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Sto rivolgendo da un po’ di tempo la mia attenzione a Il libro dei sogni, il meraviglioso e impegnativo taccuino onirico felliniano, del quale spero alla fine di trovare i modi giusti per restituirne l’assoluta unicità. L’occasione è il centenario della nascita di Fellini e la nuova edizione del libro, curata da Sergio Toffetti per Mondadori.

Ma per iniziare, vorrei affrontare una strategia di “sostituzione” narrativa che è possibile trovare in alcuni particolari lavori di Fellini — che siano film, spot televisivi, o cicli onirici estesi contenuti appunto nel Libro dei sogni — concentrandomi in questa occasione su una delle sue “pubblicità-sogno” per la Banca di Roma e su due episodi tratti dal taccuino. Con sostituzione narrativa intendo il modo in cui personaggi ed eventi si rimpiazzano vicendevolmente lungo un percorso simbolico che registra o un accrescimento o una diminuzione di speranza e/o di auto-coscienza per il protagonista. Questo principio di sostituzione è ovviamente fondamentale nei nostri sogni, quando le situazioni si trasformano improvvisamente in qualcos’altro in un modo che può sembrare irrazionale, ma che è spesso guidato da una logica potente e da un esame profondo di questioni che non risultano inizialmente chiare al conscio.

Nella seconda delle tre pubblicità per la Banca di Roma, Il sogno del leone in cantina, il processo sostituzionale si trova sia all’interno del sogno sia tra il sogno e il suo poscritto: la visita del sognatore (Paolo Villaggio) al suo psicanalista (Fernando Rey) e la successiva rilocazione alla Banca di Roma. È da notare come in questo ciclo commerciale Fellini non stia facendo un plauso al tipo di psicanalisi junghiana praticata dal suo “mentore” Ernst Bernhard, ma stia piuttosto parodiando quella psicanalisi d’impostazione freudiana al servizio del potere istituzionale.

L’episodio può essere così riassunto: un uomo di mezz’età, vestito come un ragazzino, segue una donna più matura in cantina. Lui si offre di aiutarla a portare il secchio, ma lei risponde in olandese: “Non sei in grado, sei ancora un bambino”. Lui sembra evidentemente capire, dato che replica a tono; lei gli si rivolge nuovamente in olandese: “Sei rimasto un bambino” e si dilegua. Questa volta lui non capisce, infatti chiede: “Per favore, c’è qualcuno che può tradurre?”. Una voce esclama: “Sì, io. Dice che nel profondo sei rimasto un bambino”. Attraverso un cancello entra un leone, che si presume essere la fonte della voce; vediamo le lacrime rigargli la guancia, e il protagonista piange a sua volta. Dissolvenza a nero. Il protagonista si sveglia nel suo letto piagnucolando, trovandosi poi nello studio di un terapeuta che avanza un’interpretazione del sogno. Attraverso un quadro passiamo nell’atrio di una banca, dove Villaggio ha spostato i mobili della sua camera da letto. Udiamo la sua voce fuori campo proclamare la sua felicità per essere lì: e strofinandosi le mani gioiosamente, si tuffa con un balzo nel suo letto.

Le principali sostituzioni che accadono qui sono il cattivo riconoscimento della Signora da parte del protagonista con la Signora stessa, il leone con la Signora, lo psicanalista con il protagonista e la Banca di Roma con lo psicanalista. La cantina costituisce un’ovvia rappresentazione dell’inconscio: è un luogo buio dove è possibile collocare le cose quando non ce n’è bisogno e recuperarle quando servono — e dove si può attingere a fonti nascoste, come suggerito dal secchio e dal rumore udibile dell’acqua. Inoltre include, o al limite offre accesso, a uno spazio ulteriore, quello nel quale la Signora scompare, implicando un regno dell’alterità che in Fellini è spesso positivo. La stessa Signora incarna movimento, energia e forza: poteri di cui il protagonista ha disperatamente bisogno. È un incentivo al cambiamento, capace di condurre il protagonista — in tutti i modi — oltre la scena visibile. Secchio in mano, si muove insistentemente verso il fondo della cantina per uscirne; si mostra incontenibile e velocemente scompare: è, potremmo dire, una risorsa spirituale, piuttosto che materiale.

