Sono passati dieci anni, era l’11 gennaio 2010, dalla morte a Parigi del regista Eric Rohmer, uno dei più importanti esponenti di quella nouvelle vague che rivoluzionò profondamente il cinema francese e con esso il cinema di tutto il mondo. Aveva 89 anni, ne avrebbe compiuti 90 all’inizio della primavera e avrebbe dunque festeggiato nelle scorse settimane i suoi primi 100 anni, lui che dei giovani turchi era sempre stato il fratello maggiore. Professore di lettere al liceo già negli anni cinquanta, è stato forse il più colto di una banda che voleva modificare una certa tendenza del cinema francese e che ha cominciato a pensare la settima arte animando i cineclub parigini, scrivendo sulle riviste e inventando un nuovo modo di vedere il cinema, la politique des auteurs, che rese celebri in tutto il mondo quei Cahiers du cinéma che con il numero di aprile 2020 – dopo la clamorosa dimissione in blocco di tutta la redazione in seguito alle dichiarazioni d’intenti dei nuovi proprietari – giungono probabilmente al loro compimento.

Al suo funerale venne proiettato un tributo realizzato dall’amico Jean-Luc Godard. Il cortometraggio, intitolato Il y avait quoi, si apre sulla Sonata a Kreutzer di Beethoven, che a Tolstoj ispirò l’omonimo racconto dal quale Rohmer aveva tratto uno dei suoi primi mediometraggi, prodotto dallo stesso Godard nel 1956. Sulla musica di Beethoven la voce di Godard evoca immagini e incontri del loro passato comune, intrecciandosi e sovrapponendosi ai titoli dei più celebri articoli di Rohmer, proiettati uno dopo l’altro sullo schermo nero.

È da quel passato che emerge lentamente – fino poi a stagliarsi fissa – l’immagine di Maurice Schérer (vero nome del regista), bavero alzato e sguardo serio, per transitare nella citazione finale di Flaubert, «C’est ce qu’on a eu de meilleur», letta dallo stesso Godard a capo chino. Flaubert, l’inventore del romanzo moderno: non una scelta casuale per salutare un regista spesso accusato di eccessiva letterarietà; Flaubert, forse, perché tutta la filmografia di Rohmer altro non è che una lunga educazione sentimentale, capace di attraversare epoche e contesti diversi senza mai smettere di interrogarsi sui rapporti tra gli esseri umani.

Gli inizi di Rohmer furono tardivi e, com’è noto, niente affatto semplici. Alla sua uscita nel 1962, tre anni dopo averlo girato, l’esordio nel lungometraggio con Il segno del leone fu un disastro al botteghino. Rohmer ebbe quindi bisogno di inventarsi un modo di fare cinema, si trovò costretto a immaginare un sistema che potesse garantirgli uno spazio, dargli possibilità di azione, libertà e soprattutto una sostenibilità produttiva. Nasce così il sistema delle serie, che tradusse in realtà la sua idea di cinema. Così lo descriveva nei primi anni settanta:

Da una parte ho progettato i “Racconti morali” perché avevo voglia di seguire la stessa idea attraverso più film, e dall’altra perché credevo fosse più facile, sotto questa forma, far rispettare la mia idea al pubblico e ai produttori. Invece di chiedermi quali fossero i soggetti suscettibili di piacere al pubblico, mi sono detto che era meglio trattare sei volte lo stesso soggetto con la speranza che in capo alle sei volte il pubblico sarebbe venuto a me. Mi sono ostinato nell’idea e non ho voluto desistere. Ebbene, credo che se ci si ostina in un’idea, si finisce col convincere e conquistare degli adepti. Ho voluto essere, perciò, assolutamente inflessibile. Anche nel caso di un distributore, gli è molto più difficile farmi osservazioni, rimproveri o critiche se si tratta di una sceneggiatura che fa parte di un gruppo di sei piuttosto che di una sceneggiatura isolata (Nogueira 1971, p. 45).

