno di una fabbrica cinese di biscotti della fortuna. Il film ricostruisce con attenzione la geografia affettiva di Donya, che va a sovrapporsi alla topografia delle città californiane: la prima è costituita da luoghi come il ristorante in cui guarda insieme al proprietario una soap, e la residenza dove abita insieme ad altri rifugiati, ma anche dall’utilizzo della lingua araba. Ciò viene spiegato in termini concreti dalla stessa protagonista, che dice di aver cercato un lavoro fuori da Fremont, dove ci sono solo afghani, per andare a San Francisco, e quindi poter incontrare anche cinesi.

Lo spazio percepito da Donya non è dunque unico ma molteplice. Nel film, il desiderio della protagonista di riorientarsi e riconoscersi in questo nuovo spazio è messo a tema dalla proliferazione di forme geografiche quali mappe, che troviamo ad esempio nello studio dello psichiatra, ma anche nella sequenza del globo terrestre con il capo della ragazza, in cui l’amicizia tra i due viene descritta quasi nei termini del determinismo geografico:

In Afghanistan ci sono molte persone diverse, vero? Anche in Cina. Sapevi che Cina e Afghanistan condividono una frontiera? Credo che le persone che condividono delle frontiere, condividono anche molte somiglianze. Noi condividiamo una frontiera quindi abbiamo delle somiglianze. Va bene sentirsi soli a volte. Sarebbe molto strano se le persone non si sentissero mai sole. Se non pensassero mai ad altre possibilità, ad altre persone. 

È ancora troppo presto perché Donya possa sentire di aver trovato in Fremont una casa, ma, allo stesso tempo, il film preclude ogni possibilità di ricostruire con dei flashback il passato vissuto dalla ragazza a Kabul. In questo modo, il film riesce a catturare abilmente l’ambiguità dello spazio diasporico, in grado di evocare sia sensazioni di homeliness che di homelessness. A livello formale, il forte contrasto cromatico dato dall’utilizzo del bianco e nero è funzionale a stagliare la figura di Donya dallo sfondo, mettendo in evidenza la contrapposizione tra la donna e le istituzioni che la circondano; in altre sequenze, invece, in cui la protagonista interpella con lo sguardo la macchina da presa, la palette contribuisce alla sospensione narrativa e a ricreare le atmosfere del cinema moderno europeo.

Nelle sedute terapeutiche, Donya cercherà di sminuire i sintomi di stress post-traumatico; agli occhi della ragazza, infatti, la sua stessa sopravvivenza non è stata che una questione di fortuna. Il tema del caso tornerà più volte nel corso del film, in particolare nei biglietti che Donya scrive per la fabbrica di biscotti. La scrittura di aforismi si rivela una via di fuga dai percorsi predeterminati, una possibilità per creare contatti inaspettati e pensare nuove forme e stili di vita. Se per la prima parte del film, Donya sembrava essere immobilizzata dal trauma, incapace di riuscire a dormire o di rapportarsi con il prossimo; la seconda parte del film sarà dedicata al rinnovato desiderio di apertura al mondo della protagonista e ai legami che è in grado di creare. Nel finale, la ragazza decide di tentare nuovamente la propria fortuna, inserendo in uno dei biscotti il proprio numero di telefono. Libera dai sensi di colpa, anche lei proverà a fare qualcosa di stupido, come innamorarsi.

Riferimenti bibliografici
R.T. Tally Jr., This Space Which Is Not One: Diaspora, Topophrenia, and the World System, in Affective Geographies and Narratives of Chinese Diaspora, a cura di M. Yunzi Li, R.T. Tally Jr., 2022.
Y. Tuan, Space and Place: The Perspective of Experience, University of Minnesota Press, Minnesota 1977.

Fremont. Regia: Babak Jalali; sceneggiatura: Carolina Cavalli, Babak Jalali; fotografia: Laura Valladao; montaggio: Babak Jalali; musiche: Mahmood Schricker; interpreti: Anaita Wali Zada, Gregg Turkington, Jeremy Allen White; produzione: LA Butimar Productions, Extra A Productions, Blue Morning Pictures; distribuzione: Wanted; origine: Stati Uniti d’America; durata: 92’; anno: 2023.

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