Mediterranea (Carpignano, 2015).

Esattamente venti anni fa, dopo aver attraversato la periferia romana in vespa fino alla tomba di Pasolini in Caro diario (1993), Nanni Moretti decide di realizzare il suo film “documentario” sull’Italia. Aprile (1998) è un film politico nel senso pieno del termine: non tanto e non solo perché affronta temi legati all’attualità politica ma soprattutto perché usa le forme cinematografiche per costruire uno spazio del reale nel quale il politico è continuamente messo in discussione, trasfigurato attraverso le immagini (la scena iniziale del film in cui alla vittoria elettorale di Berlusconi del 1994 segue la canna in soggiorno), scandagliato per portare a galla l’usura della retorica politica ­(la famosa battuta «D’Alema dì qualcosa di sinistra, dì qualcosa!» pronunciata davanti al televisore) e per ironizzare sui cliché che incrostano tanto il dibattito pubblico quanto la vita privata. Durante il film da fare sull’Italia, poi accantonato per realizzare un musical su un pasticciere trotzkista, Moretti apprende della nascita del figlio Pietro. Dunque un film nel film incompiuto o forse impossibile. Ma è proprio questa incompiutezza a costringere il regista, e con lui lo spettatore, a spostare l’accento dalla riflessione sulla cronaca (i fatti politici che passano sugli schermi televisivi) alla riflessività delle forme cinematografiche mediante le quali riarticolare i discorsi sul presente. Per recuperare la memoria del Paese, per ricominciare a riflettere su stessi (sono questi i suggerimenti dati da un giornalista francese a Moretti) è necessario fissare alcune immagini, ricordarle e al contempo estrapolarle dal loro flusso mediatico originario.

Prima dell’epilogo con la danza sul set della pasticceria e dopo aver filmato la dichiarazione di indipendenza della Padania proclamata da Bossi a Venezia, la voce narrante di Moretti ci rammenta del naufragio della nave albanese Kater Primo Rader al largo delle coste brindisine. Una delle ultime sequenze è ambientata su una spiaggia del canale di Otranto dove il regista con la sua troupe attende, senza risultati, l’arrivo di un’altra nave dall’Albania. Il fallito tentativo di documentazione dello sbarco è intervallato da alcune interviste agli albanesi appena arrivati in cui emergono il disagio e le perplessità etiche del regista Moretti, una riconferma della sua incapacità a girare un film sull’Italia. L’esplicitazione di questa inadeguatezza attraverso la voce fuori campo, il montaggio alternato e, nel finale della sequenza, la presenza di immagini dalla grana televisiva, saturate dalla presenza di una nave carica di migranti che fatica a raggiungere la costa, sono gli espedienti stilistici adoperati per costruire una distanza rispetto al frame televisivo ricorrente – quella della massa migrante stipata sui barconi e pronta a “invadere” l’Italia – e disattivarne la tossicità narrativa. Attraverso una strategia intermediale basata sul montaggio e la comparazione di immagini e forme discorsive differenti, dal documentario all’intervista fino al footage televisivo, lo spettatore ha la possibilità di tornare a riflettere sui regimi di visibilità in cui il mediascape contemporaneo ha relegato i migranti.

L’ottavo film del regista romano può essere considerato un punto di partenza per la costruzione di una genealogia del cinema italiano contemporaneo che riflette sul nostro presente. Preceduto da Lamerica (1994), in cui Gianni Amelio attraversa e ricompone i legami tra l’immigrazione albanese e il passato coloniale fascista, Aprile si confronta con la storia recente di fenomeni migratori ma non è soltanto un film di impegno o di denuncia. La centralità delle immigrazioni nella comprensione del presente, non fa di queste soltanto il soggetto del film ma un modo per comprendere le funzioni politiche ed etiche del cinema, per pensare alle forme di vita migranti come soggettività che permettono di esercitare uno sguardo critico sul mondo, allo spostamento e al viaggio come caratteri costitutivi del racconto. Sono gli elementi appena descritti ad essere affrontati dal cinema italiano contemporaneo che si è confrontato non semplicemente con il “tema” delle migrazioni, ma lo ha utilizzato per esplorare riflessivamente sia le forme cinematografiche sia i discorsi sul reale.

