Uno, due, tre, quattro, cinque. Cinque secondi. Un attimo troppo breve per significare ed essere ricordato oppure il tempo, ovattato e quindi lunghissimo, in cui un uomo osserva immobile le acque mute di un lago, una canoa ribaltata in superficie. Il corpo disabile della figlia è caduto verso il fondo e sta annegando. Lo immagina, potrebbe mettersi a correre, forse salvarla, però non muove un passo. È terrorizzato. Uno, due, tre, quattro, cinque. Cinque secondi. Il peso della distrazione e della colpa, la morte del padre, l’inizio di una vita che precipita.
Quando vediamo per la prima volta sullo schermo Adriano Sereni (Valerio Mastandrea) – protagonista del nuovo film di Paolo Virzì, Cinque secondi – non conosciamo ancora il suo trauma ma il silenzio, la distanza, il buio della stalla ristrutturata dell’antica villa toscana dove torna a rintanarsi subito dopo un passaggio veloce e forzato in paese, rendono già tangibile l’inquietudine sottile che lo attraversa, la rinuncia come scelta: l’abbandono che fa da imperativo nel perimetro del campo minato al quale, per lui, si è inderogabilmente ridotto il mondo. Cosa gli è successo? Perché si nasconde? Qual è stato il suo giorno peggiore? Com’era vivere prima?
Il ritorno al cinema di Virzì è misterioso, ma segnala una continuità evidente rispetto ad alcune sue opere precedenti, ribadendo l’affezione del regista a temi e “tipi umani” sviscerati altrove, da La prima cosa bella (2010) a La pazza gioia (2016). Il dolore della perdita e l’imperdonabilità, le storture dell’amore e la fragilità dell’Io, il distacco malinconico e il desiderio soffocato di una redenzione, sono infatti elementi di congiunzione tra un film e l’altro. E l’alienazione caratteristica dei personaggi più riusciti, immediatamente riconoscibile anche nell’ultimo, in un certo senso maggiore, si conferma essere il fondamento di una visione e di un modo narrativo ben preciso che riguardano e colgono al meglio il tratto essenziale, vero e insopprimibile dell’umanità.
Cinque secondi è un racconto che parte in medias res, siamo in mezzo alla cosa sin dall’incipit. Così, vestendo un po’ l’imbarazzo degli invasori, ci muoviamo spaesati in una dimensione intima e, tra sguardi vacui e brontolii, finestre chiuse e messaggi senza risposta inviati con ostinazione a qualcuno che non c’è, rimettiamo pian piano insieme i pezzi di una storia personale in frantumi, saggiando una solitudine che rivela il sapore dell’assenza. Il personaggio si definisce nel segno di un disagio profondo e ostacolante, di uno strappo deciso e volontario in riferimento al proprio vissuto. La possibilità, nelle vecchie scuderie adibite a cella di villa Guelfi, è ostruita dalla volontà del limite.
Dapprima avvocato ricco e stimato, ad Adriano il lavoro non interessa più. Non ha contatti ravvicinati con nessuno, le visite dell’amica e collega Giuliana (Valeria Bruni Tedeschi) lo infastidiscono, obbliga il postino a non varcare mai la soglia del cancello, ignora le convocazioni giudiziarie in tribunale e, quando la caldaia va in blocco, consente al tecnico un intervento soltanto telefonico, quello spiega e lui esegue.
Adriano “puzzicchia”, mangia cibo in scatola e non ha la benché minima cura di sé. Si ritrae dalla vita e dal conflitto interiore tanto da estremizzare il concetto stesso di crisi: l’annaspare che, in chi lo ha preceduto riusciva a tradursi in un vagare comunque nel mondo, con lui si trasforma nella stasi più o meno radicale, nella paralisi fisica, emotiva e relazionale quasi assoluta. Pertanto, l’arrivo improvviso di un gruppo di giovani ecologisti determinati a occupare la villa sotto la guida di un’erede biondina, gravida e sfrontata, provoca una frattura situazionale importante, e l’equilibrio precario di Adriano non regge. L’uomo prova a scacciare via i ragazzi e, nonostante la disponibilità al dialogo e all’inclusione che questi manifestano nei suoi confronti, non fa che divincolarsi come un topo impaurito, evitando incontri e conversazioni.
La narrazione, a quel punto, comincia a prendere una piega diversa, il tono cupo si smorza e fluisce dolcemente nel registro commedico incarnato proprio da Matilde (Galatea Bellugi), la piccola proprietaria della villa. La sua energia esplosiva, il miracolo racchiuso in grembo, l’idea di restituire al territorio brullo della vigna di famiglia una seconda vita, si impongono sulla scena, la ri-colorano (l’immagine effettivamente si spalanca e si accende di sole, abiti vivaci e verde speranza), e lasciano intravedere il bagliore di un’altra occasione anche per Adriano che con lei tesse, quasi impercettibilmente, senza volerlo (o forse sì) un legame. I due si battibeccano di continuo, alla scortesia dell’avvocato la guelfina risponde con battute pungenti e scatti rabbiosi.
Tuttavia, la potenza rigenerativa del rapporto risiede nella schiettezza con cui Matilde lo interroga, nelle domande scomode che gli pone («perché sei così triste?»), giudicanti quanto basta per stimolarlo a reagire, dolorose eppure indispensabili perché, in maniera inaspettata, lo costringono a guardarsi dentro, a riconsiderare la parte ferita: quella dinamica “castrata”, padre-figlia, in cui Adriano ha fallito; in cui, non dimostrandosi all’altezza della responsabilità genitoriale, si è reso colpevole di aver minimizzato la disabilità della ragazzina lasciandola morire.
