Sono passati venticinque anni dalla prematura scomparsa di Kieślowski, la nuova cartografia del cinema europeo sembra aver assimilato alcune figure del suo paradigma visivo (l’attenzione alle forme del reale, la dimensione etica del racconto, la vocazione sentimentale dello sguardo), ma è bene riattraversare alcuni segmenti della sua produzione per ribadire quel che Agniezska Holland ha affermato con grande intensità: «Adesso ho cambiato idea sugli ultimi film di Krzysztof. La sua scomparsa li ha illuminati di una luce nuova, si è manifestato il loro senso nascosto: per noi, che siamo rimasti, suonano come una profezia e un monito» (A. Holland in Fabbri 2o16, p. 33). Tornare a fare i conti con l’inconfondibile punteggiatura del regista polacco significa allora rintracciare il margine che cuce insieme strategie predittive e modi esortativi, ma soprattutto verificare quanto l’azione di scavo delle coscienze abbia determinato precise marche diegetiche, che restano il dato più eloquente della sua maniera registica.
Certamente La doppia vita di Veronica e la trilogia dei colori (gli «ultimi film» nel ricordo di Holland) assumono in prospettiva una valenza assoluta, per la densità della tessitura drammaturgica e lo spessore utopico che agita le storie, ma guardando in controluce tutto il corpus dell’autore quel che riemerge dal fondo è una straordinaria lezione di stile, che poggia sul rigore delle forme e sulla qualità di una scrittura sempre in grado di «filmare l’anima» (ivi, p. 11). Una spiccata caratura profetica appartiene in verità a tutte le opere del Nostro, che mostrano fin dagli esordi la capacità di pre-vedere rapporti e combinazioni (si pensi all’implacabile tassonomia de L’ufficio o Ritornello), inciampi e vertigini (come nel caso de La stazione, con il fortuito ritrovamento di un cadavere in uno degli armadietti, o de L’ospedale, con la miracolosa rottura del martello durante un intervento ortopedico); nel tentativo di tradurre la spinta metafisica che si cela dietro la superficie delle cose, la macchina da presa si muove sempre oltre il dato di realtà, incrinando i rapporti tra visibile e invisibile, tra opacità e trasparenza.
Se la profezia si lega dunque a doppio filo al rapporto tra corpi e luoghi, temi e figure, il monito che giunge dalle traiettorie del cinema di Kieślowski ha a che fare con la piena assunzione di responsabilità rispetto a ciò che viene inquadrato, e dalla conseguente necessità di abbandonare il perimetro del documentario per non violare l’intimità dei testimoni. Quando Kieslowski sceglie di «piazzare la telecamera altrove», intendendo così dedicarsi esclusivamente alla fiction, avviene una piccola scossa sul piano del metodo di ripresa: l’attenzione al contesto storico-sociale non si attenua, i paradossi della storia del suo paese restano al centro del mirino ma cambia la proporzione fra pubblico e privato, tra sfondo e individui, e soprattutto cambiano l’inclinazione e la direzione dello sguardo. È quel che accade a partire da Il cineamatore (1979), film manifesto della torsione dell’obiettivo verso il soggetto della visione, o da Il caso (1981), testo in cui il regista comincia a sperimentare la logica del racconto multiplo, mettendo a fuoco gli effetti delle diverse direzioni del destino; in entrambi i casi si afferma una diversa architettura narrativa, che dà spazio all’intimità del vivere, alle crepe della coscienza, senza rinunciare al dialogo ravvicinato con lo spettatore, al quale viene affidata una fitta trama di indizi da sciogliere e interpretare.
