È possibile affrontare il tema della patologia emancipandosi da una prospettiva di natura meramente definitoria che fa riferimento alla distinzione tra ciò che è “normale” e ciò che non lo è? Seguendo le riflessioni elaborate da Georges Canguilhem nei saggi raccolti all’interno del volume Il normale e il patologico (1966), il riconoscimento di una patologia, pur essendo il risultato di una valutazione clinica, non implica l’automatica affermazione di una differenza tra normale e a-normale, quanto di una divergenza interna al campo normativo entro cui il soggetto stesso vive; ciò significa che lo «stato patologico» può apparire «normale nella misura in cui esso esprime un rapporto alla normatività della vita» (Canguilhem 1998, p. 189), ovverossia un rapporto che si stabilisce all’interno di un insieme di istituzioni la cui funzione è quella di fornire delle norme a cui riferirsi per stabilire lo scarto valoriale che definisce l’essere vivente nella sua esperienza del mondo. Tale prospettiva di analisi è sollecitata, in particolare, dalla lettura dei saggi che Foucault elabora nella sua prefazione all’edizione inglese del testo, in cui viene ravvisata l’opposizione di Canguilhem alla «filosofia del senso, del soggetto e del vissuto» che conduce, infine, a «una filosofia dell’errore, del concetto e del vivente, come un’altra maniera di accostare la nozione di vita» (Foucault in Canguilhem 1998, p. 283).

La questione della patologia (o delle patologie), declinata in questi termini, è di rilevanza centrale non soltanto nelle riflessioni filosofiche della seconda metà del Novecento, alcune delle quali richiamate poc’anzi, ma anche nelle opere letterarie, cinematografiche e iconografiche che, a partire dallo stesso periodo storico e fino alla più prossima contemporaneità, hanno manifestato un’attenzione non verso una descrizione clinica della malattia, bensì verso il prisma originato dalla pluralità delle percezioni che caratterizzano il rapporto tra soggetto e mondo. Ancorando progressivamente l’oggetto della percezione (il mondo) al soggetto percipiente (l’essere umano), la letteratura, il cinema e l’arte in senso lato, hanno consentito di entrare in risonanza con le parti più oscure della soggettività umana, o meglio, con quelle patologie che riguardano principalmente la sfera emotiva del soggetto. Detto altrimenti, per una serie di contingenze facilmente desumibili dalla natura stessa di tale operazione, la riflessione sul rapporto tra soggetto e mondo ha condotto a un’analisi che sfugge a una qualsiasi opposizione clinica tra normale e a-normale per riferirsi al piano patologico (cioè senziente) dell’esperienza e, nello specifico, di un’esperienza propria di un essere che nel mondo soffre, si interroga, e continua a vivere.

Questo campo di esperienza prettamente umano è al centro dell’opera di David Foster Wallace, come mette ben in evidenza Guido Baggio nel volume Filosofia e patologia in D.F. Wallace. Solipsismo, noia, alienazione… e altre cose (poco) divertenti (2022), e non soltanto per ragioni di carattere biografico. Il tema della depressione, ad esempio, preso in carico dallo scrittore sin dal suo primo racconto (Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta, 1984), è un oggetto ricorrente nella sua opera in cui diventa foriero anche di una dialettica tra interiorità ed esteriorità o, riprendendo un passo del volume appena citato, di un paradosso che emerge quando si approda «a una vita esclusivamente mentale, interiore, dopo aver disprezzato la vita esterna come qualcosa di misero e banale» e, infine, ci si ritrova «completamente logorati da se stessi» (Baggio 2022, p. 78). Ancora, in Wallace, la «connessione tra solipsismo, dipendenza e autoinganno che si innesta nella distorsione dei processi di pensiero che creano azioni auto-distruttive, manipolando la percezione della realtà da una prospettiva da essa alienata» (ivi, p. 61), conduce verso un ripensamento filosofico del rapporto tra soggetto e mondo.

Entro tale contesto, il campo di indagine e gli assi di riflessione del saggio di Baggio sono chiaramente enunciati nel titolo dal quale emerge un inquadramento teorico focalizzato sulla continuità dei rapporti tra l’indagine filosofica e il tema della patologia, e che si estende fino a un’analisi tematica dell’opera di Wallace e della sua scrittura liminare tra filosofia e letteratura.  In questo quadro di analisi, appare interessante anche la costante oscillazione «tra la dimensione filosofica del solipsismo da una parte, e la solitudine e l’alienazione come forme patologiche dall’altra» (Baggio 2022, p. 74) che ben sintetizzano il cortocircuito tra la figura autoriale di David Foster Wallace e la dimensione umana di David Wallace, il che vuol dire, ancora una volta, tra la sua scrittura letteraria e la sua formazione filosofica. Del resto, a partire dalla tesi in Logica modale discussa nel 1985 presso l’Amherst College insieme alla tesi in Letteratura che sarebbe stata pubblicata due anni dopo come suo primo romanzo (La scopa del sistema, 1987), Wallace ha mantenuto una certa coerenza nella costruzione di un sistema filosofico che, pur non rispondendo a una precisa esigenza scientifica né a un indirizzo accademico, ha trattato e approfondito questioni fondamentali per la comprensione dell’essere umano nel suo rapporto con il mondo, con se stesso e con gli altri.

