Cuadros en la oscuridad (2017) di Paula Markovitch, come il precedente El premio (2011), nasce da un’urgenza creativa di carattere personale e generazionale, dal momento che rievoca esperienze dell’infanzia della scrittrice e cineasta, risalenti all’epoca della dittatura militare in Argentina (dal 1976 al 1983): memorie di un periodo traumatico non solo sul piano personale, ma per tutta la società argentina.

In questo senso, queste opere, di cui Paula Markovitch (che in questi giorni sta presentando la sua ultima opera in Italia) è sia sceneggiatrice sia regista, si collegano ad altre realizzate da numerosi registi che in modi diversi hanno sofferto il terrorismo di stato in Argentina quando erano ancora bambini, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Citiamo solo alcuni esempi, che spaziano tra la finzione e il documentario, spesso riducendo il confine tra le due categorie: Los rubios (2003), con cui Albertina Carri richiama la figura di entrambi i genitori scomparsi nel 1977, Infanzia clandestina (2011) di Benjamín Avila, che si ispira alla madre scomparsa nel 1979, o El imposible olvido (2016) di Andrés Habegger, che rievoca la figura del padre del regista, scomparso nel 1978. Nel caso della Markovitch, la famiglia dovette vivere nascosta diversi anni in una piccola località balneare a sud di Buenos Aires, San Clemente del Tuyú, dove è girato El premio, in una condizione di esilio interno o insilio, obbligata a vivere nell’anonimato, negando la propria identità. La motivazione profonda di questi due primi film della Markovitch è, pertanto, l’impellenza di ritornare a quell’esperienza, di farla rivivere attraverso una creazione filmica come atto di memoria che possa favorire l’elaborazione, la cura, delle ferite del passato.

E veniamo a questo Cuadros en la oscuridad. Una panoramica sorvola un paesaggio dai colori brillanti, percorrendo i rilievi e la materialità di un dipinto sul quale la camera sembra voler atterrare, avvicinandosi fino a far sfocare l’immagine, come a voler fondersi con essa. Le riprese iniziali di Cuadros en la oscuridad trasformano la descrizione visiva di un quadro nella metafora di un paesaggio artistico e mentale al quale il film stesso vorrebbe accedere, per dischiuderlo e portarlo alla luce, salvandolo dall’oblio. Questa suggestione si conferma quando lo stacco mostra un uomo sulla sessantina che si guarda intorno, smarrito e spaesato, in una desolata e sconfinata periferia urbana, nei pressi della stazione di benzina in cui lavora, ed è subito preso dall’urgenza di buttare giù uno schizzo a matita sul taccuino delle ricevute, quasi fosse un gesto di sopravvivenza, necessario come respirare.

Marcos è, infatti, un artista che disegna e dipinge in modo compulsivo, in ogni momento e su qualsiasi superficie, accumulando un’opera che funge da rifugio intimo e privato. Il personaggio è ispirato al padre della regista, Armando Markovitch, un pittore che non espose mai la sua opera a causa dell’insilio vissuto durante la dittatura in Argentina, una condizione che continuò a segnarlo anche dopo il ritorno della democrazia, spingendolo a rimanere sempre ai margini, in una sorta di autoesclusione motivata e aggravata dalle difficoltà economiche. È questo il portato storico ed esistenziale che Cuadros en la oscuridad intende riscattare, con un atto di memoria la cui urgenza vibra e si avverte in ogni fotogramma.    

Il film si snoda come una successione di situazioni di vita quotidiana, si potrebbe dire alla maniera dei classici del neorealismo, come Rossellini e De Sica, sostenuta da un’azione drammatica apparentemente rarefatta, ma di grande intensità emotiva e poetica. Il ritmo del film può, infatti, dare l’impressione di un corso d’acqua il cui livello tende impercettibilmente ad aumentare, fino a rompere inaspettatamente gli argini con un movimento drammatico struggente, a tratti duro, sicuramente commovente. Bisogna riconoscere a Paula Markovitch il merito di aver saputo evitare di trasformare l’incontro tra un vecchio pittore e un ragazzino di strada, elemento centrale della trama del film, in una semplice favola di riscatto e formazione, mantenendo sempre un trattamento più complesso e articolato della situazione drammatica.

Certamente, la relazione tra l’uomo che vive rinchiuso nel suo passato ed il ragazzino, che ha dinanzi a sé solo un futuro di povertà ed emarginazione, fa scaturire una riflessione anche sulla trasmissione intergenerazionale interrotta dal genocidio perpetrato dalla dittatura argentina (la cui espressione più funesta fu l’orrore dell’appropriazione dei figli neonati degli oppositori politici da parte dei militari). Una trasmissione che in Cuadros en la oscuridad è incentrata sulla possibile, ma incerta e talvolta anche ambigua, efficacia liberatoria dell’arte. Lo sguardo del bambino ha senz’altro questa potenzialità di testimoniare e rimemorare la vita dell’artista costretto a vivere nell’ombra, così come l’arte ha la potenzialità di salvare il destino oscuro di entrambi i personaggi, ma tutto è sempre in procinto anche di perdersi, di naufragare, preda di una realtà impietosa e di una struggente malinconia.

