2001: Odissea nello spazio e Il pianeta delle scimmie escono a due mesi di distanza uno dall’altro (l’8 febbraio 1968 il film di Schaffner, il 3 aprile quello di Kubrick). All’epoca avevano parecchie cose in comune: la fantascienza, i viaggi nello spazio, i paradossi temporali, Mozart e Strauss, le scimmie e una lunga, complicata produzione alle spalle su cui la MGM e la 20th Century Fox puntavano molto, anche se il film di Kubrick era lievitato intorno ai dodici milioni di dollari mentre per realizzare Il pianeta delle scimmie ne erano bastati meno di sei. Entrambi si presentavano come due variazioni sul tema dell’utopia e dell’ottimismo scientifico degli anni sessanta, particolarmente legato ai programmi di esplorazione spaziale. “An epic drama of adventure and exploration”, diceva la pubblicità di 2001, prima di essere rimpiazzata l’anno seguente dallo slogan “The ultimate trip”, quando cioè alla MGM si resero conto che il film attirava soprattutto giovani consumatori di canne e Lsd, più disponibili ad abbandonarsi ai meandri psichedelici dell’opera di Kubrick, ad accettarne l’andamento criptico-ipnotico, in breve a sprofondare in una film experience esaltata dal SuperPanavision70 e dal Cinerama. “Somewhere in the Universe there must be something better than man”, diceva invece la tagline de Il pianeta delle scimmie.
Se il film di Kubrick era un viaggio nella mente, quello di Schaffner aveva i tratti decisamente più classici di un’avventura rocambolesca, paradossale, dagli echi marcatamente swiftiani. Entrambi però delineavano un futuro minaccioso, distopico, affatto ottimista. Un mondo governato dalle macchine e uno in cui regnano sovrane le scimmie, come un arco teso tra i due lati estremi dell’evoluzione umana. Entrambi, soprattutto, si offrivano come due parabole del proprio tempo. Anche se parlavano di altri mondi, 2001: Odissea nello spazio e Il pianeta delle scimmie erano due film sul ’68. Va da sé che la carica libertaria del film di Kubrick era tutta nel suo complesso impianto formale, anche se all’epoca fecero anzitutto scalpore gli interminabili silenzi iniziali e i 54 minuti di parlato complessivi su 139′ di film. In un celebre saggio su 2001 pubblicato nel 1969, Annette Michelson scomodava più o meno tutto l’album di famiglia della cultura occidentale (Sant’Agostino, Plotino, Schiller, Debussy, Mallarmé, il paradosso di Zenone, Piaget, Flaubert, Ortega Y Gasset, Merleau-Ponty e altri ancora) per concludere che «il soggetto e l’argomento di Odissea nello spazio non emergono né come sociali, né come metafisici, ma si svolgono in un’epistemologia evolutiva» (Michelson 1969, p. 59).
La lettura di Michelson celebrava la portata utopica, filosofica e rivoluzionaria di 2001 ma i riferimenti culturali de Il pianeta delle scimmie non erano meno pretenziosi, anche se più eterogenei: Swift, ovviamente, e poi la Bibbia, Will Rogers («I never met an ape I didn’t like»), La fattoria degli animali di Orwell («Some apes are more equal than others»), Milton («The proper study of apes is apes»), Edgar Rice Burroughs («Me, Tarzan, You, Jane»). Le citazioni non ambivano a trasformare il film in un oggetto di valore culturale. Illustravano semmai la portata dei suoi possibili significati. Il pianeta delle scimmie era un film d’avventura di genere sci-fi, con grandi ambizioni di box-office, costruito su un’idea originale e un finale sorprendente, ma anche una potente allegoria nei rivolgimenti in atto nelle società occidentali. Le utopie di quegli anni trovano infatti una potente rielaborazione simbolica e popolare proprio nella fantascienza. Nel 1968, Philip Dick pubblica Do Androids Dream of Electric Sheep?, romanzo che ispirerà Blade Runner (Scott, 1982), mentre insieme ai film di Kubrick e Schaffner al cinema escono Barbarella (Vadim), Conto alla rovescia (Altman), I due mondi di Charly (Nelson), Anno 2118: Progetto X (Castle). Nei primi mesi del 1968, al Musée des Arts Décoratifs di Parigi si chiude con grande successo di pubblico la mostra Science-Fiction, un’esposizione curata da Harald Szeemann che raccontava l’influenza dell’immaginario fantascientifico nell’arte, nel design, nell’architettura e negli oggetti della vita quotidiana.
