Un cannone si staglia minaccioso, domina il centro dell’inquadratura, è ancora inoperoso benché il paesaggio sonoro lasci ormai presagire la buriana incombente. Le truppe degli zapatisti messicani, esercito di sognatori, continuano a espugnare ogni città sul loro cammino. La cadenza marziale che scandisce la sequenza d’apertura porta in sé una falda spazio-temporale, incavo in cui sprofonda e riaffiora il concatenamento d’immagini che si dipanano in un presente che è già aggettato verso un futuro inaspettato. La musica accompagna dunque il lento ma inesorabile schiudersi dell’evento, materiale allo stato grezzo che non può (ancora) essere sussunto dal paradigma narrativo.
Il tempo della guerra è il tempo dell’amore; l’amore è una guerra campale, un braccio di ferro in cui la mossa più importante consiste nell’abbrancare la mano l’uno dell’altra, atto dal quale si evince già la parte predominante. Per questa ragione in Enamorada sono frequenti e ricorsivi i gesti che implicano una stretta, una spinta da cui trapela l’urgenza di colmare una distanza – in termini di altezza e di intensità – tra amante e oggetto amato.
Il film, uno dei capisaldi della storia del cinema messicano, è stato realizzato nel 1946 da Emilio Fernández e fotografato dal sodale Gabriel Figueroa e, grazie al sostegno del suo fervido estimatore Martin Scorsese, è stato di recente restaurato dalla Cineteca di Bologna. Per quanto pienamente riconducibile a un modello narrativo-formale hollywoodiano, l’opera brilla ancora oggi per la sua originalità spiazzante. Il generale José Juan Reyes (Pedro Armendáriz) rispecchia quasi pedissequamente l’archetipo vogleriano dell’eroe nel suo essere integerrimo, spinto da una fiducia inossidabile nell’ideale dell’uguaglianza tra gli uomini raggiungibile soltanto attraverso il sacrificio, che egli accetta con fierezza, così da poter realizzare la rivoluzione.
Eppure il film, nel suo inizio galoppante e senza preamboli, non offre una protezione coriacea al suo protagonista, giacché al cuore della vicenda – più slegata da una progressione rigida di quanto possa sembrare a un’analisi incentrata sullo sviluppo narrativo – si colloca nel dissidio, nello scarto mai colmabile tra affermazione di un valore universale (impiantato in un corpo transeunte e irriducibilmente unico) ed esigenze filmiche d’istituzione di un concatenamento di azioni. Si ritorna insomma alla vexata quaestio: come fare di un nucleo astratto – vuoto ma di fatto responsabile di ciò che accade sullo schermo – il soggetto concreto dell’arte del visibile per eccellenza?
La progressione drammatica prosegue per balzi quasi grossolani poiché la forma si fa sempre più sovraccarica – persino barocca nel caso della lunga sequenza in cui il canto del coro accompagna l’ingresso nella chiesa di Cholula – mettendo in crisi la presunta trasparenza del medium cinematografico. Non a caso, quando, rincontrando Padre Rafael (Fernando Fernández) – un tempo suo compagno di seminario – Reyes rimarca, con tono pressoché deleuziano, il bisogno di credere a questo mondo, al corpo, alla carne e al sangue come unica via per combattere la miseria, gli si rimprovera di non sapere cosa significhi essere innamorato. Ancora una volta il principio generale e a-situato, frutto d’idee espresse per mezzo delle proprie parole, urta contro quella barriera di carne che è il corpo: ed è in quell’istante che la bisbetica indomita (e sposa promessa) Beatriz (María Félix) – apparsa fino ad allora come una creatura strenuamente attiva (e di pistola munita) in perenne lotta contro gli uomini – viene mostrata per la prima volta anche nella dimensione di soggetto “patente”. Un semplice sguardo che suscita il folle amore di Reyes per Beatriz, spingendolo a dichiarare seccamente “Questa è la donna che voglio sposare” tradisce la natura marionettisco-teorica dei personaggi di Fernández (non tanto distante da quella del Jean-Louis rohmeriano che, ne La mia notte con Maud, può identificare con precisione cronometrica il momento, brusco ma definitivo, in cui stabilisce che Françoise sarebbe diventata sua moglie).
