C’è un’immagine in Foglie al vento che pur apparendo superflua, esornativa, oppure semplice raccordo tra scene, si rivela centrale, nodale per un’ipotesi interpretativa basata sulla struttura del film: la stilizzata concretezza dei luoghi; la luce che vi si respira; l’esile erranza dei personaggi; e soprattutto i passaggi improvvisi aperti in questa struttura. Dura qualche attimo: il tempo di un fuoco, di una messa a fuoco degli occhi su un dettaglio, in tempo per carpire la back-door lasciata sullo sfondo traslucido, vetroso, dall’autore, sulla superficie dello specchio di fondo in cui le linee, si sa, ondulano, si deformano; e per penetrare così la quarta parete del cinema di Kaurismäki.

Da qualche parte, in una zona periferica di quella parete (la geografia, l’agrimensura dello spazio di significazione è questione politica per Kaurismäki, perciò se perturbazione dev’esserci di questo spazio, come effettivamente c’è, non può che essere ai margini, lì dove sopravvivono, pullulano grumi di vita minimale) si apre una breccia verso un altrove, un’altra dimensione, che rende affascinante questo cinema anche al di là della semplice poetica degli ultimi, delle piccole, povere cose. Certo, l’impressione generale che si ha guardando Foglie al vento, è di un eccessivo schematismo – ad esempio le stringenti sagomature dei personaggi e degli eventi, tanto da risultare bozzetti piuttosto che residui vegetali, creaturali, suscettibili delle traiettorie impreviste del Caso – che tende a irretire la libertà e imprevedibilità delle creature in cellulosa al centro di questo territorio cinematografico minutamente allestito; eppure proprio lì, nei gangli di questo schema, si divarica un varco attraverso cui scrutare, immaginare una teoria, una cartografia del territorio.

È l’immagine di una vetrina in cui si riflette la sagoma oblunga, aerodinamica di un’automobile di lusso parcheggiata di fronte a uno dei tanti caffè o delle taverne, dei supermercati scialbi, slavati di cui è pieno questo film. Sembrerebbe essere una questione di pudore: Kaurismäki non può mostrare la ricchezza, il lusso, il lustro esorbitare del pornografico coevo se non attraverso un riflesso, una membrana di specchio, unico spiraglio verso la contemporaneità opulenta, digitale, foss’anche quella fuoricampo del cruscotto di quell’auto, tutto in balia di schermi interattivi, tasti virtuali, algido contrappunto di beep e spie. L’universo analogico che è il suo cinema funziona attraverso un meccanismo di ridondanza di atomi audio-video essudati, plasmati dal crepuscolo, cioè da un’atmosfera in cui il declino crepitante della luce testimonia del perire dello spazio e lo congela dentro gli oggetti, sospesi così in uno stato di eterna consunzione. Questo habitat non fa che evocare, con la sua solida, ridondante presenza e quindi per antifrasi, non fa che denunciare l’esistenza, rigorosamente fuori campo, appunto, del mondo ipertecnologico, appariscente, quello stesso segnalato nel pieno del postmoderno da Pasolini e individuato nella sovraesposizione dello spettacolo, alla luce scialitica (gelida nemesi del crepuscolo) in cui si riproduce lo spettacolo.

In questo momento “vitreo” – in cui predomina per un istante il cristallo dell’immagine, lo spazio di contemplazione e di ambage connaturale all’immagine, lo spazio del fuoco e poi del deliquio dello sguardo – il regista mostra l’orifizio dischiusosi sull’epidermide del fenotipo cinematografico attraverso cui penetrare, traguardare per un attimo l’ossatura del suo cinema e di lì l’altrove, ciò che è al di là del suo ecosistema. La realtà, la contemporaneità dell’economia e del telematico sfrenati, corrispondono per Kaurismäki all’altrove del suo immaginario, a un inferno concreto e invasivo, con le sue aporie, cioè i dispositivi di sistematica frustrazione dell’essere, di costante sopruso dell’umano sull’umano, che passano proprio attraverso quell’orifizio, o detto altrimenti, quel portale di transito dimensionale, e investono le cose analogiche di questo cinema così domestico, chiuso in sé (a eccezione di quel passaggio), in cui la solitudine degli esseri in un mondo di sperequazioni e iniquità spinte (il rivolo del mondo, che passa), cerca rimedio nel nido antico, nel contatto tenero, diretto, tra quelli che sono divenuti personaggi e ora cabotano dentro la trasposizione cinematografica kaurismakiana, microcosmo di locali scalcinati, intonaci scrostati, tram dall’arredo disusato, vecchi telefoni portatili a tasti cigolanti, o a cornetta, che crocchiano, crepitano a scapito degli squilli algebrici, arido contrappunto di bit dei telefoni digitali, mentre sullo sfondo si staglia in felicitanti, cadenti calcine, il cartiglio, calendario del 2024. 

