Se “infine” è arrivato il cinema (e con tanto di punto esclamativo), qualcuno troverà legittimo chiedersi: cos’era “in principio”? Secondo i curatori della mostra appena conclusasi al Musée d’Orsay «Enfin, le cinéma! Arts, images et spectacles en France, 1833-1907» in principio erano Pigmalione e Galatea. Ebbene sì, ad accogliere i visitatori all’entrata della mostra, troviamo i due amanti cantati da Ovidio nelle Metamorfosi. Il tempo di abituarsi al cambio di luminosità nel passaggio dalla sala grande del museo – bagnata dalla luce soffusa della vetrata a volta – alla piccola sala oscura in cui ha inizio il percorso della mostra, ed ecco che li si vede emergere nel marmo bianco scolpito da Auguste Rodin (1889). A qualche metro, eccoli ancora – in pose meno gravi – nel film che Georges Méliès gli dedica qualche anno più tardi (Pygmalion et Galathée, 1898). Tra l’immagine in marmo e l’immagine proiettata, l’idea di un mito che incarna il desiderio ancestrale di animare l’inanimato. Un mito, un desiderio, che nel diciannovesimo secolo diviene tecnicamente possibile. La mostra percorre ottant’anni di invenzioni, esperimenti, macchine e fantasticherie di chi ha cercato di realizzare – con altri mezzi, senza poter beneficiare dell’intercessione diretta di Afrodite – ciò che Pigmalione chiese alla dea.
Come affermato dal commissario generale della mostra Dominique Païni (già direttore della Cinémathèque française dal 1991 al 2000), «piuttosto che riprendere la storia ben nota dell’invenzione del cinema, l’esposizione si concentra su ciò che il cinema ha inventato: lo spettatore moderno». L’uomo nuovo della modernità ha visto il mondo trasformarsi in tempi rapidissimi: le campagne attraversate dalle ferrovie, i grattacieli e i dirigibili alla conquista del cielo, la fotografia capace di fermare il tempo. Sempre nella prima sala, un dagherrotipo non firmato (1840-1850) ci svela tre donne al capezzale di una giovane defunta. Lei, sdraiata nel letto, ha gli occhi aperti ed è in posa come fosse viva: l’ultima occasione per i suoi cari di custodire l’immagine reale del suo volto. In un mondo che comincia a correre, la tecnica è promessa di velocità – il treno, i grandi magazzini, la fabbrica – ma anche promessa di memoria, di eternizzazione di gesti, volti, paesaggi. Uno dei giornalisti presenti alla prima proiezione del cinematografo dei Lumière del 28 dicembre 1895 scriverà due giorni dopo sul giornale La Poste: «Quando questi strumenti saranno accessibili al pubblico, quando tutti potranno fotografare i propri cari non più nella loro immobilità ma nei loro movimenti, nelle loro azioni, nei loro gesti familiari, con la parola sulle labbra, allora la morte cesserà di essere assoluta».
Proseguendo di sala in sala, pittura, illustrazione e fotografia rivelano l’intimità del loro rapporto nel secolo dei Monet, dei Vallotton e dei Daguerre. Luci e colori affollano il campo visivo dello spettatore moderno di fronte a Place de Clichy le soir (Louis Anquetin, 1887), alla Scène de rue à Paris (Felix Vallotton, 1897) alle immagini dei funerali di Victor Hugo del 1° giugno 1885. Queste ultime, dai colori sgargianti, sono proiettate in successione: una serie di trentanove placche – fotografiche o dipinte su vetro – che ripercorre i giorni della morte e dell’omaggio nazionale all’autore di Notre-Dame de Paris. Fotografo e inventore, Eugène Louis Danguy proietta i suoi clichés nei teatri e nei caffè in giro per la Francia grazie al suo Diaphanorama: una speciale lanterna di proiezione dotata di tre obiettivi e di un ingegnoso meccanismo di leve, fili e manovelle che permette a Danguy di sorprendere i suoi spettatori con effetti speciali e trasformazioni impreviste dell’immagine proiettata. Tuttavia, per i funerali di Hugo, Danguy non fa ricorso a trucchi e animazioni: le immagini si susseguono l’una dopo l’altra dando luogo a un vero e proprio reportage documentario. Consapevole del suo ruolo di testimone oculare di un grande fatto di cronaca (due milioni di persone partecipano alla cerimonia funebre), per mezzo di una didascalia scritta sulla prima piastra, l’autore annuncia allo spettatore che «questo lavoro è importante solo per la sua attualità e verità».