E questa frase epigrammatica è estatica perché, eccedendosi, lascia emergere un brusio via via sempre più incalzante che trascolora in un rumore d’argani di un teatro rimesso in funzione. A un eccesso del sentimento corrisponde così un eccesso della forma: la recitazione, la messinscena e la realtà circostante espunta in maniera sempre più radicale dall’inquadratura portano il marchio della teatralizzazione propria delle forme ingigantite del melodramma. Lo schermo si accende, all’insegna di una coreografia pirotecnica dei sentimenti e, a differenza del fragore bellico, le esplosioni dinamitarde non sono più relegate a un fuori campo sonoro e/o a un retropiano sfocato dell’immagine, bensì riempiono il quadro. Difatti, in una delle sequenze più mirabili del film, Beatriz nel tentativo di seminare il generale si rintana in una bottega dei fuochi e, con la complicità del negoziante, gli scaglia contro un petardo che, tuttavia, innesca un’esplosione a catena che mette ogni cosa a soqquadro.
A questo punto, le deflagrazioni e gli scoppi d’ira si arricchiscono di un’ulteriore sfumatura, giacché, alla dichiarazione baldanzosa del generale, segue una virata verso un registro basso-mimetico. Evidente è l’influsso della screwball comedy americana che, pur esasperando i gesti e le reazioni fino al parossismo, leviga altresì la gravità aspra da virago che contraddistingue Beatriz, la quale più volte ingaggia la lotta contro gli uomini, tanto da sperare di poterne assumere le fattezze soltanto per poter fare a pezzi il generale, responsabile della prigionia del padre, ricco possidente. Reyes si trova così a dover tralasciare temporaneamente ogni discorso elevato intorno agli ideali rivoluzionari, poiché il destino della patria, scontrandosi con l’interesse personale – ordinario, direbbe Cavell – genera un clima di terrore culminante nell’uccisione dell’abietto Don Fidel (Manuel Dondé), disposto a cedere la moglie pur di avere salva la vita.
Da qui la distanza in termini di altezza e d’intensità cui si è accennato. L’intreccio fra desiderio e linguaggio lascia emergere lo scetticismo nei confronti del sapere mentre si fa esperienza dell’«estremo limite della lingua» (Barthes 2014, p. 124): “cuore” è la parola su cui si torna con più insistenza, impiegandola per superare l’impasse emotivo ed esistenziale dei personaggi, e in particolare degli uomini, troppo spesso condannati dagli stereotipi (può davvero esistere un messicano che non sia innamorato?) che essi stessi foraggiano. Al canto gregoriano, alla serenata mariachi o a una tela raffigurante l’Adorazione dei Magi viene riconosciuta la capacità di far accettare i limiti propri dell’essere umano, gli stessi che garantiscono la flessibilità e la “debolezza” benefiche per la vita. Pertanto nella teatralizzazione e nel farsi-teatro del film si riscopre quella che Badiou chiamerebbe la forma estetica della fratellanza – che, tra l’altro, riconduce l’amore alla dimensione politica – nel momento in cui si percepisce con più forza la distanza che separa i soggetti.
Il dissidio che sconquassa Reyes e l’isolamento nel quale piomba Beatriz smettendo di idealizzare il padre e non corrispondendo all’amore del pretendente sono così espressi in immagine attraverso superfici materiali ed elementi d’arredo (desideri-ostruzioni), ostacoli sintomatici di un desiderio inappagato: si pensi, ad esempio, alle barriere del balcone che imprigionano l’innamorato Reyes o alla continua dialettica tra alto e basso che connotano rispettivamente lo sguardo di Beatriz e quello del generale. Soltanto i banchi della chiesa riportano i due sullo stesso piano, mentre il mondo e la Storia si riducono a un drappello di ombre proiettate su un muro incolore: la fratellanza e il clangore della speranza rimangono per un istante in sordina, per poi riemergere nelle ultime inquadrature cariche di tumulto epico-popolare, perché l’amore è «come una battaglia vinta contro la separazione» (Badiou 2013, p. 107).
Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Elogio dell’amore, Neri Pozza, Vicenza 2013.
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 2014.