«Est modus in rebus», ammoniva Orazio: ogni cosa ha una misura, un limite che regola tanto il dire quanto l’agire, orientandoli verso ciò che è giusto. La scelta di Gianni Di Gregorio di porre tale massima al centro di una scena del suo ultimo film – lo scontro verbale e fisico tra il protagonista, dallo stesso interpretato, e uno sconosciuto irridente delle disgrazie altrui – si configura non soltanto come chiave di lettura di Come ti muovi, sbagli, ma, per estensione, come fondamento ermeneutico dell’intera filmografia del cineasta romano. Un episodio apparentemente marginale, che evidenzia tuttavia l’originalità della prospettiva, capace, nell’insieme dei suoi lungometraggi, di trasformare la cifra dell’equilibrio da semplice stilema a principio fondativo della propria visione cinematografica. 

La poetica della misura, che sin dal debutto si delinea come matrice primaria e naturale dell’opera di Di Gregorio, si è progressivamente consolidata in un dispositivo estetico e narrativo in cui l’ironia sobria, il pudore espressivo e l’essenzialità della messinscena trascendono la dimensione stilistica per assumere la forma di una posizione etica, inserendo la sua produzione in un orizzonte di resistenza alla spettacolarizzazione della contemporaneità. Tale impostazione si delinea come fil rouge distintivo fin dall’esordio con Pranzo di Ferragosto (2008), film a budget ridotto e privo di una sceneggiatura consolidata, il cui ritmo narrativo si regge su piccoli rituali e azioni quotidiane, richiamando alla memoria, volontariamente o meno, la stagione neorealista e le sue declinazioni votate alla commedia di costume.

Successivamente, Di Gregorio ha cercato di consolidare questo orizzonte attraverso l’elaborazione di una maschera profondamente personale che, prendendo le mosse dalla propria biografia, incarna sullo schermo l’ideale dell’everyman, il quale, non a caso, condivide con il regista lo stesso nome di battesimo. Una costruzione che non si limita a tradursi in una mera personificazione dell’autore, ma che disegna un ritratto archetipico del cittadino contemporaneo: fragile, confuso, fallibile e immerso nelle contraddizioni di un contesto sociale in rapido e incessante mutamento. Gianni – declinato successivamente nei personaggi del professore o di Astolfo, e caratterizzato da un’identità mite e indolente – si definisce così quale figura mediatrice tra esperienza individuale e percezione collettiva, trasformando la microstoria del singolo in paradigma del vivere ordinario nella società moderna e permettendo di articolare una rappresentazione della condizione umana che intreccia autoanalisi, pathos, umorismo e riflessione sull’inesorabilità del tempo.

Se, infatti, il tòpos della leggerezza costituisce una delle etichette più frequentemente accostate alla sua produzione, un altro luogo comune che ne ha accompagnato la ricezione critica è la riduttiva definizione di “cinema della terza età”. Da un lato, la riflessione che attraversa il tocco lieve di Di Gregorio si confronta costantemente con tematiche legate all’anzianità: la crisi della mascolinità adulta in Gianni e le donne (2011), il cambiamento e la difficoltà di adattarsi a contesti lavorativi estranei in Buoni a nulla (2014), il pensionamento e il mito della quiescenza all’estero in Lontano lontano (2019), il desiderio amoroso che, anche in tarda età, si manifesta nelle sue forme più pure e fanciullesche in Astolfo (2022). Dall’altro, tali nuclei narrativi si dispiegano come indagine di più ampio respiro sulla condizione umana, nella quale la maturità assume il valore paradigmatico attraverso cui interrogare desideri, debolezze e possibilità di riscatto del soggetto comune.

La convergenza di tali elementi, in continuità con un percorso autoriale ormai giunto al sesto lungometraggio, riemerge con coerenza nell’ultima fatica del cineasta, la cui denominazione stessa sintetizza la critica sottile alla famiglia borghese posta al centro della narrazione. Come ti muovi, sbagli sembra così condensare in una frase di uso comune il cuore stesso del film: l’assunto secondo cui ogni agire individuale porta con sé la possibilità dell’errore, soprattutto nelle relazioni affettive più intime, e si identifica come riflessione sulla vulnerabilità del legame interumano e sull’irriducibile imprevedibilità dell’esperienza.

