Subito dopo la sua morte, Edoardo Bruno pensa di raccogliere in un volume gli scritti sul cinema di Emilio Garroni, usciti su “Filmcritica”, nell’arco di quasi quarant’anni. Mi propone di aiutarlo in questa impresa, e la raccolta esce già nel 2006: contiene tutti gli interventi di Garroni ospitati dalla rivista, dunque la quasi totalità dei suoi articoli sul cinema (se si escludono un saggio dedicato a Panofsky uscito su “Cinema e film”, nel 1968, e un omaggio a Maurizio Grande, ospitato in un volume a cura di Roberto De Gaetano, del 1998).
Per questa e altre ragioni, il volume ha un’indubbia importanza per capire il rapporto di Garroni con il cinema, intrecciato a quello con una rivista che per decenni ha svolto un ruolo centrale nella costruzione di un discorso cinematografico di impostazione teorico-critica, in Italia e oltre. Alla fine degli anni sessanta, Garroni prende parte così ai dibattiti che fanno del cinema un oggetto di riflessione a tutti gli effetti filosofica. “Filmcritica” è infatti una delle sedi in cui, grazie ai contributi di molti, prende forma un vero e proprio pensiero sul cinema, paragonabile, per molti versi, a quello che i “Cahiers du cinéma” portavano avanti in Francia. Un dibattito dal respiro internazionale coinvolge anche riviste e intellettuali italiani. Ci si confronta, per esempio, su quello che a lungo è stato definito lo “specifico filmico” e soprattutto, sulla scorta di quanto suggerito da Metz, Martinet, Jakobson, sull’ipotesi che il cinema possa essere considerato alla stregua di una “lingua”, o al contrario di un “linguaggio”.
Se il cinema in qualche modo comunica o racconta, chiarisce o conosce, è anche necessariamente un linguaggio, un tipo specifico di “semiosi”, un comportamento culturale determinato e – per così dire – unilaterale, cioè produttore di messaggi. Non è un caso che si sia parlato ben presto di linguaggio cinematografico […]. Non è un caso che si sia parlato, forse troppo, di specifico filmico […]. Non è infine un caso che si sia rivendicato al cinema il diritto di essere considerato “arte”, almeno allo stesso titolo delle arti tradizionali – non tanto perché l’arte sarebbe non so quale sublime rivelazione o creazione dello spirito, quanto perché ciò che chiamiamo arte (qualunque sia il grado di legittimità di questa nozione) è qualcosa solo a condizione di essere il risultato di una manipolazione o di uno specifico uso tecnico di un materiale o di uno strumento linguistico in qualche modo preesistente o comunque attualizzabile anche in diverse forme funzionali (Popolarità e comunicazione nel cinema, 1967).
Nella prospettiva che questo passaggio esemplarmente sintetizza, il cinema rappresenta, con ogni evidenza, per Garroni, l’occasione preziosa per misurare il modo in cui la semiotica e l’estetica entrano in relazione. Lo dimostra il fatto che tanto il saggio appena citato, quanto quello che pubblica l’anno successivo, sempre su “Filmcritica”, Per una teoria del film sonoro, confluiscono nel volume che esce, proprio nel ’68, intitolato Semiotica ed estetica. In questo preciso momento, analogamente a quanto accade anche nel caso di altri studiosi del suo calibro, il cinema è per Garroni l’oggetto che gli consente di riflettere su questioni più ampie, ancorandole a una pratica estetica esemplare, che però non è di per sé stessa unica. Ne consegue, in maniera più o meno necessaria, che la scrittura sul cinema non vanti nessuna particolare specificità, proprio a partire dalla natura a-specifica ed eterogenea delle opere di cui si occupa, poste alla confluenza di linguaggi diversi fra loro (verbale, sonoro, iconico).
Quando, nel 1971, la redazione di “Filmcritica” pubblica un’indagine intitolata Il film e la critica, Garroni è fra gli intellettuali, a diverso titolo collaboratori della rivista (Argan, Dorfles, Pasolini, Straub), chiamati a rispondere a un gruppo di domande utili a far emergere, nelle intenzioni dei curatori del numero, l’idea di una “nuova critica”. La presa di posizione esplicita contro l’ipotesi che esista una critica “pura” o “autentica” – che arriva persino a formularsi nell’invito, altrettanto chiaro, a “evitare questa ambigua parola” – si fonda sulla stessa convinzione che il cinema, forse ancora di più di altre arti, proprio in virtù della sua composizione complessa, debba sollecitare discorsi mai riconducibili a posizioni teoriche univoche, poiché, semplicemente non esiste, parlando di un film, “una” sola verità da lasciare emergere.
Non vorrei essere frainteso. Non sto facendo una professione di scetticismo critico; né sto tentando di dimostrare che qualunque cosa si dica, e comunque la si dica, sul cinema, va bene. Anzi, esattamente il contrario, se è vero – come credo – che la mia preoccupazione è di non isolare ogni particolare operazione critica e di non commisurarla così ad un unico metro omogeneo, ma piuttosto di coglierla nella sua specificità e correlabilità con tutti i dati pertinenti relativi all’oggetto esaminato nonché con le altre operazioni critiche diversamente orientate. Il mio – e non si tratta certo di una novità – è un invito allo specialismo e, insieme alla interdisciplinarità (Il film e la critica, 1971).
