La restanza della luce

di MARTINA TASSONE

Empire of Light di Sam Mendes.

I popcorn, il botteghino, le pellicole accatastate, il grande foyer e, in lontananza, la sala. Una progressiva accensione di luci (dal foyer fino al piccolo spazio-ufficio di Hilary) catapulta lo spettatore direttamente nella sala cinematografica. L’”Empire of Light”, il cinema di costiera in cui Hilary è vicedirettrice, è lo sfondo di diverse vicende riempitive: amorose, come la noiosa relazione col proprietario e l’eccitante relazione con la giovane maschera; sociali e politiche, come la malattia mentale di Hilary e gli scontri razziali nell’Inghilterra degli anni ottanta. I diversi filoni narrativi, non spiccano per audacia drammaturgica, sono tutte linee narrative poco determinanti che danno vita a un film, a primo acchito, abbastanza prevedibile e scontato.

Perché, dunque, è interessante ragionare su un film come Empire of Light? Forse, proprio perché ci induce a ragionare al di là della sua trama, delle sue storie, dei suoi personaggi. Empire of Light deve essere analizzato come un “campo di forze in tensione” capace ancora di attivare potenti configurazioni autoriflessive, in grado di fornirci gli strumenti teorici per ragionare in termini di persistenza e rigenerazione del cinema nella complessa iconosfera contemporanea (Masciullo 2017).

Come Sam Mendes, ultimamente diversi registi si sono interrogati specificatamente sul cinema e, probabilmente, l’urgente domanda irrevocabile è: “dove sta andando il cinema?”. Da C’era una volta a… Hollywood (Tarantino, 2019), Mank (Fincher, 2020), Belfast (Branagh, 2021), fino a Licorice Pizza (Anderson, 2021), The Fabelmans (Spielberg, 2022) e Babylon (Chazelle, 2022), si tratta di film che hanno il sapore di testamenti personali, sempre, però, intessuti da rigorosi bilanci. Il cinema, ora più che mai, ha la necessità di riflettere su sé stesso, utilizzando un linguaggio espressamente meta-cinematografico.

L’interrogazione, talvolta esplicitamente nostalgica, parte dai fausti del magico mondo della sala e, ragionando in relazione al suo svuotamento, sconfina legittimamente nel racconto di un’intima relazione fra sé stessi e il cinema. Mendes non intende affermare la fine del cinema, ma senz’altro una profonda trasformazione in atto. Secondo Casetti, «l’enorme diffusione degli schermi nella nostra vita quotidiana (…) porta con sé una presenza del cinema sempre maggiore. Gli consente nuove modalità di distribuzione, nuove tipologie di prodotti e nuovi contesti di fruizione. Gli permette di continuare a vivere, pur adattandosi a un nuovo paesaggio» (2015).

È soprattutto l’immagine della sala cinematografica a ricorrere ossessivamente nel cinema contemporaneo: che sia piena, vuota, in rovina, ricordata o immaginata, ritorna insistentemente come icona immediatamente riconoscibile. Quando Hilary raggiunge con Stephen i piani alti dell’Empire, le vecchie sale non più in uso e la ballroom in decadenza, sono simbolo di ciò che è ormai la rimanenza di un glorioso passato. L’idea tradizionale di accesso al cinema è però sempre presente: nelle sale sottostanti, uomini, donne e bambini sono in fila per acquistare degli snacks e inoltrarsi nella sala.

A partire da quest’immagine si potrebbe riflettere sull’inversione del tradizionale meccanismo d’accesso: ormai è il cinema a tendere verso di noi e non più noi a far la fila, ad essere accolti, a raggiungerlo. Infatti, «se la sala tradizionale era un luogo in cui recarsi per potersi affacciare a un mondo diverso da quello della vita quotidiana, e dunque in cui si lasciava un “qui” per spostarsi verso un “altrove”, nei nuovi ambienti di visione, invece, il cinema, raggiungendoci dove ci troviamo, porta un “altrove” nel nostro “qui”» (Ibidem).

Cosa allora resta del cinema? Come afferma il pluripremiato direttore della fotografia Vittorio Storaro, la potenza della fotografia, come del cinema, è la possibilità di comunicare attraverso l’immagine fotografica o cinematografica: sono la luce, le ombre, il calore o la freddezza di un tono ad esprimere l’ideologia del film. Bisogna, dunque, ripensare a come scrivere con la luce per raccontare l’interminabile intuizione che, partendo dai capolavori dell’arte pittorica, giunge fino ai premi Oscar 2023, attestando la permanenza del cinema, la restanza della luce.

La linea di continuità che unisce Vittorio Storaro a Roger Deakins (direttore della fotografia di Empire of Light, candidato per la migliore fotografia agli Oscar 2023) è quella della luce come linguaggio e simbolo: la luce di Deakins crea una realtà completa nel suo insieme e, puntando sulla materialità, dipinge un posto reale. Soprattutto nelle prime sequenze, è tangibile come proprio grazie alla sua luce, il foyer e la sala diventino luoghi caldi e invitanti: la luce scolpisce i loro contorni, esaltandone la materialità, al fine di indurre il desiderio dell’accesso. Dunque, sono proprio le mancanze, le differenze a rivelarsi positive: esse ci spingono a interrogarci, ma ci permettono anche di portare alla luce una configurazione che si ridesta come permanentemente cinematografica.

Riferimenti bibliografici
F. Casetti, La Galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2015

P. Masciullo, Road to Nowhere. Il cinema contemporaneo come laboratorio autoriflessivo, Bulzoni, Roma 2017.

Empire of Light. Regia: Sam Mendes; sceneggiatura: Sam Mendes; fotografia: Roger Deakins; montaggio: Lee Smith; interpreti: Olivia Colman, Micheal Ward, Colin Firth, Toby Jones, Tom Brooke; produzione: Neal Street Productions, Searchlight Pictures; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures; origine: Stati Uniti d’America, Regno Unito; durata: 119′; anno: 2022.

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