Tre grandi serie attraversano gli anni sessanta, ottanta e novanta: sei Racconti morali, sei Commedie e proverbi e quattro Racconti delle quattro stagioni. In mezzo e successivamente, all’interno delle serie e al di fuori di esse, la possibilità di prendere altre strade, di dedicarsi a film storici, in costume o di spionaggio, di continuare a lavorare per la tv o per il teatro, di dedicarsi alle sue altre passioni (la letteratura, la musica). Tra i grandi registi del XX secolo Rohmer è uno di quelli che oggi anima giustamente un culto discreto e continuo, forse numericamente contenuto, ma praticamente incrollabile.

Diciamolo chiaramente: il suo nome è spesso accostato a un cinema considerato lento, chiacchierone e troppo intellettuale – è celebre l’omaggio a contrario tributatogli in Bersaglio di notte del 1975, dove Arthur Penn fa dire a Gene Hackman «Ho visto un film di Rohmer una volta. Era come vedere della pittura asciugare». Ma l’accusa appare semplicemente incomprensibile per i suoi estimatori tanto appassionante, intrigante se non addirittura travolgente risulta ogni volta calarsi nel gioco dei suoi film, percependo un’aria di famiglia e contemporaneamente apprezzando tutte le variazioni del caso.

Perché quello di Rohmer è un gioco perenne – e come tutti i giochi un affare molto serio – che ha come fine sé stesso, e cioè l’unico scopo di provare a comprendere un po’ di più la propria vita e quella degli altri. La dimensione filosofica, certo presente nei suoi film, appare più come forma che come contenuto, o per meglio dire come formazione, come premessa, cornice o pretesto; immergersi nel suo cinema non fornisce risposte né pone domande che interrogano in profondità il nostro essere se non nella misura in cui consente allo spettatore di accedere a un mondo, di volerne far parte e di desiderare di passare del tempo insieme ai suoi personaggi.

Nulla di diverso in fondo da quell’esperienza che Jean-Louis Trintignant descrive a Vittorio Gassman, in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi, quando dice che a volte si riesce a entrare più in confidenza con degli sconosciuti che con persone che si conoscono da una vita (chissà se Rohmer se ne è ricordato quando ha scelto Trintignant come protagonista de La mia notte con Maud, uno dei più celebri tra i suoi Racconti morali).

Ecco allora almeno uno degli enjeu fondamentali del suo cinema. Tra le ragioni del suo fascino vanno annoverate le tante diversità che animano un progetto globalmente coerente, la costruzione metodica di una dialettica aperta che non si preoccupa di incorrere in contraddizioni. Difficile esaurirne in un elenco i poli fondamentali: tradizione e innovazione, classicità e modernità, serio e faceto, conservazione e cambiamento, realismo e utopia, o ancora uomo/donna, città/campagna, finzione/documentario, io/altro. Nessuna di queste coppie riesce in effetti a tradurre (di per sé o insieme alle altre) quel misto di gravità e leggerezza che caratterizza i film di Rohmer, né a dire qualcosa di preciso sulla libertà profonda che, a partire dalle loro condizioni di produzione, sembra transitare direttamente nelle sue opere.

Se fosse lecito coniare un’espressione un po’ bizzarra si potrebbe dire che quello di Rohmer è un cinema dell’ipotetico, un cinema che prende il tempo e lo spazio per vagliare le diverse ipotesi che di volta in volta si presentano ai protagonisti delle sue storie. «Prima qualità del cinema di Rohmer: la pazienza», scriveva Serge Daney nel 1966. Perché i personaggi «possano vedere qualcosa hanno bisogno di un periplo, di un’iniziazione, di una prova al termine della quale avranno meritato quel che avevano già ma che doveva diventare più intimo» (Daney 2001, p. 284).

