Si è soliti attribuire all’ussaro Roger Nimier, scrittore e giornalista francese, la caustica definizione “la filosofia è come la Russia, piena di paludi e spesso invasa dai tedeschi”. Se considerata al di là del suo carattere provocatorio, questa battuta delinea in maniera abbastanza precisa lo spazio attraverso cui inquadrare il pensiero filosofico del Novecento. “Secolo breve” che ha avuto il proprio battesimo del fuoco nelle paludi e nel fango delle trincee della Prima guerra mondiale e che ha trovato nel pensiero filosofico tedesco, in maniera complessa e spesso problematica, le proprie punte di diamante – da Husserl a Heidegger, passando per Benjamin, Spengler, Blumenberg, Adorno e molti altri.
L’autore in cui, tuttavia, il fango, non metaforico, delle trincee e la grande speculazione tedesca trovano il loro punto di tangenza è, senza dubbio, Ernst Jünger. Come evidenziato in maniera esemplare nel documentato volume di Gabriele Guerra, Ernst Jünger. Una biografia letteraria e politica, il Novecento può essere considerato il “secolo tedesco” per eccellenza e, mutatis mutandis, anche il “secolo jüngeriano”. E questo per diversi motivi. Innanzitutto per questioni biografiche: nato nel 1895 e morto nel 1998, alla straordinaria età di 103 anni, Jünger ha vissuto interamente le vicende del secolo passato restituendoci nella sua sterminata e variegata produzione (saggi, romanzi, diari e interviste) le oscillazioni storiche a lui contemporanee. In secondo luogo, è interessante notare come le sue opere, almeno fino a un certo momento, appaiano come degli strumenti affilatissimi e precisi per penetrare tra le maglie delle vicende politiche, sociali, filosofiche e, in generale, culturali del secolo scorso.
Il grande merito del testo di Guerra è quello di restituire in maniera approfondita, documentata e innovativa i vari tornanti della biografia intellettuale di Jünger. E tuttavia questo è solo un primo livello; infatti, la grande ambizione del volume è quella di ripercorrere, come evidenziato nel sottotitolo, la produzione jüngeriana a partire dall’endiadi letteratura e politica. Questi due termini, nell’interpretazione del pensiero di Jünger orchestrata da Guerra, sono pensabili solamente nella fitta trama di rimandi che legano a doppia mandata i due poli a cui essi fanno capo. Detto molto semplicemente: in Jünger ogni forma letteraria contiene intrinsecamente una carica eminentemente politica e, per converso, ogni riflessione politica è inquadrabile solo a partire dallo sfondo letterario entro cui essa prende forma.
L’esempio più cristallino di questo nesso ontologico è rappresentato dai diari di guerra redatti dal giovane soldato Jünger durante gli anni del primo conflitto mondiale e pubblicati con l’evocativo nome Nelle tempeste d’acciaio. A differenza di Walter Benjamin, che riteneva che la Prima guerra mondiale rappresentasse il buco nero dove ogni possibilità di fare esperienze collassava, per Jünger della guerra si può fare esperienza e, soprattutto, di tale esperienza bisogna dar conto con la scrittura; in altre parole, si combatte con le armi, ma si lotta con la penna: «I diari di guerra, in questo senso, offrono l’istantanea del complesso laboratorio jüngeriano, fra scrittura e guerra e guerra come scrittura, in cui la letteratura assume un valore mutevole a seconda delle circostanze e dell’evoluzione intellettuale dell’autore» (Guerra 2025, p. 37). Nelle pagine di Jünger avviene una vera e propria estetizzazione della guerra, sottolineando come qui il lemma “estetico” vada inteso a partire dalla sua scaturigine greca, ossia come “teoria della sensibilità”. Se Benjamin legava il concetto di esperienza a quello di povertà, con Jünger, in maniera diametralmente opposta, ci troviamo di fronte al nesso parola-esperienza: «“Das Wort und das Erlebnis” nel bel mezzo della morte: ecco in definitiva il geroglifico politico-simbolico capace di donare istantaneamente senso (religioso) a un’esperienza che pare irrappresentabile» (ivi, p. 41).
E proprio questo tentativo di dare forma all’irrappresentabile costituisce lo spazio teorico a partire da cui comprendere la posizione assunta da Jünger all’interno di quella costellazione storica, filosofica, politica e, in generale, culturale che tra le due guerre assunse il nome di Rivoluzione conservatrice. In questo contesto la posizione assunta da Jünger è affatto eccentrica e complessa: il concetto guida che muove le sue riflessioni di questo periodo è quello di forma, termine che compare anche nel suo capolavoro filosofico del 1932, ossia Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt. Nelle pagine jüngeriane a cavallo tra gli anni venti e gli anni trenta si tratta, in altre parole, di trovare nuove coordinate filosofiche capaci di coniugare in un rapporto biunivoco la possibilità di una prassi politica e la ricerca di una forma che, facendo da cassa di risonanza alla volontà di potenza nietzscheana, sia capace di esprimere le istanze più adatte per l’azione. La Rivoluzione conservatrice nel prisma ermeneutico di Jünger esprime «un chiasmo perenne: tra politica e letteratura, tra azione e reazione, tra estetica e intervento, tra tradizione e avanguardia, tra passato e futuro, tra mito e storia, tra politica e religione e infine tra autorità e autorialità» (ivi, p. 53). Solo in virtù di questo contesto speculativo si può comprendere la figura dell’Operaio tratteggiata da Jünger nel suo saggio Der Arbeiter. Al di là di ogni interpretazione sociologica e politologica, l’Operaio nelle mani di Jünger diviene materiale incandescente capace di assume la forma di un nuovo Tipo umano all’altezza dei mutamenti tecnici che il primo conflitto mondiale, esperito come guerra di materiali e come mobilitazione totale, aveva messo in campo.
