In un testo sull’averroismo, Emanuele Coccia enuncia una tesi: «Ogni commentatore, senza mutare in nulla la lettera, rovescia lo stato e l’aspetto della lingua di un’opera e trasforma ciò che è scritto in qualcosa che è ancora da dire e formulare, inverte la tradizione nella più alta poesia della memoria» (Coccia 2005, p. 8). Di paradossale in questa tesi c’è almeno l’idea per la quale «per poter conoscere qualcosa […] è necessario essere – nell’attimo stesso della comprensione – perfettamente contemporanei a ciò che si comprende» (ivi, p. 9). Nel chiederci quali significati assuma questa contemporaneità rispetto a un’opera che è stata scritta nel passato, non bisogna però dimenticare una seconda questione, altrettanto fondamentale, per non inchiodare la tradizione ai vincoli di un canone in grado unicamente di rendere «incomprensibili i suoi oggetti» (Overbeck 1880, p. 1). Ossia quell’atteggiamento – questo sì davvero contemporaneo – che domanda a chi scrive un surplus, l’originalità stessa, distillata nella sua purezza, incapace di fare un passo fuori dall’introversione del soggetto, di uscire all’aria aperta di un’esperienza comune.

Commentare, allora, assume su di sé questo secondo significato, tutt’altro che secondario, di opposizione a un canone morto o morente, inadatto, nella ricostruzione enciclopedica, a connettere ripetendo il gesto di scrittura dell’opera. Non sarà così l’opera in sé ad assumere una primità logica, ma la possibilità di ripetere il gesto della sua composizione, il possibile della sua scrittura, unico tratto ad essere, oltre che prodotto, al contempo ricevuto. Il commento, dunque, come ciò che «al sapere universale di un’enciclopedia […] preferisce il problema, che indica e designa solo una virtualità singolare di apprendimento» (Coccia 2005, p. 11).

Sembrerà certo strano accostare queste riflessioni sul commento a uno di quei pensatori che, inserito nel novero dell’enciclopedia delle scienze filosofiche, meglio di altri si presta a essere descritto come un genio isolato. Eppure, di fronte alla lettura dei testi contenuti in Esperienza e povertà (Castelvecchi 2022), l’impressione è che l’intera operazione benjaminiana sia volta alla distruzione del rovinoso mausoleo dell’enciclopedia, colpevole di bloccare con i suoi muri ogni passaggio, per tornare finalmente a percorrere le arterie cittadine come farebbe un flâneur incuriosito dalle metamorfosi alle quali lo espone la strada:

Il carattere distruttivo non vede nulla di duraturo. Dove altri impattano sui muri o su montagne, anche lì egli vede una strada. Ma proprio perché vede ovunque una strada, deve anche liberarla ovunque. [...] Poiché vede sempre strade, egli stesso sta sempre al crocevia. Nessun istante può sapere quel che porta il successivo. Lascia in rovine l’esistente non in nome delle rovine, ma della strada che le attraversa (Benjamin 2022, p. 43).

Questo richiamo alla strada riporta immediatamente alla mente l’attraversamento di uno spazio mediano e comune, uno spazio che – prendendo a prestito un’espressione coniata da Augustin Berque – potremmo definire mesologico (Cfr. Berque 2014). L’idea di un simile milieu, nato al crocevia tra diversi camminamenti, fa cenno, ancora una volta, a un luogo che può essere abitato simultaneamente nella contingenza dell’incontro, all’idea cioè di una parola diffusa che costruisce il proprio destinatario nel momento in cui è pronunciata e trasmessa al di là di ogni fine esplicito di trasferimento programmatico.

È lo stesso Benjamin, nel saggio su Nikolaj Leskov a diagnosticare l’incapacità contemporanea di narrare. Un’incapacità questa che non è certo relegata a un momento storico determinato, coincidente con gli anni ’30 del Novecento, ma che può essere estesa mutatis mutandis alla odierna situazione incarnata nell’idea della comunicazione (grande mito cosmologico della nostra epoca). In che modo? O meglio, «da quali moribondi giungono, oggi, parole così durevoli da poter passare, come un anello, di generazione in generazione?» (Benjamin 2022, p. 51).

