Gli angeli calarono dal cielo
approntandosi per il duello
sulle balaustre del ponte
così abbinati a fronte
configuravano un plotone
pronto a ogni esecuzione
.
Valentino Zeichen

A costo di dimenticare le pergamene con miniature del medioevo e la Bibbia di Gutenberg, possiamo dire che il libro d’artista è un oggetto del ventesimo secolo. Diventa un vero e proprio genere di pubblicazione solo negli ultimi quarant’anni, ma già i Futuristi se ne intendevano. Il libro d’artista è una cosa ibrida, alterna parole e immagini, cioè le due possibilità della linea. La scrittura irrigidisce la linea dentro lo schema della lettera, la pittura la fa avventurare nella profondità dello spazio visivo. Scrittura e pittura, segno e disegno, pagina e foglio. Come si comportano le due versioni della linea quando le mettiamo una accanto all’altra? Si affrontano come eserciti nemici? Allacciano nodi affettuosi?

Il libro d’artista più bello che conosco è Porta Rossa che raccoglie cinquantotto litografie di Franco Angeli e i versi che per l’occasione avevano scritto gli amici poeti, Elio Pagliarani, Mario Diacono, Nanni Balestrini, Cesare Vivaldi, Francesco Serrao, Enzo Siciliano, Valerio Magrelli, Alfredo Giuliani, Germano Lombardi, Dario Bellezza, Patrizia Cavalli, Valentino Zeichen. Venne presentato a Roma il 18 novembre del 1986 da Alberto Moravia e Carlo Ripa di Meana, davanti a un’Italia meno alfabetizzata di oggi ma più colta, moralmente rilassata e gaudente, meno occhiuta e livorosa.

“Porta Rossa” è l’albergo fiorentino dove tra il 1979 e il 1980 soggiornò Angeli, dopo aver visitato a Venezia la mostra sulla Metafisica. Soggetti delle litografie sono le aquile imperiali che dipingeva fin dagli anni sessanta, i bellicosi aeroplanini, gli obelischi e le piramidi che compaiono nei settanta e soprattutto gli oggetti di De Chirico. Secondo il quale la pittura fa questo: fissa nelle cose – un biscotto, un gesso, un guanto – «un ché della natura del mondo scimunito e insensato» (De Chirico 1985). Lo spettacolo del mare, ad esempio, non vale come immagine del sublime: il mare è una scaglia blu dentro una specie di cartolina e a guardarlo è rimasta soltanto una statua impigrita (litografia in Angeli 1986, p. 27). Non è neppure il mare, è uno spettro di mare.

Lo spettro è l’insensatezza delle cose, un richiamo all’ozio che emana dalle superfici, il pullulare invisibile della calma. Savinio definisce la spettralità pittorica «incipiente fenomeno di rappresentazione; genesi di ogni aspetto. E, rispetto all’uomo: stato iniziale del momento di scoperta, allor che l’uomo trovasi al cospetto di una realtà ignota a lui dapprima» (Savinio 2007). Lo spettro è Afrodite Anadioméne che esce dalle acque ma congelata in quell’istante, senza destino. Allo spettro delle cose risponde lo stupor di cui solo i gatti e gli ossessi sono capaci. Se i metafisici raggiungevano questo risultato attraverso una ascesi fatta di sintesi e irrobustimento volumetrico, Angeli disegna le cose più piatte di come sono.

Nelle litografie la differenza tra il lontano e il vicino viene resa variando di poco la grandezza degli oggetti, la scena è pressoché bidimensionale, quasi astratta. L’essere-scimunito del mondo è parecchio aiutato dalla tecnica della litografia che necessariamente appiattisce lo spazio perché nel cliché le zone stampanti e quelle non stampanti stanno sullo stesso piano. La poesia lavora in direzione opposta: spezza la linea della scrittura e quanto più è irregolare la disposizione dei versi nel bianco della pagina, tanto più quest’ultima prende valore spaziale e profondità, trasformandosi in foglio. La poesia tratta le parole come fossero cose – le prende, le sposta, le fa saltellare –, la litografia isola le cose come fossero parole.

De Chirico dice che la pittura mette davanti alla «solitudine dei segni» per la quale «è esclusa a priori ogni possibilità logica di educazione visiva o psichica» (De Chirico 1985). L’ininsegnabile solitudine è la “cosa” di Angeli, e da lì vengono l’enigma ma anche la strana serenità della sua arte. Il tragitto più breve tra enigma e serenità lo facciamo con la litografia a p. 46 e quella a p. 59, che sono collegate.