Adriano non risponde alle interrogazioni di Matilde, mantiene il segreto. Al contempo, pur senza accorgersene, però si apre a lei, le fa spazio e fa spazio a una tenerezza ormai sepolta, rimproverandola quando si mostra troppo incosciente, standole addosso affinché si convinca ad andare da un ginecologo, seminando nell’affetto e nelle attenzioni paterne che le riserva tracce di una vulnerabilità che lo porta, lentamente e faticosamente, a risolversi. Che lo conduce alla riparazione, e anzi ne è la chiave.
Riparazione è un concetto centrale nell’universo cinematografico virziniano, e la scrittura solida di Francesco Bruni cui sono affidate le sceneggiature non manca mai della capacità di rappresentare il valore, la “sacralità” della caduta. La dignità indiscutibile dell’essere umano che, prima o poi, e non un’unica e sola volta, si concede il diritto del crollo, trovandosi a fare i conti con il difetto, con la difficoltà e il bisogno di ricostruire. Ciò che ci appassiona del cinema di Virzì è la semplicità, la verità, la macchia dei suoi personaggi. Il fatto che siano sempre un po’ sporchi, fallibili come lo siamo noi, a causa dell’imprevedibile che è la vita. Piccoli e imperfetti.
Adriano è chiamato a doversi difendere davanti a un giudice perché accusato di omicidio colposo dall’ex-moglie. È un’anima in pezzi, un depresso che, conseguentemente alla tragedia, ha perso la stima e la fiducia anche del figlio (a lui indirizza gli sms del buongiorno e della buonanotte ogni giorno). In una rete sociale incline a premiare i numeri 10, Adriano ha cannato tutti i rigori e ormai siede in panchina, fuori dai giochi. Non c’è nulla di “eroico” in questo ma qualcosa di “grande”, nei suoi silenzi e in quell’aria in apparenza arrendevole, emerge progressivamente dal basso. Affiora, si espande e cambia la prospettiva. Lungi dall’essere e dal diventare un eroe, Adriano è una persona credibile, mossa da sentimenti contraddittori e reali. Un uomo piccolo e imperfetto che rimane tale, com’è giusto che sia, fino alla fine.
In Cinque secondi non accade niente di eccezionale, non è un film adrenalinico, ma la cruda messinscena dell’ordinario più puro. Banalmente, l’intreccio si condensa tutto in un incontro e nell’elaborazione (quasi del tutto latente) di un evento traumatico mai elaborato che quell’incontro innesca. Adriano instaura con Matilde una relazione familiare. Con naturalezza, riacquisisce il senso smarrito della responsabilità, della cura e, in particolare, si riappropria nel presente dell’idea originaria del bene, che non ha forma predefinita né logica, se non quella di aderire a sé stesso in un dato momento. Laddove il processo riparativo che coinvolge il protagonista non può agire sul passato e aver a che fare con la cancellazione di quanto è accaduto, riparare vuol dire lavorare sul tempo che rimane, parlarsi, affermare davanti a tutti che sì, si è compiuto uno sbaglio, perché i padri sbagliano come chiunque altro, e voler bene a qualcuno non rende esenti dal pericolo di fargli talvolta del male.
In aula, in tribunale, alla presenza dell’ex-moglie, del figlio e di un vasto uditorio, Adriano torna con la mente e la parola al suo giorno peggiore. Racconta i maledetti cinque secondi di distrazione e inazione uscendo definitivamente allo scoperto, dichiarando cioè di essere pronto e disposto a pagare, ma anche ammettendo la natura innocente dell’errore. La figlia è morta in un pomeriggio leggero, trascorso a fare cose normali, perché il desiderio del padre ha oltrepassato il confine della patologia e ha provato a rendere accessibile, per lei, la strada del sogno. Uno, due, tre, quattro, cinque. Cinque secondi sono tutto e niente. In cinque secondi è possibile guardare morire qualcuno che si ama, o arrivare in soccorso di una sconosciuta che ricorda il motivo per cui si è amato quel qualcuno e si dà alla luce la sua bambina.
Ecco, allora, cosa ci fanno i film di Virzì. Rivendicando il coraggio non scontato dell’accettazione, appagano la necessità che abbiamo, oggi più che mai, di sentirci umani. Nel movimento tragi-comico, dolce-amaro, della narrazione, nella postura incerta dei personaggi, si rintraccia di fatto un costante elogio della riparazione: non nel nome di un voler essere a tutti i costi puliti e perfetti, ma al fine di trovare pace nell’opportunità sempre data di un riscatto; di rimettere in sesto quel che si è rotto, di rialzarsi imparando a cadere senza sensi di colpa perché, in fondo, nessuno sa com’è vivere finché non lo fa.
Nell’ultima scena, dopo aver portato in ospedale Matilde accertandosi che sia al sicuro, Adriano va via. Sono le prime luci dell’alba e, rientrato in macchina, legge sul display dello smartphone «Buongiorno papà». Cinque secondi si conclude così. Con un uomo al volante sullo sfondo di un cielo mozzafiato, lungo una strada deserta di campagna, con la rinascita del padre, l’inizio di una vita che ricomincia.
Cinque secondi. Regia: Paolo Virzì; sceneggiatura: Francesco Bruni, Carlo Virzì, Paolo Virzì; fotografia: Luca Bigazzi; montaggio: Jacopo Quadri; musiche: Carlo Virzì; interpreti: Valerio Mastandrea, Galatéa Bellugi, Valeria Bruni Tedeschi, Ilaria Spada, Francesco Maria Dominedò, Anna Ferraioli Ravel, Anna Lazzeri; produzione: GreenBoo Production, Indiana Production, Motorino Amaranto, Vision Distribution; origine: Italia; durata: 105’; anno: 2025.