Se la questione posta da Benjamin si configura, a questo livello, come la diagnosi di una povertà di esperienza, questa miseria non va certo ascritta alla incapacità del singolo di percepire alcunché. Al contrario, «questa povertà di esperienza è povertà non solo di esperienze private, ma di esperienze umane in genere», una condizione che «induce a cominciare daccapo; a cominciare dal nuovo; a cavarsela con poco», a badare «più all’interno che all’intimità», in una totale «mancanze di illusioni sull’epoca» che, tuttavia, non manca di «una professione di fede priva di scrupoli a suo favore» (ivi, p. 53). Quando scriviamo che nella costruzione di questo spazio interiore, dell’individuo singolo isolato dalle atmosfere del mondo, nell’epoca contemporanea ne va di un’idea di spazio comune, che si pone addirittura in una dimensione trans-storica, stiamo semplicemente ripetendo il gesto benjiaminiano. Pensiamo a quanto Benjiamin scriveva a proposito dei romanzi di Paul Scheerbart:

Ci sono suoi romanzi che da lontano paiono quelli di Jules Verne, ma a differenza di Verne, dove nei più meravigliosi veicoli svolazzano nel cosmo sempre e soltanto dei piccoli rentiers francesi o inglesi, Scheerbart si è interessato alla domanda di cosa rechino in dote i nostri telescopi, i nostri aerei e razzi degli uomini di un tempo a delle creature completamente nuove, amabili e adorabili (ivi, p. 54).

Cosa rechiamo in dote quando parliamo e scriviamo, cosa di quello di cui discorriamo può essere ricevuto, in che modo e con quante risate? In una domanda: come facciamo esperienza? Questioni interrelate queste, che chiamano a riscoprire un linguaggio altro da quello del semplice transito immediato, un linguaggio che può essere abitato comunemente e che sia capace di lasciarci forse meno isolati nel tempo e nello spazio. Si pensi solamente al luogo in cui siamo, a quel mondo universitario in cui ci viene chiesto di scrivere centinaia di testi incapaci di proseguire qualsivoglia esperienza, di narrare alcunché. Non sono forse questi omogenei rispetto a quanto Benjamin scriveva a proposito dell’informazione? Che essa deve essere «comprensibile in sé e per sé» nel suo aggiornarci ogni mattina «sulle novità del globo terrestre», mantenendoci tuttavia «poveri di storie degne di nota» (ivi, p. 68)? Non sono forse questi testi poveri di meraviglia, quell’esperienza singolare che si espone contemporaneamente al timore e al desiderio che Aristotele poneva a fondamento della pratica della filosofia?

Si è già per metà artisti della narrazione, quando si sgombera la storia da spiegazioni mentre le si riporta. [...] Lo straordinario, il meraviglioso viene sempre narrato con la massima esattezza, mentre il nesso psicologico degli eventi non viene imposto al lettore. Gli viene concesso di figurarsi la cosa come la intende, così che il narrato raggiunge una gamma di vibrazioni di cui l’informazione è priva (Ibidem).

Quello spazio di indeterminatezza del contenuto, in cui colui che riceve la narrazione, non deciso in anticipo, ne fa esperienza e, facendone esperienza, esperisce contemporaneamente il possibile che essa porta con sé. Possibile che, per sua natura, non può essere posseduto se non a patto di relegarlo al regno del canone dei racconti, ossia a quei racconti che non vengono più raccontati né letti. Si pensi a Dante o a Manzoni, e all’uso che ne viene fatto all’interno dei programmi scolastici, in cui il testo vivo è restituito agonizzante per mezzo di interpretazioni stabilite e canonizzanti. Siamo ben lontani, insomma, da quella fuga dell’interpretante, che non ha né un inizio né una fine, non facendo che passare da un crocevia del senso al successivo. Ben altra cosa sarebbe la narrazione di quei testi, incapace di consumarsi, custodendo in essi la possibile espressione di un mondo, lasciandoli aperti – grazie all’anacronismo – alla propria capacità di dispiegarsi contemporanei nel tempo.

Riferimenti bibliografici
A. Berque, La Mésologie, pourquoi et pour quoi faire, Presses universitaires de Paris-Ouest, Paris 2014.
E. Coccia, La trasparenza delle immagini. Averroè e l’averroismo, Bruno Mondadori, Milano 2005.
F. Overbeck, Zur Geschichte des Kanons. Zwei Abhandlungen, Chemnitz 1880.

Walter Benjamin, Esperienza e povertà, a cura di Massimo Palma, Castelvecchi, Roma 2022.

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