Il protagonista vede le cose in maniera differente. Si concentra su di lei anziché abbandonarsi e farsi guidare dalla sua energia, e cerca di fermarla con la sua voce assillante. Ci riesce solo brevemente, e comunque lei non resta mai ferma; lui, al contrario, riesce a bloccarsi completamente e velocemente, e solo parzialmente all’interno della cantina. Si volta indietro, piuttosto che guardare avanti, in cerca di una “traduzione”, evidenziando come abbia smarrito rapidissimamente la capacità di comprendere, letteralmente e figurativamente, la sua potenziale guida trasformativa.

Il fare affidamento sul linguaggio e la necessità di “comprendere” la Signora da parte del protagonista suggeriscono il bisogno di mediare la sua forza im-mediata e inizialmente non-verbale. Più ancora, la sessualizza, considerandola una manifestazione oggettivata di un suo desiderio piuttosto che un’incitazione all’incontro creativo con l’alterità e la differenza. Una volta persa è sostituita dal leone, il cui ruolo di mediatore è evidenziato dalla richiesta di traduzione. Da un lato, il leone è molto dotato: non solo ha competenze linguistiche (olandese e italiano), ma trasmette un senso di fiducia in sé stesso e di maturità che mancano invece al protagonista. Comprende non solo le parole della donna ma anche l’opportunità perduta, incarnata dal sogno, da cui le sue lacrime copiose. Come la donna, può essere letto come parte del protagonista/sognatore che rappresenta, se non la capacità di accedere all’ignoto come la Signora, almeno la capacità di riconoscere la tragedia di non farlo.

Nonostante le sue qualità, segna il deterioramento delle possibilità del sogno narrativo. Spazialmente e psicologicamente, è ulteriormente allontanato rispetto alla donna da ogni implicita fonte di riempimento o pienezza: è chiaramente addomesticato, un leone da circo così mansueto da non aver bisogno di un domatore, un animale selvaggio per cui la sottomissione è diventata abitudine. Per quanto riguarda il genere, rimpiazza l’alterità della Signora Vandemberg come donna con il “lato femminile” del maschile: lo si riscontra nella sua sensibilità, ma è anche suggerito dal fatto che, appena appare, iniziamo a sentire il suono dell’acqua, il presunto “principio femminile”. Le sue lacrime diventano ciò che rimane della fonte rigenerativa, alla quale dobbiamo presumere che, nella logica del sogno, fosse destinato il secchio. Potrebbe essere positivo nei termini di quanto conserva della Signora, ma non mostra né la sua energia né la sua ironia: è apatico, triste, rassegnato — come il protagonista nella sua vita da sveglio.

Appena il protagonista si desta, la Signora, il leone e l’inconscio sognante svaniscono e rimaniamo soli con il terapeuta. Il protagonista non fa alcuno sforzo per affrontare il suo sogno, così come il terapeuta si mostra totalmente inadeguato allo scopo: non solo ignora tutto fuorché il leone, ma tralascia tutte le qualità e complessità di questa interessante creatura. Lo riduce a un simbolo dell’“orgoglio”, della “fierezza” e dell’“aggressività” repressi del protagonista e trascura il fatto che  la Signora Vandemberg possedeva tutte e tre le qualità (al limite sostituendo “assertività” con “aggressività”) senza alcun segno di repressione. Inoltre, il suo consiglio contiene una contraddizione fondamentale: il protagonista dovrebbe a) essere più aggressivo e b) mettersi completamente nelle mani della Banca di Roma. E, nei fatti, la sostituzione finale del video vede il protagonista a letto nell’atrio della banca — un ambiente asettico progettato per fornire notti serene ma indubbiamente senza sogni e una vita vissuta senza immaginazione, mistero o rischio.