Tadeusz Sobolewski, in uno degli ultimi interventi dedicati a Kieślowski, definisce la sua parabola artistica come «atto ardente» (Sobolewski in ivi, p. 50), individuando nella dialettica fra mondo rappresentato e mondo non rappresentato la cifra peculiare di tale azione creatrice. Si tratta di una lettura importante, che coglie il nesso fra realismo politico e smarginatura estetica e rilancia l’idea di una sostanziale continuità nell’approccio al profilmico e alle sue latenze. Nel sottolineare l’oscillazione fra l’“ingegnere” (soprannome con cui il regista veniva identificato) e l’“artigiano” (appellativo con cui invece amava identificarsi), Sobolewski allude inoltre al paradosso della costruzione narrativa di Kieślowski, diviso spesso fra un millimetrico impianto drammaturgico (attestato dalla compattezza delle sceneggiature) e una sintomatica tendenza all’instabilità, alla non chiusura, che porta il regista a realizzare diverse versioni di una stessa opera. Lungi dal contraddire la fama di «sismografo della realtà» (definizione di Stanisław Zawiśliński riportata da Marina Fabbri), questa tendenza alla divaricazione del plot attesta il principio della molteplicità, della variazione, ingrediente per certi aspetti unico della mitografia cinematografica di Kieślowski.
Il testo che meglio declina tale intermittenza è certamente il Decalogo (1989), progetto ambizioso con cui il regista – forte della collaborazione con l’avvocato-sceneggiatore Piesiewicz – si guadagna l’approvazione della televisione polacca e avvia un esperimento destinato a sovvertire le regole produttive dell’epoca. L’apparente semplicità con cui l’autore definisce i caratteri dell’operazione è il segno della sua capacità di autoanalisi, nonché la prova che qui tutto si gioca nel punto di equilibrio fra cronaca e metafisica:
Il Decalogo è il tentativo di raccontare dieci storie su dieci o venti individui che, colti in una lotta determinata precisamente da queste e non altre circostanze, circostanze fittizie ma che potrebbero occorrere nella vita di ognuno, realizzano all’improvviso di stare girando in tondo, di non riuscire a perseguire ciò che vogliono. Siamo diventati troppo egoisti, troppo innamorati di noi stessi e dei nostri bisogni ed è come se tutti gli altri fossero scomparsi sullo sfondo. Pensiamo di fare molto per i nostri cari, ma se ci voltiamo indietro e ripensiamo alla nostra giornata, sentiamo che nonostante tutti i nostri sforzi, non abbiamo trovato la forza o il tempo necessari per prenderli tra le braccia, dirgli semplicemente una parola gentile o tenera. Non abbiamo più tempo per i sentimenti, e penso che qui stia il vero problema. O anche tempo per la passione, che è strettamente legata ai sentimenti. Le nostre vite ci scivolano via tra le dita (ivi, p. 109).
La preoccupazione per la dispersione emotiva del suo tempo è il filtro attraverso il quale viene messo alla prova il dettato dei Dieci comandamenti, sovvertendo il piano squisitamente teologico in favore di una prospettiva umanitaria. Ogni dogma viene declinato in un film per la televisione di poco meno di un’ora; tutti gli episodi sono ambientati nel quartiere Stowki, alla periferia di Varsavia, così da rendere riconoscibile l’ambiente e favorire l’incontro fortuito fra protagonisti di diverse storie. Il regista intende propiziare meccanismi di fidelizzazione del pubblico, riconoscendo le insidie dell’audience televisiva, esposta al rischio di discontinuità dell’attenzione e dunque alla perdita di alcune informazioni. La serializzazione delle vicende, pur non essendo il principio guida della costruzione diegetica, produce degli effetti curiosi e impone una lettura sistemica dei racconti, alla ricerca di sottili risonanze e fecondi incroci (il caso più eclatante è la ripresa all’interno di Decalogo 8 della trama di Decalogo 2, in una vera e propria messa in abisso della storia).