Di conseguenza, il legame con la filosofia di Ludwig Wittgenstein (i cui nodi fondamentali vengono puntualmente ripresi da Baggio), così come l’analisi di temi essenziali quali l’ironia, la noia e la dipendenza, costituiscono la motivazione alla base della scrittura, ma anche l’indispensabile sponda per approdare a quel «limite sfumato» tra la scrittura e il filosofare (Baggio 2022, p. 135) in cui l’una e l’altro si ritrovano uniti e indistinguibili. Oltre all’identificazione o alla dissociazione che i lettori possono variamente accordare o opporre ai personaggi, la scrittura wallaciana si configura come una possibilità per esplorare quanto è difficilmente raggiungibile nella quotidianità della vita: la comprensione oltre i paradossi del linguaggio; la dilatazione del tempo oltre la successione degli istanti; la compresenza degli spazi oltre l’impossibilità di accedere a più dimensioni contemporaneamente.

«Una volta che si accetta l’invalicabilità dei limiti del linguaggio e ci si abbandona alla possibilità della narrazione, –  scrive Baggio – la scrittura si rivela il terreno attraverso cui sondare i potenziali sentieri di senso del segno, e quindi del soggetto, in quanto traccia» (ivi, p. 54), e allora appare la possibilità di coesistere nel mondo reale e nel mondo della narrazione, accettando che non ci sia alcuna distinzione tra normale e patologico giacché entrambi concorrono alla definizione dell’umano, nelle sue carenze e nei suoi dissidi, ma anche nella struggente e profonda riserva della sua emotività. Spesso, come noi, i «personaggi di Wallace sono incastrati nel cortocircuito paradossale tra la necessità di comunicare e la volontà di non essere compresi per evitare di essere afferrati, amati, e perciò anche definiti dagli altri» (Baggio 2022, p. 72), ma è l’opera stessa di Wallace ad averci condotti di fronte a una irrinunciabile verità della vita: il nostro guardare è sempre rivolto a qualcosa che guarda altrove, proprio come viene chiaramente indicato in uno dei suoi racconti più brevi e incisivi.

È tutto verde sta dicendo lei. Lo sta sussurrando e il sussurro non è più rivolto a me lo so.
Getto la sigaretta e volto bruscamente le spalle al mattino con il sapore di qualcosa di vero in bocca. Mi volto bruscamente verso di lei che sta sul divano in piena luce.
Da dov’è seduta sta guardando fuori, e io guardo lei, e c’è qualcosa in me che non si riesce a chiudere, nel guardarla. Mayfly ha un corpo. È lei la mia mattina. Dite il suo nome. (Wallace 2003, p. 300)

Il corpo di Mayfly (che, come una mosca, potrebbe spostarsi e volare via da un momento all’altro) è parte di un rapporto mobile e inesauribile in cui non si può fare a meno di osservare l’altro, ma anche ciò che l’altro osserva, in un continuo rimbalzo di esperienze che non si riesce mai a esaurire nella percezione di un singolo verso se stesso ed è sempre preso in un rapporto di risonanza rispetto a qualcosa di altro da sé. Soltanto così, si può rendere ragione di quell’apertura (di “quel qualcosa in me che non si riesce a chiudere”) che spinge, per mezzo della letteratura, verso il desiderio salvifico di accostarsi agli altri e di non ripiegarsi nella propria interiorità. Vale a dire, accanto alla motilità di un corpo che muore, resta raccolta nella scrittura la possibilità di prendersi cura delle proprie patologie, nel tentativo di comprenderle senza per forza appiattirle in un registro clinico perché si può imparare che «a volte agli esseri umani basta restare seduti in un posto per provare dolore. Che la vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi. Che esiste una cosa come la cruda, incontaminata, immotivata gentilezza. Che è possibile addormentarsi di botto durante un attacco d’ansia» (Wallace 2006, p. 243). Che essere al mondo è qualcosa da scrivere.

Riferimenti bibliografici
G. Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998.
D.F. Wallace, La ragazza con i capelli strani, Minimum fax, Roma 2003.
Id., Infinite Jest, Einaudi, Torino 2006.

Guido Baggio, Filosofia e patologia in D.F. Wallace. Solipsismo, noia, alienazione… e altre cose (poco) divertenti, Rosenberg&Sellier, Torino 2022.

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