La contemporaneità ha stravolto e rideterminato la percezione soggettiva del tempo e, celebrando l’incalzare frenetico del quotidiano come il segno positivo di un’entusiasmante evoluzione, ha posto l’individuo in una condizione contraddittoria ed emotivamente faticosa per la quale, alla costante frustrazione generata dall’insufficienza del tempo che fugge si alterna la smania incontrollata di doverlo occupare in ogni modo. Assoggettati al delirio di un’ambizione performante e al bisogno di sentirci sempre produttivi, superficialmente barattiamo la semplicità e il piacere del niente con la solitudine alienante del fare a tutti i costi. Infatti, mentre implichiamo energie nel tentativo di essere (apparire) vincenti – in vista di un riconoscimento sociale “estraneo” da cui deriverebbero, si è detto, grandi soddisfazioni – trascuriamo la parte essenziale, in realtà l’unica insacrificabile, della nostra vita: affetti e relazioni intime.
“Tempo” è il fluire dell’esistenza in una successione ordinata di momenti, e la qualità di quei momenti è data dal “grado di presenza” con cui scegliamo di abitarlo, dalla responsabilità che assumiamo di fronte alla sua limitatezza e, quindi, alla necessità di attribuirgli un sano e giusto valore. Se non si è abili nel cogliere il potenziale corrosivo di questo automatismo, il rischio è pertanto una perdita che difficilmente potrà conoscere risarcimento e che vanifica qualsiasi successo ambito o raggiunto.
Era Ora, l’ultimo film di Alessandro Aronadio distribuito da Netflix, racconta di questo processo e ritrae il trasformarsi di un rapporto d’amore che, seppur sincero, si deteriora sotto gli effetti della noncuranza, di un dare per scontato l’altro che assume il tratto dell’abitudine, della difficoltà di stabilire quali siano le priorità in un mondo che corre, dove spazi e forme di condivisione reale e sentita risultano ormai un lusso quasi del tutto inaccessibile. Dante (Edoardo Leo) e Alice (Barbara Ronchi) sono una comune coppia di innamorati, legati dal desiderio di un futuro insieme ma chiaramente diversi per temperamento. Lui vive in apnea. Milita come impiegato in una compagnia assicurativa, bada al padre malato di Alzheimer e si destreggia maldestro tra impegni di lavoro, imprevisti e lunghe code per strada che dribbla tenendo ben premuto il piede sull’acceleratore. Lei, al contrario, vive in attesa. È un’illustratrice di talento, piena di entusiasmo anche se non ancora realizzata professionalmente, e trascorre le sue giornate in casa, nella solitudine ammaliante di una bolla incontaminata. I due incarnano modi opposti di essere presenti nel tempo che passa, hanno ritmi interiori differenti, e lo scarto confluisce pian piano nella non comprensione e nella sfiducia, nella presa di distanza e in una inevitabile, benché sofferta, rottura.
Dante è assorbito dall’ossessione di fare carriera, trascura la moglie e transita passivamente tra gli eventi sino a rendersi addirittura immune al ricordo. Non solo è negligente rispetto ai progetti e alla timida domanda d’affetto e di attenzioni della donna, ma bypassa anche l’esperienza gioiosa ed eccitante della paternità. La figlia muove i primi passi nel mondo, impara a parlare, e lui non partecipa a nessuno dei momenti fondamentali della sua crescita. Si autoesclude dalla famiglia, dai riti privati che la contraddistinguono, e non si accorge di essere vittima di una velocità assassina se non quando precipita in un vortice di non-senso; in un loop temporale che lo obbliga ad invecchiare ogni giorno di un anno e a trovarsi catapultato, di volta in volta, in una fase di vita non vissuta di cui non ha memoria, dove tutto si è trasformato o si trasforma al di là della sua volontà. I ripetuti compleanni, dunque, non sanciscono normalmente le tappe di un percorso in avanti, bensì di un processo anomalo bidirezionale che, ad un livello simbolico, trascina il personaggio all’indietro.
Benché dal punto di vista contestuale la situazione evolva – Dante ottiene una promozione in azienda, Alice è incinta e qualche scena dopo una bambina di nome Galadriel gioca in giardino, il vecchio padre ritrova l’amore, il migliore amico si ammala di leucemia – l’uomo è colto da un violento movimento regressivo al quale risponde, in prima battuta, con lo shock paralizzante e l’incredulità. Poi, tramite un’azione che spera possa aiutarlo a recuperare ciò che di più caro ha perduto, lotta contro il tempo per averne ancora, affinché sia abbastanza per fermarsi e non fare niente, per tornare a stare accanto alle persone che ama.
Il dramedy di Aronadio è un remake della commedia australiana Long Story Short di Josh Lawson (2021) e, tanto il tema quanto la struttura narrativa non costituiscono un elemento di singolare creatività. Tuttavia, come il successo di pubblico ha attestato nelle ultime settimane, il film è qualitativamente valido, soprattutto in virtù di una scrittura solida e di uno stile che persuade. L’autore non si accontenta di una semplice ricostruzione dei momenti salienti della relazione amorosa tra i suoi personaggi, né si sofferma con precisione sul suo fallimento offrendone, anzi, un quadro lacunoso e frammentato. Attraverso di loro, riesce però a dare corpo all’entità astratta di quello che sin dall’incipit si afferma come il vero protagonista della storia, ed è capace di farlo parlare consegnando, senza filtri e senza risultare mai banale, il proprio messaggio. Dall’inizio alla fine, le attenzioni dello spettatore ricadono di fatto su qualcosa di immateriale ma qui straordinariamente tangibile; su un elemento invisibile che però si impone, fa avvertire la sua incombenza, e con la stessa intensità con cui si insinua nella serenità della coppia, scuote chi assiste alla vicenda dall’esterno.