Grazie all’intuizione di Piesiewicz, Kieślowski si vota a una struttura architettonica e narrativa che trova nel panopticon il modello biopolitico di riferimento, ancorato a movimenti di camera vertiginosi, a un generale sentimento di guardia e controllo; nel calibrato meccanismo di pareti, superfici, finestre e angoli di visione si ha l’impressone che ogni esistenza sia oggetto di sguardi indiscreti, che cercano di ritagliare le figure e di esporle alle insidie della nostalgia. A tematizzare l’irruzione di un’istanza scrutatrice contribuisce anche la presenza di un personaggio muto, interpretato da Artur Barcis, che ricorre in tutti gli episodi (ad eccezione del settimo e del decimo) e si limita a osservare quel che accade ai protagonisti, incontrandoli nei momenti di massima tensione; dietro i suoi occhi si nasconde il mistero di una narrazione che trascende il reale e traduce dissonanti «miraggi emotivi» (Magrelli 1989, p. 11). Se Decalogo 6 si incarica di veicolare l’inquietudine fra desiderio, voyeurismo e sacrificio d’amore (che nella versione lunga per il cinema accoglie una delle più alte espressioni della teoria visuale del regista), Decalogo 8 sintetizza il progetto etico alla base dell’intera operazione, introducendo uno dei temi capitali della ricerca kieślowskiana, quello della responsabilità della scelta.
Nell’economia simbolica della serie spetta però a Decalogo 1 rappresentare la sintesi del paradigma stilistico per via di una spiccata corrente “schermica” che attraversa il film fin dalle prime battute. Qui Kieślowski lavora «sul sistema nervoso del dispositivo-cinema» (ivi, p. 12), si interroga sulla consistenza stessa delle immagini, e segnatamente delle immagini della memoria, come annunciato già dal prologo, che cristallizza la corsa gioiosa di Pawel dentro la cornice di uno schermo televisivo. Questo inserto appartiene in realtà all’“oltretempo” della morte, annuncia che tutto è compiuto e dichiara il carattere illusorio del racconto. A scandire l’illusorietà del cristallo è il doppio sguardo della zia – che fissa la vetrina dei televisori su cui scorrono le sequenze di Pawel – e del testimone muto, che rimane distante dalla scena ma si lascia avvolgere dalla sinfonia del pianto.
Solo alla fine si capirà che il prologo vale a certificare la logica stringente del destino, ad azzerare il cerchio della vita del piccolo protagonista e questa digressione asseconda la dimensione intermediale del testo, in cui tutto precipita nella vertigine dei dispositivi: il computer, la crosta del lago, lo schermo della tv. Le lacrime sembrano essere il leitmotiv dell’episodio grazie a sorprendenti effetti di rima e rifrazione: il pianto rituale della zia di Pawel documenta – nell’ottica di Žižek – la sproporzione fra la realtà della finzione e la spettralità dei corpi, mentre le gocce di cera che si depositano sul quadro della Madonna – a seguito del gesto di dolore e rivolta del padre Krisztof – sono la visualizzazione del principio di una pietà possibile, vero asse simbolico di tutto il Decalogo.
Contravvenendo alle convenzioni produttive del suo tempo, Kieślowski con i dieci film per la televisione dedicati ai Comandamenti ci consegna un sistema di opere che esprimono con convinzione l’idea di cinema come medium, come atlante di situazioni e gesti in grado di traghettare nuovi orizzonti narrativi e nuovi codici di composizione delle immagini: mettendo fuori campo il pessimismo e la miseria della Polonia post regime, il regista sceglie di misurare il brusio della vita, le atmosfere infraordinarie, per ritrovare il battito nascosto dell’umano. La radice universale di questo programma aveva bisogno di una temperatura visuale diversa e Kieślowski la trova nel piano inclinato di superfici che isolano e riflettono, nell’energia di dispositivi ottici che ingrandiscono e rimpiccioliscono cose e persone. Per questo la lezione di stile del regista va recuperata, per accompagnare il cammino di un’ormai ineluttabile filosofia degli schermi.
Riferimenti bibliografici
M. Fabbri, a cura di, Passione Kieslowski, Edizioni Fahrenheit 451, Roma 2016.
K. Kieślowski, Approfondire invece che allargare, in “Micromega”, n. 2, 1997.
E. Magrelli, Otto frammenti per un Decalogo, in “Cineforum”, n. 288, ottobre 1989.
S. Rimini, L’etica dello sguardo. Introduzione al cinema di Kieslowski, Liguori, Napoli 2000.
Krzysztof Kieślowski, Varsavia 1941 – Varsavia 1996.