Nel 1986, un giovane Maksim Gor’kij scrive un articolo sull’arrivo del cinema nella sua città, Nižnij Novgorod. Ciò che colpisce lo scrittore è l’ombra grigia che avvolge il mondo in movimento di fronte ai suoi occhi: il cielo è grigio, i corpi sono grigi, così gli occhi, le foglie: «Non è la vita, è la sua ombra». È l’inizio di una visione del cinema come “regno delle ombre” (che è poi il titolo dell’articolo di Gor’kij), come spazio spettrale, fantasmatico, perturbante. La dimensione dell’ombra attraversa tutta la storia del cinema, sin dal principio. Una dimensione spettrale come direbbe il Derrida affascinato dalla settima arte, un mondo di fantasmi. Ma lo spettro, il fantasma (che non sono la stessa cosa), non sono residui di un passato lontano, scorie che non riescono ad essere inghiottite dalla ruota del tempo. Essi resistono ed agiscono costantemente, nel nostro pensiero, nella nostra percezione, in noi.

Scorrono allora le immagini di Fairytale di Aleksandr Sokurov, presentato in concorso a Locarno 75 e questi pensieri ritornano alla mente. In questa favola cinematografica Sokurov, come già altre volte nel corso del suo lavoro, sperimenta forme tecnologiche non per costruire un’immagine che colpisca i sensi, ma paradossalmente per avvicinarsi ad una potenza originaria del cinema, appunto a quella che lo fa essere un regno delle ombre. Non era questo in fondo il senso proprio del piano sequenza digitale di Arca Russa (2002)? Non certo una prova di virtuosismo, ma la necessaria trasfigurazione del reale che il cinema, nella sua ambivalente mescolanza di reale e immaginario, può mettere in atto.

Il regista russo riprende una serie di immagini di archivio di figure politiche del Novecento (Stalin, Churchill, Hitler, Mussolini) e li anima, letteralmente, facendoli parlare con la tecnica del deep fake. I personaggi si trovano in una sorta di limbo che si presenta come una architettura piranesiana, fatta di rovine e monumenti distrutti. Tutto è avvolto non nel bianco e nero, ma in un grigio mortifero, lo stesso grigio che Gor’kij ritrovava nelle immagini del primo cinema. Ogni personaggio parla la sua lingua, borbottando tra sé e sé o discutendo con gli altri, oppure parlando con altre versioni di se stesso, a loro volta riprese da immagini d’archivio. Insieme vagano, errano tra gli spazi grigi di questa ambientazione spettrale. Ripetono frasi, slogan, affermazioni deliranti o ridicole, litigano, si insultano, si mostrano reciprocamente disprezzo. Ma sono sempre lì, vagando all’interno di uno spazio che li ingloba, che non li porta da nessuna parte.

A turno cercano di varcare una grande porta, un passaggio, l’entrata in paradiso? La porta si apre ogni volta, ma mai completamente, e a nessuno è dato di entrare. Nel loro vagare i personaggi, che si moltiplicano a vista d’occhio come ripetute copie di se stessi arrivano di fronte ad una grande arena, dove gradualmente affluisce una folla di ombre indefinite, di bocche urlanti, di mani alzate. È una folla che acclama o che urla la propria disperazione, il proprio odio. I tratti sono indistinti, come se quei corpi avessero perso la loro specificità di individui. I dittatori li arringano, si rivolgono a loro come aspettando di essere adorati dalla folla. Ma le urla sono indistinte, gli sguardi indecifrabili, invisibili.

Come gli zombie della Prima Guerra Mondiale che Abel Gance fa risorgere dalle proprie tombe e fa marciare come morti viventi in J’accuse (1918), come i fantasmi dei soldati giapponesi nel tunnel di Sogni di Kurosawa (1990), o come i folli di Goya, la folla è un’unica entità di spettri, di morti che gridano e si agitano. Mentre la macchina da presa erra insieme ai personaggi, ognuno solipsisticamente intento a parlare, l’inquadratura mostra dei corpi. Sono cadaveri di soldati distesi nell’attimo della morte che aprono la bocca, pronunciando minacce di morte. La parodia di una parata, di un raduno di folla oceanica che accorre a rendere omaggio alla figura divina del dittatore. È in questa contraddizione della forma che sta la particolare concezione dello spazio (filmico e politico) della “favola” (Stazka in originale). Quei corpi dei dittatori sono il frutto di un lavoro che ha alla base delle immagini di archivio, i corpi reali dei personaggi; al tempo stesso essi sono “animati” nel senso proprio della parola. La tecnologia deep fake permette alle loro labbra di pronunciare le parole che Sokurov immagina per loro. L’immagine che ne risulta è allora profondamente anacronistica, come le immagini che Warburg esplorò per gran parte della sua vita.