Nell’opera multiforme di Danguy già troviamo quella doppia vocazione che ispirerà dieci anni più tardi i film dei Lumière, di Méliès e dei primi cineasti: magia e verità, artificio e realtà. Lungi dall’opporsi, queste due strade si intersecano senza sosta in una storia comune che inizia nel XVII secolo con l’invenzione della lanterna magica e giunge fino a noi. Il percorso espositivo incoraggia il visitatore a lasciare schematismo e preconcetti riguardo le origini del cinema e ad assumere uno sguardo nuovo sui “secoli del precinema” e sul cinema stesso. Così, scienza e magia si incontrano all’interno delle stesse vetrine, lungo gli stessi corridoi. Come in una camera delle meraviglie, scopriamo microrganismi fotografati al microscopio, clichés e film erotici realizzati secondo la tecnica del “buco di serratura” (l’inquadratura è ritagliata all’interno di una sagoma a forma di toppa, di visore di cannocchiale, ecc.), danze serpentine (tra i volteggi di farfalla di Loïe Fuller) e oggetti di “magia”.
Una ricca collezione di dispositivi ottici arricchisce la collezione degli strumenti magici: dischi di fenachistoscopio (che creano un’illusione di movimento circolare), l’elegante megaletoscopio in legno del fotografo Carlo Ponti (che permette di ammirare paesaggi che passano dal giorno alla notte grazie a un sistema di retroilluminazione), un diorama firmato Louis Daguerre e Charles-Marie Bouton davanti al quale sosta un nutrito capannello di visitatori in contemplazione, più d’uno a bocca aperta. Davanti a noi un olio su tela (92 x 152 cm) raffigurante un chiostro all’interno del cimitero di Pisa (Le Campo Santo de Pise, 1834-1839). Dipinto su tela traslucida da entrambi i lati, il paesaggio nasconde e rivela alcuni dei suoi dettagli a seconda della direzione della luce. Nell’arco di qualche secondo, il pubblico assiste al passaggio dalla luce del sole al crepuscolo e infine alla notte. Lo stupore raggiunge il suo apice nel momento in cui l’occhio cade su un dettaglio che era invisibile nel paesaggio diurno e che appare dirompente in quello notturno: un forellino nella tela lascia passare la luce dal retro, esattamente nel punto in cui è dipinta la torcia di un frate, producendo così l’effetto del fuoco che, verosimilmente, illumina di rosso l’ambiente circostante.
Verso la fine del percorso, non poteva mancare un omaggio al circo, al mimo e al cabaret, con i quali il cinema ha condiviso pubblico e ambienti nei suoi primi anni d’esistenza, fino alla nascita delle prime sale cinematografiche intorno agli anni dieci e alla sua accettazione tra le arti “maggiori”. Henri de Toulouse-Lautrec, che fece di quel mondo popolare e festivo il protagonista di tanti suoi quadri e litografie, nel 1894 dipinge su vetro una donna di spalle che assiste a uno spettacolo circense. L’opera, Au Nouveau Cirque, Papa Chrysanthème, veste le arti ambulanti di quell’abito nobile e colorato che tradizionalmente orna castelli e cattedrali. Una didascalia sotto la vetrata ci suggerisce di associare la pittura su vetro alla tecnica di colorazione a mano del cinema dei primi tempi. In entrambi i casi è la luce che accende il colore attraversando la superficie: il vetro per Toulouse-Lautrec, la pellicola per i primi cineasti.
Associazioni di quadri e scene di film a loro ispirati ci accompagnano verso l’uscita: Les Dernières Cartouches d’Alphonse de Neuville (1873) con i soldati francesi barricati in una casa sotto i colpi dei Prussiani durante la guerra del 1870 e la vue Lumière n. 745 (1897) che rimette in scena fedelmente quella tragica scena d’eroismo; gli scaricatori di porto dipinti da Monet (Les déchargeurs de charbon, 1875) e la vue Lumière n. 34 realizzata da Alexandre Promio Déchargement d’un navire (1896); Le repos pendant la fuite en Égypte (1880)di Luc Olivier Merson con la Sacra Famiglia a riposo durante la fuga in Egitto e la sequenza corrispondente del film La Nativité (1910) di Louis Feuillade.
Prima di prendere la porta d’uscita, eccoci osservati da una folla di spettatori seduti in sala. È una scena del film Gaumont Léonce cinématographiste (1913) di Léonce Perret. Ridono di gusto davanti a un film, alcuni si abbracciano e si tengono la mano. Un uomo e una donna approfittano del buio per sfiorarsi, fino a che lei non si rende conto che l’uomo seduto dietro non è Léonce e a quel punto scoppia lo scandalo. Ecco, quindi, che il titolo della mostra «Enfin, le cinéma !» assume un nuovo significato, liberatorio: “Il cinema, infine!” che tanto ci manca nella sua dimensione collettiva e festiva, con la promiscuità e la complicità tra sconosciuti che da sempre accompagna lo spettacolo e i suoi riti.
Enfin, le cinéma! Arts, images et spectacles en France (1833-1907), Musée d’Orsay, 28 settembre 2021 – 16 gennaio 2022.