Benché sempre più dilatati nel tempo, gli interventi dedicati al cinema puntellano la produzione teorica di Garroni, anche lungo i decenni successivi, quelli in cui si definisce, con sempre più forza, il progetto di un radicale ripensamento dell’estetica, concepita non più (come nella migliore tradizione idealistica) in quanto filosofia dell’arte, ma piuttosto come “filosofia non speciale”, ossia come disciplina in grado di interrogare le condizioni di senso che rendono possibile ciò che comunemente definiamo esperienza (Senso e paradosso: l’estetica, filosofia non speciale, 1986; Estetica: uno sguardo attraverso, 1992). In questa nuova prospettiva, l’arte – dato il suo carattere di pura contingenza e gratuità – , sulla scorta del Kant della Terza Critica, smette di essere l’oggetto necessario di ogni indagine estetica, e diventa un esempio, il più efficace forse, del modo in cui un’esperienza si rende possibile ai nostri sensi. Di questa stessa esemplarità sono capaci di farsi portatori, in quanto opere d’arte, anche i film, attraverso cui è possibile trovare la via d’accesso a qualcosa come le condizioni dell’agire umano.
Negli ultimi contributi, in ordine di tempo, pubblicati su “Filmcritica”, mi pare si faccia strada questo modo peculiare di interrogare il cinema, che ha lo scopo di trovare nei film una risposta circa le condizioni a partire dalle quali l’esperienza (o ciò che definiamo tale) di volta in volta si costruisce, presentandosi attraversabile o, il che è lo stesso, com-prensibile, per il tramite dei sensi di cui siamo a disposizione. Eyes Wide Shut (Kubrick, 1999) è, agli occhi di Garroni, un esempio particolarmente convincente di ciò che stiamo dicendo:
[…] Se è così, Eyes Wide Shut non è la semplice rappresentazione di una società data, con i suoi vizi e le sue virtù, le sue debolezze e le sue forze, ma è semmai la rappresentazione, attraverso l’esempio di una società data e di una data “middle class”, dell’uomo in genere, cioè del suo essere profondo, a cui nessuno può sfuggire. […] del suo bisogno costante di sicurezza, delle sue ricorrenti dell’estraneo, del suo attaccamento a regole interiorizzare e del rischio di turbamenti che sempre le rimettono in discussione e tuttavia sono sempre riportati di nuovo, con qualche modificazione, a quelle parole, o in altre parole: esempio della coscienza o semicoscienza o mezza-coscienza della propria contingenza e della necessità che in ogni caso “deve” in qualche modo trasparirvi. (Qualche osservazione sull’ultimo film di Stanley Kubrick, 1999)
Qualche anno più tardi, Garroni torna a intervenire su “Filmcritica”, per scrivere a proposito di quello che sarebbe stato l’ultimo film di Ingmar Bergman, Sarabanda (2003).
L’ultimo film di Ingmar Bergman, Sarabanda, ha un titolo che suona, letteralmente, come indici della sua intera poetica. Vale a dire: indica, come vedremo, che tutti i suoi film non sono mai chiaribili fino in fondo dal punto di vista delle motivazioni narrative e psicologiche, ma mantengono sempre, intenzionalmente, un alone di indeterminatezza e di indicibilità che fa parte del loro significato complessivo. Appunto: indicibile è la musica stessa, che tuttavia alluda al dire, specialmente nel caso in cui sia composta nella forma di un recitativo in senso largo, quale sembra essere la Sarabanda bachiana usata in Sarabanda.
Il film di Bergman interessa a Garroni, si può dire, per le ragioni che abbiamo già messo in evidenza parlando di Eyes Wide Shut. Le vicende che coinvolgono anche questa famiglia “middle class” hanno più di qualcosa a che vedere con la condizione umana, in generale, e più in particolare, con il suo essere sempre divisa fra il costante bisogno di “dire” (o, il che è lo stesso, di concettualizzare) e l’inaggirabile “indeterminazione” dell’esperire, costitutivamente aperto alla potenza del contingente: indecidibile, non prevedibile, e dunque in un certo senso letteralmente “indicibile”. È a questo crocevia che si pone il cinema di Bergman, ma forse, diremmo, tutto il cinema che, essendo in grado di regalarci qualcosa da pensare, quello stesso incrocio alimenta e tiene in vita. È là, in quel punto preciso, che hanno origine le riflessioni di Garroni sul cinema, ed è lì che da lettori dobbiamo porci per apprezzarne l’assoluta originalità.
Riferimenti bibliografici
E. Garroni, Semiotica ed estetica, Laterza, Bari 1968.
Id., Senso e paradosso: l’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Bari 1986
Id., Estetica: uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992.
Id., Scritti sul cinema, a cura di E. Bruno, Arangno, Torino 2006.