Ancora una volta è la necessità di segnare il mondo, di ridurlo (in realtà infinirlo) a segno, codice, che dà senso (o lo rivela, lo fa affiorare da sotto la coltre refrattaria delle cose) a un repertorio di elementi ottusi, una materia informe, che scandiscono la “macchina mondiale”. E allora ecco il nucleo politico di questo film, il discorso sulla storia calato nel classico contesto kaurismakiano, che è strettamente strumentale al precipitato ideologico, proletario, umanitario: immagine come decorazione di cose spoglie, anzi decorazione spoglia di cose, di cose analogiche, anacronistiche che sembrerebbero tratte dal quadro degli anni settanta e ottanta ma in realtà – dicendo il contemporaneo, volendo prioritariamente farlo pur nel senso della trasposizione inattuale; bisbigliando sommessamente dagli angoli soporosi, in penombra degli interni, a proposito dell’umile riparo dalla modernità liquida – liquidano la storia, la specificità della “condizione postmoderna” e arrivano a incarnare la visione di una povertà senza tempo, quasi una gioia delle cose semplici, povere, oneste sotto la cui superficie sibila un’agnizione, una specie di inquietudine dettata dalla consunzione, dal crepuscolo spaziale; un che di universale, la solitudine, l’avvertimento, il vago presentimento di morte, del riflesso cupo, rossigno, dell’eco tumida delle cose spoglie, minime. È una gioia conscia del crepuscolo, del declivio luminoso che ammanta le cose: la morte fattasi luce, morte esorcizzata dalla propria luce. Questo tipo di gioia – volontà di vita infusa di luce appassita, luce di morte, inscritta nella solitudine – ha un nome, malinconia, ed è la forza, il vento che muove le forme, le foglie di Kaurismäki

Se si usassero delle categorie filosofiche (noetiche) o letterarie per definire questa estetica – nella coscienza che spesso è la comparatistica, il ricorso a strumenti e territori altri, a rivelare il senso proprio, specifico di un’opera – si dovrebbe innanzitutto scegliere la via della poesia anziché della prosa, e poi collocarla nel mezzo di questa direttrice (su un versante, appunto, noetico, di percezione dell’oggetto), tra il Crepuscolarismo (ad esempio le sfumature ironiche in questi personaggi in sollucchero da karaoke), l’Imagismo (aseità, laconicità delle cose semplici e latenti), l’onestà inquieta della prospettiva di Saba, l’emergere cioè di un’inquietudine strisciante sotto il velo gioioso, bambinesco del quotidiano. Sta qui il significato di Foglie al vento, come di tutto il cinema di Kaurismäki: da una parte il rilievo politico, concettuale che si inscrive negli eventi; la violenza, la vessazione perpetrati dal contemporaneo sperequativo, digitale, guerrafondaio, filtrati dal riflesso sul “cristallo” della vetrina, per essere esorcizzati, se possibile, dalla biosfera analogica; e d’altra parte l’elemento acronico, universale, la solitudine degli esseri e delle cose, incarnata e brulicante nell’apparato visuale, nel dispiegarsi delle figure, nel tempo della contemplazione, cioè di una gioia segnata dalla solitudine: malinconia.

C’è una malinconia serpeggiante, un senso gaio di desolazione nelle cose antiquarie e rastremate del quadro kaurismakiano, frutto dell’intimo rapporto, filosofico prima ancora che sociologico, esistente tra la povertà e la solitudine: solitudine proprio degli oggetti, della materia, oltre che degli esseri; come se levigando quanto più possibile le superfetazioni alla ricerca della povertà, purità dell’immagine, delle figure collocate nello spazio dell’immagine, si arrivasse all’osso del fenotipo, all’estrema pulizia del fenomeno, il nulla, e ci si ritraesse scongiurandolo questo vuoto eppure traendolo con sé, portandone la memoria, come impulso di vita, germe di un rapporto poetico, non più pratico, con la realtà. Ogni poesia è poesia di morte: poesia che sospende, congela il perire dello spazio nello spazio del sintagma; segno che vive portando addosso i segni di una morte senza tempo, di un infinito morire

Da qui nasce la messa in scena analogica, obsoleta e mai di cattivo gusto di Kaurismäki: dallo scavo operato dal crepuscolo, la spoliazione dell’immagine attuata dalla luce di proiezione, crepuscolare perché aperta all’oscurità, al buio in sala e a ciò che sopraggiunge alla fine delle immagini; luce inscritta di buio, di morte. E non è dunque un presagio di morte quello che si sente con la solitudine e si fissa con la malinconia? Sembrerebbe che, paradossalmente, la solitudine sia un “sentire con”: con il vuoto, con il nulla e con le cose che ne portano i segni. L’immagine codifica così poeticamente, analogicamente, canta e fa decantare nel crogiolo del crepuscolo, i rapporti esistenti tra gli elementi dell’immanenza consci del nulla, solitari e solidali. L’aggregazione, il “con” di cose e personaggi crepuscolari, poveri, puri nella loro fragilità, l’inquadratura analogica con il suo meticoloso montaggio, raschiamento interno, è la traduzione poetica, cinematografica di una solitudine universale, latente, che impregna il mondo: solo così, nel “con” di cose povere, che portano addosso il senso del vuoto, della morte, Ansa e Holappa possono esistere, insieme, nella coscienza comune della loro solitudine.

Foglie al vento. Regia: Aki Kaurismäki; sceneggiatura: Aki Kaurismäki; fotografia: Timo Salminen; montaggio: Samu Heikkilä; interpreti: Alma Pöysti, Jussi Vatanen, Janne Hyytiäinen, Nuppu Koivu; produzione: Sputnik, Bufo; distribuzione: Lucky Red; origine: Finlandia; durata: 81′; anno: 2023.

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