In La mia classe (2013) Daniele Gaglianone utilizza la cronaca per infrangere il patto narrativo tra eventi ed esistenti esterni allo schermo e ciò che è racchiuso nella sua cornice. Il mancato rinnovamento dei permessi di soggiorno irrompe nella trama del film, interrompendo la messa in scena di ciò che inizialmente poteva essere definito come un film-intervista su una scuola serale per immigrati. Questa “interruzione” non è un semplice espediente narrativo: l’occhio della macchina da presa coglie la flagranza del reale, creando una crepa che inghiotte l’artificio cinematografico e costringe a trasformare il suo meccanismo discorsivo. Differente è lo stratagemma escogitato dalla comunità che si costruisce attorno al film Io sto con la sposa (Augugliaro, Del Grande e Al Nassiry, 2014), dove è la finzione ad infrangere le consuetudini della cronaca. In questo caso la messa in scena del matrimonio diventa funzionale all’attraversamento, tra barriere e confini europei, della rotta migratoria che dall’Italia giunge in Svezia.

In Come un uomo sulla terra (Segre, Yimer e Biadene, 2008) e in Mare chiuso (Segre, Liberti, 2012) il metodo documentario, affiancato al montaggio intermediale, è foriero di processi di autenticazione delle soggettività migranti. Nel primo film il co-regista Dagmawi Yimer è in campo sia in qualità di testimone-narratore sia in quanto regista che raccoglie, rimonta e compara le storie di vita con i video dei Tg sugli sbarchi a Lampedusa. In una sorta di apprendistato audiovisivo, Dagmawi ritrova il suo volto in uno di questi video e innesta la sua memoria nello spazio chiuso delle immagini mediatiche. In Mare chiuso, girato a un anno di distanza dallo scoppio della guerra civile libica che ha condotto alla violenta uccisione del dittatore Gheddafi, si assiste al ribaltamento dei meccanismi che stabiliscono i regimi di visibilità e di invisibilità a cui gli organismi che controllano il mare sottopongono i migranti. Sono i video girati con i videofonini dagli stessi migranti a documentare la disumanità e l’illegalità connesse alle pratiche di respingimento in mare attuate dalle autorità italiane.

Il racconto, al di là delle strutture teleologiche della narrazione e inteso come strumento per interrogare le immagini, assieme alle esperienze e ai luoghi in esse racchiusi, è al centro del cinema di Andre Segre, un regista che, superando gli steccati tra documentario (è tra i fondatori di Zalab, associazione dedita al documentario sociale) e fiction, ha sviluppato una grande sensibilità verso le storie di immigrazione. Lo spettatore di Io sono Li (2011) partecipa alla scoperta del mondo che si apre allo sguardo della protagonista, costretta a lavorare in un bar tra le calli di Chioggia per pagare il suo debito alla mafia cinese e potersi ricongiungere con il figlio. L’incontro e la passione per i territori esplorati dalla macchina da presa passano anche attraverso le lingue e i dialetti parlati dai personaggi. L’attenzione verso questi elementi drammaturgici, già presente nel film 2011, si rafforza nel film successivo. La prima neve (2013) girato tra le valli del Trentino, è l’incontro tra due solitudini: quella del togolese Dani segnato dai traumi della fuga e dalla morte della moglie, e quella di Michele che ha appena perso il padre.