Ci sono differenze significative tra i racconti onirici creati consciamente da Fellini, come La cantina, e i sogni trascritti in Il libro dei sogni. Questi ultimi nascono da veri sogni che, in quanto registrazioni, vengono certamente sottoposti a un processo conscio di messa in forma; nondimeno, possiedono maggiore spontaneità e libertà — e meno pianificazione cosciente — rispetto ai racconti filmati. Allo stesso tempo, poiché l’inconscio sognante spesso (se non sempre) lavora mediante sostituzioni narrative, non bisogna stupirsi se possiamo rintracciare un analogo processo sostitutivo in entrambi. Ne offrirò due esempi tratti proprio da Il libro dei sogni. Un sogno del 19 gennaio 1962 recita così:

… col cuore gonfio di tristezza Giulietta ed io decidiamo di finire i nostri giorni nella casa costruita apposta per questo ritiro in fondo alla Nomentana. Laggiù attenderemo la fine di tutto. Piove. Che malinconia. Ho un ultimo debole moto di ribellione ma Giulietta dice che è meglio “non dar troppo nell’occhio alla gente” e decidiamo di entrare in quella casa. Dio che tristezza! Giulietta si spoglia. Eccoci dunque arrivati alla fine! Piango sconsolato; allora non sono guarito? Stamattina ero allegro, ora piango disperatamente… Ah se Giulietta mi avesse ascoltato e non fossimo venuti a rinchiuderci quaggiù! Nel bagno mentre faccio pipì odo la voce di Leopoldo Trieste che ripete alla sorella il titolo di un libro di un autore svedese: “Cosa si deve uccidere?” . “Non te spero!”, dice la sorella con un tremito nella voce ed appare finalmente questa donnina della quale per anni ho udito soltanto la voce al telefono. È piccola, veste di nero come una conversa, le treccioline rosse attorno alla testa, il viso spruzzato di efelidi. “Non farmi un’innocenza eccessiva!” le dice Leopoldo che ora vedo seduto dietro una scrivania con l’aria di un bravo tollerante maestro di scuola. Dinnanzi a lui c’è una signora che sorride svestita; strizzo l’occhio a Leopoldo con solidarietà. “Vuoi dire che tua sorella non deve esagerare nel recitare la parte dell’innocente, vero?” gli domando. Leopoldo sorride e annuisce (Fellini 2007, p. 488).

Questo sogno evolve dalla tristezza e dalla malinconia verso la soddisfazione e una complicità ottimista sulla base di accoppiamenti consecutivi: inizia con Fellini e Giulietta, arrivano poi Leopoldo Trieste e sua sorella e si finisce con Fellini e Leopoldo. Il sogno comincia con una tonalità cupa accompagnata, in modo ancora più opprimente, da un convinto presentimento di morte. Tuttavia, appaiono subito due indizi di potenziale cambiamento: il “moto di ribellione” di Fellini e il ricordo che “stamattina ero allegro”, che sembrano far comparire Trieste — che è spesso una figura euforica nei sogni di Fellini — e la sorella. Si può associare il fatto che Fellini stia urinando al suo essere in contatto con la sua vitalità corporea, in contrasto con il sentimento di morte di tutto il resto all’inizio del sogno. Proprio questo, come la sua ribellione e la sua felicità precedente, apre la strada alla trasformazione narrativa.