L’azione segue le vicende di un docente in pensione che, causa eventi familiari improvvisi, è costretto a riconsiderare la routine da scapolo a favore degli obblighi parentali, articolandosi intorno a questioni universali quali la solitudine, il senso della responsabilità genitoriale, la consapevolezza del cambiamento generazionale. Il protagonista, figura che ancora una volta sembra attingere al bagaglio autoriflessivo di Di Gregorio, si muove in un mondo rituale fatto di azioni rassicuranti, dove le piccole difficoltà relazionali ed esistenziali non assumono mai i tratti del dramma, ma si sedimentano in un tessuto di piccoli conflitti e fraintendimenti che appartengono alla consuetudine del vivere.

In questa esaltazione della quotidianità, il regista elegge a palcoscenico privilegiato della rappresentazione una Roma trasteverina e crepuscolare, che lungo l’intera filmografia si configura al tempo stesso come culla e prigione: non semplice sfondo urbano, ma specchio di una comunità e di una generazione sospesa tra prossimità e isolamento, tra radicamento e smarrimento. Questo affresco sulla complessa identità della classe media contemporanea non è mai orientato da forzature melodrammatiche, ma piuttosto dalla ricerca di una rigorosa verosimiglianza delle situazioni, che l’autore restituisce attraverso il consueto registro essenziale e minimalista, scandito da tempi narrativi dilatati.

Il complesso attoriale – che dall’iniziale amalgama di ascendenza neorealista si è progressivamente arricchito, film dopo film, di interpreti affermati del panorama italiano, da Marco Marzocca a Ennio Fantastichini, sino a Stefania Sandrelli – appare costruito quasi a marcare il confine tra la comfort zone del protagonista e il suo coinvolgimento nelle dinamiche familiari e sentimentali, che lo spingono, suo malgrado, ad assumere una posizione nelle relazioni. In questo modo, Di Gregorio trasporta tale tensione latente all’interno delle scelte di casting, riconducendo ancora una volta le dinamiche artistiche alla costruzione dell’habitat del proprio alter ego, e ribadendo il rapporto di veridicità e continuità che lega istanze autoriali e figura diegetica.

Da una parte, si ritrova il microcosmo confortante delle amicizie di quartiere, dei gestori e degli avventori dei luoghi abitualmente frequentati, portati sullo schermo da interpreti poco noti o da giovani esordienti, che sembrano garantire continuità con l’impostazione realistica del primo cinema digregoriano. Dall’altra, la presenza di grandi nomi del panorama nazionale, come Greta Scarano e Iaia Forte, affiancate da un attore di richiamo internazionale quale Tom Wlaschiha, sembra simboleggiare al contrario la pressione del personaggio a fare i conti con le sue ansie più celate, quelle dei difficili rapporti con i congiunti.

Alla star di Game of Thrones (2011-2019), inoltre, è associato un elemento di originalità nel cinema di Di Gregorio, che in questo contesto filmico sembra sviluppare una doppia linea narrativa: la cronaca della normalità, saldamente ancorata al reale, che costituisce il fulcro della narrazione dedicata all’esplorazione dell’ordinario; e il racconto straordinario, che prende forma invece nella scelta del personaggio di Helmut di intraprendere un pellegrinaggio dalla Germania come pegno di pentimento e d’amore nei confronti della moglie tradita. È in questo percorso parallelo che si iscrive l’unità onirica dell’opera, attraverso la presenza di un lupo solitario. Separato dal branco, esso assume la funzione di emblema della trasformazione e dell’adattamento, incarnando resistenze e paure esistenziali del disorientato protagonista, costretto a transitare dalla condizione di creatura selvaggia a quella di animale domestico, in una metamorfosi che riflette il contrasto tra istinto isolazionista individuale e necessità dell’altro.

Così, tra leggerezza e introspezione, Come ti muovi, sbagli arricchisce ulteriormente la poetica della misura di Di Gregorio, evidenziando la sua capacità di trasformare l’usualità della vita in narrazione universale, indagando traiettorie che animano l’esistenza, svelando le dinamiche invisibili che plasmano le relazioni e offrendo, con apparente semplicità, uno sguardo penetrante sulla complessità del mondo contemporaneo.

Come ti muovi, sbagli. Regia: Gianni Di Gregorio; sceneggiatura: Marco Pettenello, Gianni Di Gregorio; fotografia: Maurizio Calvesi; montaggio: Sara Petracca; musiche: Ratchev & Carratello; interpreti: Gianni Di Gregorio, Greta Scarano, Tom Wlaschiha, Alessandro Bedetti, Iaia Forte, Pietro Serpi, Hildegard De Stefano, Anna Losano, Rishad Noorani; produzione: Bibi Film tv, Rai Cinema, Les Films du Poisson; origine: Italia; anno: 2025; durata: 97′.

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