Il film si muove su un confine sottile e sfumato tra finzione e documentario, dato che la trama fittizia si sviluppa in un’ambientazione densamente documentale. L’abbandono e la desolazione della periferia dove si vive tra rovine e rifiuti, si mostra, nella sua concretezza, come lo scenario ideale per rappresentare la miseria come lascito degli orrori del passato. Mentre i ragazzini di strada che interpretano loro stessi, relegati sotto un ponte ai confini della città, testimoniano il perenne tradimento delle speranze di un presente migliore, quasi a riattualizzare la memorabile rappresentazione dell’emarginazione infantile realizzata da Luis Buñuel in Messico già nel 1950 con Los olvidados (I figli della violenza). Il senso del documento è però anche quello, molto concreto, dato dalla presenza costante dei quadri dello stesso Armando Markovitch (in riproduzioni fotografiche), o di abiti e oggetti di scena che gli appartenevano.

L’autrice del film mette in atto così una ricerca di autenticità che ricorda anche la scelta di Marco Bechis in Garage Olimpo (1999) di far indossare all’attrice protagonista, che interpreta una giovane vittima di un centro di detenzione clandestino durante la dittatura argentina, un vestito appartenuto a una donna desaparecida, e che nell’insieme dona al film un senso di verità che convoca l’empatia dello spettatore. Ciò è in rapporto con un altro aspetto del metodo di lavoro della Markovitch, teso a valorizzare e sfruttare le condizioni ambientali e l’imprevisto, piuttosto che a cercare di prevedere e ricreare gli eventi. Ad esempio, nel suo primo film, El premio, gli elementi atmosferici come le mareggiate e il forte vento della location, la spontaneità dei bambini protagonisti, o persino la presenza di un cane che s’imbuca nel set, sono stimolati e seguiti nell’atto del filmare come momento originariamente creativo.

È così che, anche in Cuadros en la oscuridad, molte delle sequenze che coinvolgono il bambino sono girate una volta sola, lasciando all’improvvisazione degli attori la libertà di far nascere e sviluppare la dinamica drammatica della scena. In questo modo, in entrambi i film, la forza dei personaggi infantili si sprigiona senza impedimenti, soprattutto in ciò che essi hanno di più proprio e peculiare, ossia la potenza della dimensione ludica, in grado di resistere ed illuminare anche le situazioni più tragiche e angosciose, sia pure per un momento soltanto. Tuttavia, non si tratta di una contrapposizione banale tra la vitalità infantile e la realtà difficile. La natura e la spontaneità dei bambini può talvolta anche perdersi in una zona grigia intossicata dalla durezza dell’esistente. Ciò perché, in generale, i personaggi dei film di Paula Markovitch sono refrattari ad un’interpretazione netta ed univoca, muovendosi tra azioni e reazioni contradditorie e confuse.  

L’opera della Markovitch si configura, allora, come una narrazione poco convenzionale su eventi traumatici del passato che insistono ancora sul presente. Ma l’intenzione, più che esporre una denuncia, è provare a far vivere allo spettatore un’intensa esperienza estetica relazionata con gli eventi che si rievocano, facendolo immergere il più possibile nell’atmosfera, nelle emozioni, quasi nella tattilità del mondo che il film intende ricreare, desiderando letteralmente farlo rivivere. Naturalmente, in questo la presenza dei quadri di Armando Markovitch risulta di fondamentale importanza, dato che costituisce un elemento di realtà che trascende i confini della pellicola, e stabilisce una continuità tra le immagini del film e l’esperienza di visione delle opere, specialmente quando, come nelle presentazioni a Napoli e al Festival del Cinema Latinoamericano di Trieste, queste sono esposte contestualmente alla proiezione.

Paula Markovitch promuove in questo modo un evento artistico che va al di là della visione cinematografica, già di per sé molto intensa, ancor di più quando si aggiunge anche la performance musicale dal vivo di Sergio Gurrola, il compositore delle colonne sonore di El premio e Cuadros en la oscuridad, musiche che, come spiega la regista, hanno avuto un ruolo preminente anche in fase di ideazione e realizzazione del film, quali vere e proprie fonti di ispirazione delle sceneggiature e delle riprese. La visione di Cuadros en la oscuridad costituisce un’esperienza di vera e propria rivelazione e scoperta di un’opera artistica, quella di Armando Markovitch, dal profondo significato, non soltanto per il valore che essa può avere in se stessa, ma anche per ciò che racchiude in quanto vissuto storico e umano di sofferenza e resistenza, vivificato dall’atto di memoria del film della regista/figlia, il cui sguardo, mai banale, ci apre davvero una piccola, salvifica porta da attraversare.