Il tema della morte ricorre nel titolo del romanzo che Trieste menziona alla sorella — “Cosa si deve uccidere?” — ma la morte è a sua volta osteggiata dalla sorella che afferma “Non te spero!”. Dal momento che tutti i personaggi di un sogno rappresentano il sognatore, questo commento non si riferisce solo a Trieste ma a Trieste come rappresentante di Fellini; e parimenti Giulietta, benché scompaia subito dal sogno. In realtà, la sorella, piccola e vestita di nero come una suora laica, diventa una nuova manifestazione di Giulietta, che è quasi sempre minuta e innocente nei sogni del regista: la tenuta funerea della sorella riproduce in effetti l’apparente accettazione della pensione e della morte da parte di Giulietta all’inizio del sogno. E tuttavia, la sorella rigetta il concetto di morte contenuto nel titolo del romanzo e il suo vestito nero si accompagna a trecce ed efelidi rosse. Per di più, si trasforma in una “signora che sorride svestita” — una chiara trasfigurazione della Giulietta che poco prima “si spoglia”. Questo genera l’ultima coppia del sogno, Leopoldo e Fellini. Nel contesto della traiettoria onirica, l’esclamazione di Trieste di “Non farmi un’innocenza eccessiva!” è un’affermazione di Eros contro Thanatos; e in quanto “maestro di scuola” assume un ruolo di mentore non solo verso sua sorella, ma anche verso la Giulietta e il Fellini del sogno. L’innocenza in questo contesto è vista come la soppressione di desideri e istinti vitali e come simulazione — ovvero come un comportamento inscritto socialmente che può essere rifiutato.

Il mio secondo — leggermente modificato — esempio da Il libro dei sogni implica un processo di sostituzione che si snoda attraverso due sogni del 27 dicembre 1960. Il primo è abbastanza noto:

In volo, dentro un piccolo aereo che scivola silenzioso in un cielo invernale. È sera, l’aereo è confortevole anche se molto rudimentale e noi (saremo tra tutte una decina di persone) stiamo bene insieme, allegri e fiduciosi. L’aereo è atterrato in una città del Nord Europa (Danimarca? Germania settentrionale?). Il cielo buio è carico di neve. Ci conducono in un vasto camerone dalle pareti di legno, ben riscaldato. Una signora (che non mi sembra di conoscere) dall’aspetto giovanile, elegantemente vestita, mi dice di essere la mamma di una ragazza che ha lavorato in un mio film. Per compiacerla fingo di ricordare e la bella signora mi mostra un grosso album: è il diario che la figliola tiene scrupolosamente aggiornato. Sulla copertina (o sulla prima pagina) c’è un motto augurale, una frase tolta dal contesto di una lettera che io avrei inviato alla ragazza, due righe scritte a macchina: il senso era quello di suggerire una specie di consiglio su come affrontare la vita. La frase era stata formata prendendo parole qua e là dalla mia lettera… (Fellini 2007, p. 472).

Ora sono seduto dietro una scrivania, sono un pezzo grosso dell’aeroporto con funzioni di comando direttivo. Davanti a me in atteggiamento di dignitosa attesa c’è un viaggiatore dall’aspetto misterioso, di razza sconosciuta, che mi incute soggezione, timore e ribrezzo insieme. Chi è? Da dove viene? Cosa vuole da me? Il tipo dai tratti somatici mongolici potrebbe essere un emigrante, indubbiamente aspetta da me un permesso d’entrata, un visto. Il suo atteggiamento è quello di chi non dubita del proprio diritto e attende con fiducia. La dignità e la forza che emanavano da quel personaggio, miserabile e sudicio nell’aspetto esteriore, mi davano un senso di … [foglio tagliato]. Gli comunicavo che non mi era possibile farlo entrare. Di ciò io non ero veramente responsabile, pur tuttavia ne sentivo ugualmente la colpa, ero vile, meschino…“Io non sono il vero capo dell’aeroporto” — dicevo arrossendo — “Non ho l’autorità di farla entrare…”. Ma sapevo che non ero completamente sincero, e avevo vergogna per questa viltà… L’orientale attendeva immobile, il volto chiuso, impenetrabile. Leale e minaccioso. Lo sconosciuto emanava una grande forza che m’intimidiva, mi spaventava come il richiamo inappellabile a qualcosa o qualcuno che non puoi discutere: tutte le obbiezioni diventano frivole inutili… Il sogno finisce con un grande primo piano di questo volto misterioso (Fellini 2007, pp. 559-60).