Le tensioni culturali, sociali e politiche della fine del decennio entrano in risonanza con le idee che James G. Ballard aveva affidato al suo celebre manifesto eretico del 1962, Which way to inner space?, dove invocava una fantascienza capace di raccontare la realtà psichica dell’uomo, più che le avventure galattiche nello spazio o i mondi futuribili. È a questo contesto che vanno ricondotti sia il film di Schaffner che 2001. Ma perché Il pianeta delle scimmie è un film sul ’68 oltre che del ’68? Prendendo a prestito e capovolgendo lo sprezzante giudizio sul film di Kubrick di Pauline Kael che sul New Yorker lo definì «trash mascherato da opera d’arte», il film di Schaffner è politica mascherata da fantascienza. Come spiegò una volta il critico del Guardian, Mark Kermode: «tutto quello che so sulla politica l’ho imparato dal Pianeta delle scimmie». Kermode sintetizza in modo efficace l’importanza di un oggetto della cultura pop che a suo modo cavalcava e raccontava il ’68 non meno delle opere di Fromm, Marcuse e Reich.
La separazione tra classi sociali, il pregiudizio etnico e razziale, l’organizzazione dei rapporti gerarchici nelle istituzioni totali, studiate in quel periodo da Erving Goffman, sono i tratti più evidenti di un mondo capovolto in cui l’uomo è in catene, privato del linguaggio e reso schiavo da scimmie intelligenti. Il tema razziale alimentò varie letture che raccoglievano le analogie tra le divisioni della società americana dell’epoca e le rivendicazioni etniche, anzitutto quelle degli afroamericani. Il pianeta delle scimmie si inseriva così nel clima della controcultura. Ma l’ipotesi su cui si regge il film non funziona solo come une generica critica dell’uomo bianco occidentale, della sua sete di dominio, del Vietnam o della minaccia nucleare. Ciò che lo rende ancora più interessante è la capacità di superare i riferimenti espliciti al contesto sociale americano innescando un ambiguo, potente gioco di specchi tra le utopie del ’68 e un mondo distopico governato dalle scimmie. Il meccanismo del racconto utopico-satirico à la Swift funziona cioè come una critica radicale della nozione di sistema normativo. Ogni ordine sociale è relativo: il suo presentarsi come dato di natura, la sua presunta oggettività, ha la stessa fondatezza delle mitologie (così, il Professor Zaius, l’orango antagonista di Charlton Heston, è ministro della scienza ma anche primo difensore della fede).
Con il linguaggio immediato della cultura popolare e la forza dell’immaginario fantascientifico, il film di Schaffner mette in scena un mondo capovolto in cui si riflettono gli echi del pensiero relativista di quegli anni che, dalla scienza di Thomas Kuhn e Feyerabend all’antropologia di Clifford Geertz, evidenziava i presupposti arbitrari su cui si fonda ogni cultura e la dimensione contestuale dei paradigmi scientifici. Il darwinismo alla rovescia de Il pianeta delle scimmie diventa così una formidabile allegoria del ribaltamento del mondo innescato dall’euforia libertaria del ’68, ma proprio qui le cose politicamente si complicano, anche perché è pur sempre un film con Charlton Heston. Incamminatosi in viaggio per comprendere l’origine del misterioso pianeta in cui è naufragato, Taylor scopre con orrore di non essersi mai mosso da casa. L’umanità si è estinta. L’uomo ha distrutto se stesso. Charlton Heston si dispera in ginocchio e maledice l’umanità davanti ai resti della Statua della Libertà sprofondata nella sabbia. È un’immagine portentosa (non presente nel romanzo di Pierre Boulle), che all’epoca funzionava come un monito alle minacce della guerra nucleare. Eppure, alla luce dell’ipotesi relativista che si può leggere nel film, quest’immagine gettava una anche una luce sinistra sulle utopie del ’68. “Volevamo vivere per sempre e cercare qualcosa di migliore dell’uomo”, dice Taylor all’inizio, spiegando le ragioni del suo viaggio interstellare.
Uno sfrenato desiderio di purezza e rigenerazione della società che sfocia nell’autodistruzione, nel tramonto della civiltà, nella fine della storia. Ne Il pianeta delle scimmie c’è un inno alla libertà dell’uomo e alla ricerca della verità ma anche un monito al progressismo oltranzista, un’impossibilità dell’utopia (come nella satira di Swift). Nel 1995, Manuel Vázquez Montalbán pubblicò Pamphlet dal pianeta delle scimmie. Il film di Schaffner funzionava qui come un’allegoria della crisi radicale della sinistra nelle democrazie occidentale. Il crollo dell’utopia socialista, diceva Vázquez Montalbán, ha oggi spianato la strada a un mondo post-utopico governato dalle scimmie, cioè, nel suo ragionamento, dai «sacerdoti della religione neoliberista che hanno decretato la fine della storia e della ricerca dell’utopia». Come ogni grande prodotto della cultura popolare, pur senza un corredo di simboli oscuri come il 2001 di Kubrick, il film di Schaffner continua a nutrire il nostro immaginario politico e continuerà a farlo per molti anni ancora.
Riferimenti bibliografici
J.G. Ballard, Which way to inner space? in “New Worlds”, n. 118, maggio 1962.
E. Green, a cura di, Planet of the Apes as American Myth: Race, Politics, and Popular Culture, Wesleyan University Press, 1998.
A. Michelson, Bodies in Space: Film as “Carnal Knowledge”, in “Artforum”, vol. 7, n. 6, febbraio 1969, pp. 54-63.