Prendere il tempo per accedere alla visione. Permettere all’ordinario di accogliere lo straordinario. Credere nella possibilità che succeda qualcosa e vivere assecondando questa fede. È questo senza dubbio il lato più rosselliniano del cinema di Rohmer, che d’altra parte non ha mai nascosto il suo debito nei confronti del regista: «Ho detestato lo sguardo che mi invitava ad avere sul mondo, prima di comprendere che mi invitava anche a superarlo. E allora c’è stata la conversione. È questo che è straordinario in Stromboli, è stato il mio cammino di Damasco: in mezzo al film sono stato convertito, e ho cambiato ottica» (Narboni in Rohmer 2004, p. 22).

Rossellini gli ha mostrato che il cinema è un luogo nel quale la grazia può manifestarsi. E se per Rohmer Stromboli è essenzialmente un grande film cattolico, sa benissimo che le possibilità aperte dal capolavoro di Rossellini oltrepassano la dimensione religiosa e riguardano le potenzialità del cinema tout court, sola tra le arti capace di «lasciare spazio alla categoria estetica del sublime» (Rohmer 2004, pp. 201-205). Predisporsi all’esperienza della grazia, aprirsi all’occasione che essa si manifesti significa allora per il Rohmer regista non soltanto non essere ossessionati dalla verosimiglianza ma anche non avere timore di incorrere nell’inverosimiglianza, quando non addirittura perseguirla esplicitamente.

Ed è questa posizione ad aprire a un altro dei grandi piaceri che caratterizza il suo cinema, e cioè la possibilità di godere dei suoi film a livelli diversi. C’è un primo livello, letterale, che consiste nel seguire le storie che racconta, nell’appassionarsi alle peripezie dei suoi personaggi e ai loro volteggi sentimentali. C’è chi poi, considerando il cinema come una finestra sul mondo, può trovare nei suoi film scorci, mestieri, paesaggi della Francia della seconda metà del Novecento, cogliendone anche un interesse antropologico-culturale.

C’è anche, tra le tante altre, una possibile lettura che induce a interrogarsi sul rapporto tra verità e dissimulazione – forse uno degli aspetti più ludici del suo cinema. Devo credere a tutto quel che ho appena visto? Posso credere a quel che ho visto? Cosa è in gioco nella possibilità che io creda o meno, e cioè nella possibilità stessa di accedere a forme di credenza o di fede? Queste domande sono in Rohmer fortemente intrecciate con l’adozione di una regola e con le tante possibilità di infrangerla, nonché con l’esplorazione perenne dei territori del linguaggio: ciò che le parole dicono e quel che invece non possono spiegare, ciò a cui strutturalmente non arrivano facendo apparire come chiare situazioni che, a ripensarci, potrebbero benissimo non esserlo. Sono solo alcuni degli elementi di grande libertà che Rohmer lascia allo spettatore disponibile a lasciarsi coinvolgere nel suo gioco.

In Eric Rohmer, preuves à l’appui, l’episodio della serie Cinéma, de notre temps di André S. Labarthe a lui dedicato, c’è un momento significativo in cui le questioni appena accennate sembrano trovare ulteriore riverbero. Rohmer e Jean Douchet (il grande critico francese scomparso alla fine del 2019) stanno confrontando un provino con la scena corrispondente di Pauline à la plage, e la discussione è improvvisamente interrotta dal suono delle campane di una chiesa.

Douchet ne approfitta per fare una domanda sul ruolo del caso (le hasard, il destino, l’inatteso, il fortuito) nel suo cinema, e Rohmer risponde tematizzando esplicitamente la contraddizione tra la sua posizione filosofica e l’importanza che il caso assume nei suoi film. Lui e la sua banda non contemplavano neanche l’esistenza del caso: da bravi eredi della tradizione filosofica idealistico-trascendentale, nipotini di Hegel tramite Malraux, difendevano una precisa filosofia della storia (e dunque della storia dell’arte, e di conseguenza del cinema).

Per una strana forma di eterogenesi dei fini – o per la più comprensibile delle tante contraddizioni umane che sono in fondo l’oggetto dei suoi film – questa granitica visione teleologica dà vita in Rohmer a un cinema delle alternative e delle possibilità in cui la singolarità dei rapporti è sempre complicata e impreziosita da figure altre, che mettono gli individui di fronte a opzioni esistenziali in cui è spesso il caso a farla da padrone. La questione della scelta è allora centrale nei suoi film, sia essa rivendicata, subìta o evitata. E la questione della scelta non è altro che quella del libero arbitrio, e cioè della responsabilità nei confronti di ciò che succede e delle possibilità di azione riservate agli esseri umani.

