Il 21 ottobre del 1984, François Truffaut moriva, a soli cinquantadue anni, a causa di un tumore al cervello del quale è rimasto sostanzialmente ignaro sino alla fine; i medici e le persone a lui più vicino, per non abbatterlo, gli avevano detto che aveva un aneurisma e che molto probabilmente si sarebbe salvato. Il grande metteur en scéne se ne andava nel bel mezzo di un’architettata messa in scena, finalizzata a non squilibrare un equilibrio emotivo già scosso nel corso della breve vita da lutti, separazioni, drammi, esorcizzati attraverso l’unica arma che il disorientato pupillo di Andrè Bazin, conosceva, ovvero il cinema.
In occasione della Festa del Cinema di Roma è stato presentato il documentario di David Teboul, François Truffaut, le scènario de ma vie (2024). Il documentario attinge a piene mani dalla monumentale biografia scritta da Antoine de Baecque e Serge Toubiana, avvalendosi della consulenza diretta di quest’ultimo, senza aggiungere nulla – se se non un ampio ricorso a materiale d’archivio prevalentemente inedito – al racconto cronologico di un breve ma esemplare percorso di vita in cui il cinema e l’esistenza si sono inscindibilmente mescolati sino alla fine.
In occasione della presentazione romana, il critico Serge Toubiana, ha risposto magistralmente alla domanda: «Perché ancora un documentario su Truffaut oggi?» sostenendo che, in occasione del trentennale della morte, nel 2014, aveva organizzato un’ampia mostra presso la Cinémathèque Française e che già allora gli sembrava di aver detto e mostrato tutto e che non ci fosse nulla da aggiungere; tuttavia, nell’arco di un decennio l’attenzione nei confronti del cinema di Truffaut non è scemata, ma anzi, soprattutto da parte delle nuove generazioni, si registra un interesse costante e sempre profondamente appassionato nei confronti del suo cinema ed è proprio questa vivacità, questa vitalità intorno al regista francese a spingere verso una costante ridefinizione della sua opera attraverso studi critici, numeri monografici, documentari, riedizioni restaurate delle sue pellicole. Vale la pena quindi interrogarsi su quali siano le motivazioni di questo costante interesse; Toubiana ne identifica due: il gusto per il romanzesco e la presenza costante dell’infanzia.
Sul primo punto non c’è molto da aggiungere, se non concordare pienamente sul fatto che nel cinema di Truffaut si raccontano sempre delle storie, anche quando il racconto è virato dalla lente deformante dell’autobiografia (ovvero quasi sempre). I modelli letterari di riferimento sono quelli della letteratura di genere (William Irish, Ray Bradbury), del diario sentimentale o scientifico (il diario di Adéle Hugo e il trattato del pedagogo Jean Marc Gaspar Itard), delle rivalutazioni di scrittori amati e poco considerati dalla critica (Henri-Pierre Roché). L’intervento sul testo di partenza non è mai descrittivo, né pedissequamente illustrativo, ma sempre finalizzato alla costruzione di una parabola esistenziale caratterizzata da elementi romanzeschi forti, individuali e ben riconoscibili e da una capacità di dare forma visiva al racconto pur rimanendo appoggiato alla parola scritta (si pensi al costante utilizzo della voce fuori campo che porta lo spettatore all’interno di un’affabulazione in cui le immagini prendono forma e consistenza dalla voce stessa).
Truffaut avvince e convince ancora adesso anche perché la sua stessa vita si è dipanata come un romanzo: l’infanzia travagliata (David Copperfield è stato uno dei suoi livre de chevet), gli amori tormentati e appassionati, la ricerca del vero padre, la scoperta delle proprie origini, la morte prematura. Ma, a parer nostro, non è tanto questo l’aspetto che lo rende e lo mantiene vivo a distanza di decenni (non sono pochi i grandi registi in grado di sedurre lo spettatore attraverso la sottile arma del racconto), quanto piuttosto la questione dell’infanzia.
In tutta la storia del cinema non vi è autore che abbia saputo raccontare meglio, con più verità e intensità, il drammatico passaggio dall’infanzia all’età adulta, quella che viene anche definita l’età acerba, come recitava il titolo italiano di un famoso film di André Téchiné. Gli snodi cruciali di questo passaggio non si sono modificati nell’arco del tempo e sono sempre i medesimi, perché sono consustanziali all’essere umano, alle crisi che si attraversano, alla difficoltà di sopravvivere all’abbandono, al dolore della perdita di un Eden materno che trova un surrogato soltanto nell’accogliente protezione di una sala cinematografica.