Con il progressivo avvento del nazionalsocialismo e con il suo parziale tradimento degli ideali dell’orizzonte della Rivoluzione conservatrice la posizione politica di Jünger subì un ulteriore mutamento; e, coerentemente con la tesi guida del volume di Guerra, a questo cambiamento seguì anche una nuova forma di composizione letteraria. Attenzione: Jünger non prese mai in maniera netta le distanze dal movimento politico di Hitler, che vedeva nello scrittore, eroe sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale, un esempio cristallino della superiorità tedesca sia a livello culturale sia a livello militare. Tuttavia Jünger non si lasciò sedurre dalle sirene del potere, considerando il nazionalsocialismo una sorta di imbarbarimento degli ideali conservatori che avevano dato forma al suo attivismo politico precedente; ecco che il “soldatismo politico” degli anni a cavallo tra la Grande guerra e gli albori della Repubblica di Weimar lascia lentamente spazio all’affermazione di una innere Emigration, rappresentata in maniera plastica dalle pagine del testo Cuore avventuroso, «raccolta di testi talvolta molto diversi tra loro, ma tutti accomunati dalla ricerca di un medium alchemico tra interno ed esterno, tra sfera pubblica e interiorità, tra status dello scrittore e dell’osservatore e di colui che interviene sulla realtà per modificarla» (ivi, p. 128).
Con la fine del secondo conflitto mondiale la tendenza a una “migrazione interna” diviene ancora più evidente e radicale. Il realismo eroico del reduce della Grande guerra lascia sempre maggior spazio a una sorta di realismo magico; l’utilizzo di un linguaggio figurato diviene, in tal modo, la cifra più caratteristica del metodo narrativo e dell’atteggiamento politico del tardo Jünger. Manifesto di tale tendenza è indubbiamente un mesmerico testo del 1951 intitolato Der Waldgang. La traduzione italiana del titolo del testo – Il trattato del ribelle – coglie solo in parte l’orizzonte concettuale delineato da Jünger in queste pagine. Ancora una volta si tratta di trovare una nuova forma dell’umano capace di corrispondere all’appello dell’essere nell’epoca dell’omologazione tecnico-borghese. Colui che passa al bosco – il Waldgänger, per l’appunto – rappresenta in maniera plastica la forma di una resistenza interiore capace di eludere il carattere uniformante del sistema urbano della modernità. Il corrispettivo politico di questa forma metafisica è la figura dell’anarca, in cui indocilità e disciplina diventano i poli di una forma di stilizzazione esistenziale di colui che è capace di percorrere vie impervie e massimamente “necessarie”. Anche qui, come era avvenuto per l’Arbeiter, si tratta di individuare un nuovo Tipo umano capace di reggere l’urto dell’essere – Stoß des Seins, espressione utilizzata in quegli stessi anni da Martin Heidegger, non a caso uno dei referenti privilegiati per lo Jünger di quel periodo.
Quelli qui presentati, seguendo le pagine del volume di Guerra, sono solamente alcuni dei tratti peculiari della vasta produzione di Jünger che, grossomodo, copre l’intero arco temporale del Novecento. Quel che emerge è la figura di sismografo sensibilissimo alle variazioni storiche, politiche, culturali e, ça va sans dire, filosofiche di un secolo talmente ricco di eventi e contraddizioni che potrebbe assurgere a vera e propria categoria di pensiero – il Novecento. Uno dei meriti del testo di Guerra allora è quello di accompagnarci tra gli innumerevoli tornanti del cammino di pensiero di Jünger in maniera precisa, approfondita e competente – segno di uno studio dell’autore sedimentato nel tempo. Ma c’è di più. L’aver individuato nel nesso tra politica e letteratura la cifra ermeneutica più appropriata per approfondire il pensiero jüngeriano ci restituisce tutta la complessità di un autore, le cui pagine, spesso oggetto di uno studio fazioso, andrebbero ormai analizzate sine ira et studio.
Riferimenti bibliografici
P. Amato, S. Gorgone, G. Miglino, a cura di, Rappresentare l’irrappresentabile. La Grande Guerra e la crisi dell’esperienza, Marsilio, Venezia 2017.
W. Benjamin, Esperienza e povertà, Castelvecchi, Roma 2018.
Gabriele Guerra, Ernst Jünger. Una biografia letteraria e politica, Carocci, Roma 2025.