La grandezza del cinema di Rohmer consiste nel far assumere a questi temi la forma fisica di una continua flânerie e di riuscire a incarnarli negli sguardi, nei gesti, nei sentimenti, nei percorsi e anche nei discorsi, trattati alla stessa stregua degli altri elementi. È la messa in scena, delle parole come delle azioni, dei suoni, dei corpi e delle ambientazioni a rendere unico il suo cinema. I personaggi di Rohmer passeggiano e attraversano città e luoghi, tutta la loro vita si svolge seguendo le traiettorie che essi descrivono e andare a zonzo diventa uno strumento di analisi dell’anima, come scrive Deleuze ne L’immagine-tempo. La sottile ironia, l’elemento MacGuffin del suo cinema, è che spesso l’essenziale si ritrova nelle deviazioni e non nei cammini principali, ed è forse anche questo a caratterizzare la leggerezza dei suoi film.

Perché se quello che abbiamo scritto mostra alcuni degli aspetti del suo cinema, nulla ancora si è detto dell’essenziale, ovvero che Rohmer è fondamentalmente un regista dell’amore e della seduzione. Martin Barnier e Pierre Beylot parlano di una climatologia delle passioni che attraversa tutti i suoi film, con una particolare predilezione per i film estivi. Nel rapporto che lega i personaggi agli ambienti e gli ambienti alle stagioni, Rohmer ha dimostrato ripetutamente di credere nella giovinezza come stagione centrale della vita, provando di essere costantemente innamorato dei protagonisti – e soprattutto delle protagoniste – dei suoi film, di cui ha tracciato ritratti di grande indipendenza e anticonformismo. La modernità del suo cinema consiste anche nel mostrare che se è vero che la grazia è possibile, e se il cinema è il luogo in cui si può accogliere la grazia, essa passa attraverso una magnificazione del creato più che tramite un’invocazione del Creatore. Dio è il grande fuori campo del cinema di Rohmer.

Nel secondo episodio dei Rendez-vous de Paris due giovani amanti passeggiano all’interno del cimitero di St. Vincent, nel quartiere di Montmartre. Passando davanti a una delle sepolture il ragazzo dice che vorrebbe una tomba semplice, non una monumentale come molte di quelle che si trovano lì attorno. La semplicità di quella tomba è del tutto simile a quella nella quale nel cimitero di Montparnasse, non lontano dal mercato di boulevard Edgar Quinet, a due passi dalle tombe di Huysmans e Baudelaire, di Henri Langlois, Jacques Demy e Agnès Varda, ma anche da quelle di Jean Seberg e Anne Wiazemsky, di Sartre e de Beauvoir, di Proudhon e Cortazar, riposano oggi le spoglie di Maurice Schérer, detto Eric Rohmer.

Riferimenti bibliografici
M. Barnier, P. Beylot, Analyse d’une œuvre: conte d’été, Vrin, Paris 2011.

S. Daney, La maison cinéma et le monde, vol.1, Le temps des Cahiers: 1962 – 1981, POL, Paris 2001.
M. Mancini, Eric Rohmer, Il castoro cinema – La nuova Italia, Firenze 1983.
J. Narboni, a cura di, Le temps de la critique. Entretien avec Eric Rohmer, in Eric Rohmer, Le goût de la beauté, Petite bibliothèque des Cahiers du cinéma, Paris 2004.
R. Nogueira, Intervista pubblicata su Cinema 71, n. 153, febbraio 1971.
E. Rohmer, Le goût de la beauté, Petite bibliothèque des Cahiers du cinéma, Paris 2004.
G. Zappoli, Eric Rohmer, Il castoro cinema, Milano 1998.

Eric Rohmer, Tulle 1920-Parigi 2010. 

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