Non così conosciuto è invece un secondo sogno che Fellini ha “proprio la stessa notte”:

Villa Borghese, immensa, tutta gocciolante di pioggia, che lugubre notte! Tutt’attorno nel buio, tra siepi e tronchi degli alberi e i busti di marmo, occhieggiano puttane e lenoni. Mi aggiro teso, inquieto, ho un appuntamento con Delia Scala che incontro poco dinanzi al Giardino Zoologico. Delia aveva delle spalle dolcissime, era affettuosa con me, ci siamo baciati ed ora l’aspetto per fare l’amore. Due guardie notturne in bicicletta mi fermano, mi scrutano ironiche e sornione, hanno l’aria di commiserarmi, mi giudicano un maldestro pivellino. Ruffiani e puttane, sbucati dalla nuda tenebra mi circondano, ridacchiano tutti, guardie e lenoni mi disprezzano, considerandomi un bislacco nottambulo estraneo al loro mondo. Mi allontano da quegli sguardi beffardi, da quei sorrisi compassionevoli e mi accorgo di essere nudo, bianco, magro: “Frociaccio”, mi urlano dietro sghignazzando, “Rottoinculo”. E a me sembra che abbiano ragione (Fellini 2007, p. 472).

Questi due sogni ci presentano tre Fellini. Il primo è l’europeo in viaggio, fiducioso e allegro, capace di fornire un consiglio paterno a una giovane attrice che lo ammira. Il secondo è la figura autoritaria eurocentrica, non più viaggiatore bensì lavoratore sedentario in un aeroporto. Non offre più consiglio e, di fatto, si rifiuta di prestare assistenza e impedisce a qualcun altro di proseguire il suo viaggio: è intimorito e impermeabile di fronte alla differenza culturale proposta dallo straniero. Il terzo Fellini sorge in reazione ai primi due. Questa figura non è protetta dalla nonchalance culturale del primo né è capace di esercitare la problematica noncuranza occidentale nei confronti di un “Altro” del secondo. Questo Fellini si permette di fare esperienza del completo impatto della differenza che invece non può accettare nell’Altro. Soffre lo spietato senso d’esame minuzioso che lo straniero aveva provato nel sogno precedente — e ancora peggio il pregiudizio, il disprezzo, il rifiuto che alberga appena sotto la superficie del rigetto del forestiero da parte del secondo Fellini. I commentatori spesso citano l’incontro in aeroporto in riferimento alla paura del regista per la sua stessa xenofobia, ma non ho mai visto un’analisi che consideri l’incontro in relazione alla prima parte del sogno o al secondo sogno del 27 dicembre.

Dopo aver sentito il sogno dell’incontro con lo straniero, Ernst Bernhard gli disse: “Il giorno in cui lei realizzerà questa figura che le sta dinnanzi sarà un giorno straordinario”. A giudicare dal sogno in cui Fellini si raffigura come “frocio”, sembra che lui lo abbia compreso immediatamente.

Riferimenti bibliografici
F. Burke, Fellini’s Films and Commercials: From Postwar to Postmodern, Intellect/University of Chicago Press, Bristol/Chicago 2020.
F. Burke, M. Waller e M. Gubareva, a cura di, A Companion to Federico Fellini, John Wiley & Sons, Chichester 2020.
F. Fellini, Il libro dei sogni, a cura di T. Kezich e V. Boarino con una testimonianza di V. Mollica, Rizzoli, Milano 2007 (nuova edizione a cura di S. Toffetti, F. Laudadio, G.L. Farinelli, Mondadori, Milano 2019).

Federico Fellini, Rimini 1920 — Roma 1993

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