Sono molte le professionalità e le istituzioni che ruotano attorno al complesso sistema umanitario che sorveglia il Mediterraneo e controlla l’accesso all’Europa. Il cinema italiano, consapevole dei rischi di incappare nella retorica vittimistica che relega l’alterità in una condizione di subalternità (è quello che accade nella sequenza girata a rallentatore di Terraferma, diretto da Crialese nel 2011, in cui un gruppo di migranti viene tratto in salvo dai turisti), ha tentato di elaborare una critica ai dispositivi che governano la gestione umanitaria dei flussi migratori. Se L’ordine delle cose (2017), l’ultimo film di Segre, sceglie un punto di vista anomalo, quello di un funzionario del Ministero degli Interni italiano inviato in Libia per trovare degli accordi che riducano gli sbarchi illegali sulle coste italiane, Iuventa (2018) sprigiona, con le sue immagini bruciate dai raggi del sole che si riflettono sulla superficie del mare, tutta la carica eversiva contenuta nelle operazioni di salvataggio compiute dal gruppo di giovani impegnati nel progetto umanitario della ONG Jugend Rettet. Per l’equipaggio della nave Iuventa la scelta di soccorrere, acquisendo la conoscenza di una prassi che culmina con il gesto di protendere la mano verso gommoni colmi all’inverosimile, nasce alla fine del 2014, quando l’UE e i suoi Stati membri si ritirano dalle attività di salvataggio in mare con la folle giustificazione di voler dissuadere i migranti dall’attraversare il Mediterraneo. Nel 2017 la nave viene sequestrata dalla procura di Trapani e ingiustamente accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Anche Michele Cinque, il regista del documentario, è sulla Iuventa, lungo il confine invisibile ma sempre più impenetrabile che separa la Libia dall’Italia: mentre la sua voce commenta fuori campo solo in alcune sequenze, il suo sguardo discreto utilizza le protesi tecnologie per riempire con una storia i volti dei sopravvissuti e dei soccorritori.

Nel mettere in scena il viaggio attraverso il Mediterraneo i migranti sono costantemente bloccati negli spazi perimetrati dalle tecnologie politiche che stabiliscono i confini e le regole del loro attraversamento. Per questo, in Fuocoammare (2016), Gianfranco Rosi ci restituisce Lampedusa come ambiente mediale capace di sorvegliare i corpi in transito.

Per contrastare gli stereotipi narrativi può essere utile distruggere la rappresentazione deterministica dell’esperienza migratoria in cui si passa dalle speranze riposte nell’altrove alla paura durante il viaggio per arrivare alle difficoltà dell’integrazione o, nel peggiore dei casi, al razzismo. In Mediterranea (2015) di Jonas Carpignano, il cui ultimo A ciambra (2017) ne costituisce la prosecuzione di un binario narrativo secondario, le illusioni del progetto migratorio si scontrano con lo sfruttamento dei braccianti africani nella piana di Rosarno e con l’intolleranza della comunità locale. Le soggettività dei due protagonisti migranti emergono quando questi, come era già accaduto in Lettere dal Sahara (De Seta, 2006), scelgono di abbandonare il viaggio per ritornare a casa.

Fare un film politico sull’Italia e sul nostro presente vuol dire riflettere sulle forme di vita che lambiscono la penisola, immaginare comunità fondate non sulla rivendicazione di un’identità da proteggere e preservare ma sui soggetti che si aprono al mondo e provano ad attraversarlo. Come accade a Lucia, la protagonista di Capri-Revolution, nel finale del film, che per realizzarsi come nuova forma di vita decide di abbandonare l’isola. L’ultimo film di Mario Martone riavvolge il passato, quello della grande emigrazione verso l’America che ha coinvolto milioni di italiani proprio nel momento in cui si costruiva e si immaginava di portare a compimento l’Italia, per rivedere il nostro presente, segnato da uomini e donne, fuggiaschi troppo spesso senza nome, che desiderano immaginare in un altrove il loro futuro.

Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente, Pellegrini, Cosenza 2015.
D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Milano 2018.
F. Jullien, L’identità culturale non esiste, Einaudi, Torino 2018.
D. Fassin, Ragione umanitaria. Una storia morale del presente, a cura di L. Alunni, DeriveApprodi, Roma 2018.

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