Nella prima ci sono due teste che sporgono da una imbarcazione e sullo sfondo una spiaggia, una capanna, un ombrellone e una sdraio. L’uomo ha la pupilla cieca delle statue e la ragazza ha una fascia sacerdotale sulla fronte, gli occhi chiusi, le ciglia lunghe. Al contrario dei manichini con la bocca cancellata oppure cucita di De Chirico, le teste parlano. O forse non parlano, si limitano ad aprire la bocca. La ragazza tiene fra le labbra qualcosa che assomiglia a un mollusco, l’uomo ha la bocca spalancata in un’espressione di sorpresa o forse disappunto. Cosa fanno? La ragazza, ce lo dice la poesia di Zeichen, «tiene la testa nostalgicamente girata verso l’Occidente, / lo sguardo è soppresso, inondato dal colore del mare; / superficie astratta che cangia in enigma» (Angeli 1986, p. 18). La ragazza non vede Occidente perché gli occhi le si sono riempiti di blu. Lo sguardo assorbito in se stesso è l’enigma – per usare la parola di Zeichen – al quale risponde l’attonimento di Occidente, l’uomo. Insieme formano la coppia primitiva la cui sorte è non capirsi. Dentro il passato mitico, l’uomo rimarrà in attesa e la ragazza continuerà a tenere l’enigma dietro lo schermo delle palpebre. C’è movimento dentro questa immobilità, c’è il dramma dell’equivoco, una vicinanza siderale.

La tensione cede nella seconda litografia, dove la stessa scena è osservata dalla spiaggia. La minuscola capanna di prima, adesso è in primo piano e il mare con la barchetta è ridotto a un rettangolo incolore sullo sfondo. C’è più sole e più caldo e non c’è colore, non c’è ricordo, c’è soltanto l’adesso. L’attenzione è subito catturata dai listelli della capanna con le venature disegnate a una a una e con tale cura e nettezza che sembrano aver prosciugato le cose intorno, che infatti sono un po’ sfocate, un secchiello con la paletta, una conchiglia, un’àncora, un pesce, forse dei molluschi. «Non ho nulla, vivo in una capanna», diceva Zeichen. La luce del mezzogiorno ha spazzato via l’enigma della scena precedente. È finita la nostalgia dello sguardo inutilmente girato a Occidente e anche Occidente è scomparso. Se dietro le palpebre della ragazza potevamo immaginare una qualche azzurra profondità, sappiamo che la capanna è vuota. Basta con le bocche e le sorprese, resta l’allineamento prosaico delle cose, il passato è stato dimenticato, l’enigma cambia in superficie astratta. Il mare sbianca e fa posto alla sabbia, il dramma e l’equivoco risolvono nella solitudine del legno, un tessuto duro, compatto e chiuso. Il sole ha divorato la notte, l’ora meridiana non passa più, c’è tempo soltanto per l’insonnia. Il foglio è diventato pagina, resta la pace di un presente smarrito in se stesso e la sensazione della luce impietosa.

Ma il libro possiamo sfogliarlo anche all’indietro, e allora la pagina ridiventa foglio, la superficie torna a farsi enigma, dentro un ritmo circolare in cui il segno e il disegno non smettono di scambiarsi gli attributi e confondersi. L’alternanza di segno poetico e disegno litografico indica quella coincidenza tra pagina e foglio che Angeli non mostra ma che è ovunque. Come scrive Pagliarani:

A spiaggia non ci sono colori / la luce quando è intensa uguaglia / la sua assenza / perciò ogni presenza è smemorata e senza trauma / acquista solitudine […] / Il mare è discreto il sole / non fa rumore / il mondo orizzontale / è senza qualità / La sostanza / è sostanza indifferente / precede / la qualità disuguaglianza.

Riferimenti bibliografici
F. Angeli, Porta Rossa, Pirgus, Roma 1986.
G. De Chirico, Il meccanismo del pensiero, Einaudi, Torino 1985.
A. Savinio, La nascita di Venere. Scritti sull’arte, Adelphi, Milano 2007.

*Ringrazio l’Archivio Franco Angeli che mi ha fatto avere il comunicato stampa di accompagnamento per la presentazione di Porta Rossa alla Protomoteca di Roma.

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