Il tema dell’infanzia garantisce al regista francese una posterità vitale, costantemente rinnovata dall’incontro delle nuove generazioni con l’universo affettivo e condiviso di Antoine Doinel, in cui tutti ci riconosciamo, almeno in parte. Questa motivazione, il fatto di esser(ci) all’interno del film, questo rispecchiamento continuo tra la nostra esperienza di vita e quella che vediamo drammaticamente dipanarsi sullo schermo, è il segreto della longevità del cinema di Truffaut, che gode di un seguito di cui non godono altri cineasti più o meno suoi contemporanei centrati sul racconto ma poco attenti al tema dell’infanzia (Chabrol o il più giovane Tavernier).
Truffaut riconduce ogni cosa ai miracoli e ai traumi dell’infanzia, andandosi a regolare su di essa ogni espressione dell’agire umano, dalla vita sentimentale (si pensi all’intensa parabola autobiografica che il regista costruisce in L’uomo che amava le donne) alla vita professionale (i fallimenti vissuti da Antoine Doinel nella sua vita adulta). Nel cinema di Truffaut, io spettatore mi specchio e mi rispecchio. È un cinema che non invecchia perché ontologicamente giovane.
La scoperta delle dure leggi dell’esistenza si accompagna però in Truffaut ad un atteggiamento di dolcezza rabbiosa che si svela anche nelle forme del suo cinema. Il regista francese riserva la sua dose di innata aggressività alla dimensione critica, in cui ravvisa un campo di battaglia protetto, mentre nelle vite che racconta e in cui mette tutto se stesso l’atteggiamento di risposta esistenziale è sempre moderato da una rassegnata e dolorosa arrendevolezza e accettazione nei confronti delle inique leggi dell’esistenza.
Il bambino è colui che non può in alcun modo modificare la propria condizione. A fronte di una visione dell’età adulta come onnipotente la condizione infantile non può essere se non quella dell’impotenza e dell’accettazione, stemperata da quella dose di dolcezza che al giovane Doinel viene costantemente negata e che lui va a ricercare nella protettiva sala cinematografica (in una lettera al padre adottivo, contrariato dall’immagine a suo parere distorta della loro vita famigliare, il regista risponde che quello che è sempre mancato nella sua infanzia era un po’ di zucchero). Una rabbia dolce, stemperata dall’accettazione, che riporta alla mente anche l’infanzia del cinema: l’adattamento passivo alle catastrofi della vita che emerge come fil rouge in tutto il cinema slapstick americano.
Nella parabola autoriale di Truffaut tuttavia c’è anche un elemento che non arriva più e che risulta tristemente anacronistico e che è riconducibile alla dimensione formale. Il regista francese amava ripetere che un film per essere veramente riuscito doveva rivelare un’idea sulla vita e un’idea sul cinema. Oggi nel cinema di Truffaut a fronte di un contenuto sempre efficace, si rivela una forma indebolita sostanzialmente dalla fine di una cinefilia che ha avuto il suo trionfo proprio con la generazione dei Giovani Turchi e che dopo qualche sussulto vede la propria fine all’alba degli anni novanta, momento in cui le forme dell’esperienza audiovisiva mutano in una direzione sempre più individualista.
Una delle caratteristiche della cinefilia è proprio la fruizione dell’oggetto del desiderio all’interno di una ritualità collettiva, di una condivisione dello sguardo verso uno schermo più grande della vita, laddove adorare feticisticamente la grana pellicolare delle immagini, questa perversione è stata per il cinefilo l’antidoto all’insensatezza e alla delusioni della vita. Oggi, a distanza di quaranta anni, è rimasta intatta questa mancanza di senso, questa rabbia dolce, che Truffaut continua a raccontarci come nessun altro regista del secondo dopoguerra, ma non c’è più l’antidoto, non c’è più la sala che ci accoglie, con le sue immagini, e su questo punto, su di noi spettatori orfani di tutto, neanche lo sguardo spaurito di Antoine Doinel può fare più nulla.
Riferimenti bibliografici
A. De Baecque. S. Toubiana, François Truffaut. La biografia, Lindau, Torino 2003.
François Roland Truffaut, Parigi, febbraio 1932 – Neuilly-sur-Seine, ottobre 1984.