È nota la frase che lo studioso tedesco utilizzò per definire la sua scienza senza nome, lo studio delle sopravvivenze del passato che ogni immagine porta con sé: «Storie di fantasmi per gente adulta». E si sa che Warburg, negli anni della Prima Guerra Mondiale, iniziò a raccogliere e ad archiviare una quantità enorme di immagini del conflitto, ricercando in esse appunto la dimensione perturbante dell’anacronismo (il progetto, mai portato a termine, della Kriegskartothek). Il fantasma nel cinema ricopre spesso il ruolo di figura emblematica del pensiero e dell’immagine, esso è al tempo stesso visibile e invisibile, vivo e morto (come lo spettro, come lo zombie o il vampiro). Le immagini conservano il loro potere perturbante proprio perché esse sono appunto attraversate da un’ombra che si propaga al di là di esse. La favola dunque è una favola dell’orrore, dell’orrore di un passato che non passa.

Una favola nera, in cui risalta, all’inizio e alla fine del film, un altro personaggio, quello di Gesù. Separato dai dittatori del Novecento (interessante il fatto che tra essi ci sia anche Churchill), Gesù è un attore, certo, parla in aramaico, ma il suo corpo ha la stessa consistenza fantasmatica degli altri. Rispetto ai fantasmi del Novecento, lui quasi non si muove, rimane all’interno dell’antro dove inizia il film, avvolto nella stanchezza, il corpo magrissimo, continuando a chiamare, ad interrogare il padre, a cercarlo. Figura dell’impotenza, il Cristo non giudica, non parla agli altri, non è come loro, ma rimane anche lui al di fuori della grande porta dove tutti, uno dopo l’altro, cercano di entrare. Da quella porta, che ogni volta si apre un po’ emergono immagini: una luce abbagliante, la figura di Napoleone che ironicamente risponde a Stalin: «Lenin? Certo che conosco Lenin»; oppure, in una sequenza memorabile, la porta si apre e al suo interno si intravede una figura di dannato, un occhio spalancato e l’altro coperto dalla mano che guarda di fronte a sé. È un particolare del Giudizio Universale di Michelangelo, che beffardamente si mostra, come annunciando un giudizio finale che non avverrà, perché le immagini continuano a vagare e a parlare immerse nel loro delirio. Una storia senza risoluzione, senza finale, la storia dell’anacronismo.

L’immagine anacronistica è perturbante proprio perché fa piazza pulita di una visione lineare della storia. Siamo di fronte a questa favola, dichiaratamente irreale e al tempo stesso abitata da corpi reali, senza trovare in essa una conclusione, una risoluzione all’erranza senza fine, al dolore, alla disperazione e alla morte che la attraversa. Proprio per questo l’immagine diventa immediatamente presente, si rifrange sullo sguardo dello spettatore, lo costringe a pensare ad un presente che è oggi attraversato dal fantasma della guerra, della disperazione e del dolore. Una guerra attuale che esiste anche perché le favole non sono più capaci di indicare un senso, una direzione. Ma nel caso di Stazka perlomeno, della favola (e della Storia) si può indicare il fallimento.

Riferimenti bibliografici
M. Gor’kij, The Kingdom of Shadows, in K. Mcdonald, M. Cousins, Imagining Reality: The Faber Book of Documentary, Faber & Faber, London 1996.
A. Warburg, Introduzione all’Atlante Mnemosyne, in Mnemosyne l’Atlante della memoria di Aby Warburg, Artemide Edizioni, Siena 1998.

Fairytale. Regia: Aleksandr Sokurov; sceneggiatura: Aleksandr Sokurov; interpreti: Alexander Sagabashi, Fabio Mastrangelo, Lothar Deeg, Pascal Slivansky, Tim Ettelt, Vakhtang Kuchava; produzione: Intonations; origine: Belgio, Russia; durata: 78′; anno: 2022.

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