Il tempo, in Era Ora, non si vede ma c’è. È ovunque. Al pari delle persone in carne ed ossa che si muovono sullo schermo, agisce, perché la sua azione “crudele” possa manifestarsi ed esprimere da sé la forza e l’insistenza con la quale può abbattersi sulle nostre vite modificandole. Il ticchettio in crescendo delle lancette di un orologio che nei titoli di testa diventa musicale e che, più avanti, segna regolarmente il passaggio ad uno stato di cose sempre meno “familiare” e ambiguo per Dante, è speculare, ad esempio, al countdown della festa di Capodanno dove lui e Alice si incontrano per la prima volta. È come se si innescasse un timer a partire da subito, il quale segnala il pericolo di una scadenza imminente, e informa dell’urgenza di un bilancio e di una presa di coscienza personali che oltrepassano i confini della finzione. Noi, come Dante, non abbiamo scampo. Sentiamo il tempo che scivola via e non possiamo ignorarlo. Siamo costretti ad una verifica della percezione che di esso abbiamo nella realtà e possiamo soltanto intervenire laddove dovessimo renderci conto di averne perso il controllo. Come Dante, non ci resta che misurare quanto quello sia, per merito o colpa, pieno o vuoto di essenziale.
Il richiamo assiduo dell’idea del peso del tempo è così sostanza e punto forte del film. Ed è un richiamo “concreto”, totalizzante, sonoro e coerentemente supportato da una serie di efficaci scelte visive, che in parallelo sostengono lo stimolo di un’interrogazione. Il tempo non solo trascorre indifferente ai dispiaceri e ai cambiamenti che provoca (a svantaggio di chi è impegnato altrove e non si accorge che la vita accade alle sue spalle) ma altresì divide, più in sordina, se l’esperienza individuale che se ne fa può non essere condivisibile. Ogni mattina, Dante si sveglia in affanno e già in ritardo. Alice prepara pancakes per colazione e non manca mai di porgergliene uno, nella speranza che lui impari a contare fino a dieci prima di mangiare, per non scottarsi, perché «è importante». Nell’universo disumanizzante dell’uomo, la cura è un’attitudine non contemplata. Lì, il valore di qualcosa è sempre direttamente proporzionale alla possibilità della sua monetizzazione, e le lunghe tempistiche della compagna lo esasperano in quanto è convinto che il consumo vorace delle ore, l’essere “in deficit” nel presente, gli garantiranno il privilegio economico di comprare, nel futuro, il tempo di cui non dispone.
Pertanto, la disarmonia viene seminata sin dall’impostazione. E l’inferno dantesco dei salti temporali è sia preannunciato dal montaggio delle sequenze iniziali (alternato, a ritmi volutamente divergenti in base a quale dei due personaggi si sta descrivendo), sia veicolato sempre da elementi scenografici e cromatici (i contrasti e i mutamenti nella costruzione della scena e nel mood esprimono costantemente come il tempo e il peso che gli viene dato incidano sulla forma e sull’anima dei nostri piccoli e unici mondi). Se Alice si sporca le mani di colori pastello, gli stessi di cui si veste e riveste le pareti dell’appartamento, attorno a Dante tutto è grigio e impersonale, asettico e spoglio. Finché lei gli resta accanto, la casa è un luogo accogliente e avvolto da una luce onirica che ne riflette la pacatezza sognante. Quando invece lo abbandona, le mura domestiche delimitano un guscio vuoto, anonimo, privato della sua originaria vitalità. All’inaridimento del personaggio corrisponde la decadenza degli spazi in cui è solito stare, a riprova di una non-appartenenza radicale. Con Era Ora, Aronadio esibisce quindi uno studio ragionato e sensibile dell’immagine, un profilo estetico definito e l’abilità di raccontare una storia scevra di fini pretenziosi, compatta e credibile, i cui esiti positivi derivano esclusivamente dalla personalità stilistica di cui è dotata.
Il viaggio in fast-forward di Dante si esplica in un attraversamento per stadi, folle e compromettente a livello emotivo, della sua esistenza, e declina in una pre-visione spettatoriale di ciò che potrebbe essere accaduto o accadere a chiunque in circostanze reali. Nel finale, il personaggio riconquista il senso della sua vita. Lo recupera, insieme alla memoria, grazie ai disegni esposti di Alice, in una mostra dedicata ai «giorni in cui lo ha aspettato», ai ricordi della storia meravigliosa che sono stati nonostante lui e che la donna si è premurata di difendere dall’oblio. Dante si salva abbandonando l’ideologia della fretta e cogliendone il principio effimero. Si mette in pausa e si concede una giornata intera di niente in compagnia di una famiglia forse ricomponibile, custode e luogo dell’amore. L’epilogo consiste in un ultimo risveglio, ma il trauma di un ulteriore e indesiderato cambiamento svanisce. In cucina è ritornato il sole. Alice e Galadriel hanno le mani in pasta e preparano pancakes. Dante si avvicina, ne afferra uno ancora fumante e inizia a contare, lentamente, fino a dieci. «Ora» dice, un attimo prima del buio. E in quel momento, il primo nel film in cui il conto non avviene alla rovescia, anche noi sappiamo definitivamente che ora è.
Era Ora. Regia: Alessandro Aronadio; sceneggiatura: Alessandro Aronadio, Renato Sannio; fotografia: Roberto Forza; montaggio: Roberto di Tanna; musiche: Santi Pulvirenti; interpreti: Edoardo Leo, Barbara Ronchi, Francesca Cavallin, Andrea Purgatori, Mario Sgueglia, Massimo Wertmüller, Raz Degan; produzione: BIM Produzione, Palomar e Vision Distribution; distribuzione: Netflix; origine: Italia; durata: 109’; anno: 2023.