Quale grande pittore non si è detto morendo che non era riuscito
a fare una sola immagine, nemmeno piccola piccola, semplice semplice?
È dunque piuttosto la fine, la fine di qualunque possibilità,
a dirci che abbiamo appena fatto l’immagine.

Gilles Deleuze

E come, nel gesto del danzatore, il danzabile non diventa mai danzato,
così, nel gesto del vivente, il vivibile non diventa mai vissuto,
ma resta vivibile nell’atto stesso di vivere.

Giorgio Agamben

Una domanda beckettiana aleggia intorno agli ultimi lavori di Jean-Luc Godard: Com’è possibile fare un’immagine? Il percorso visuale e sonoro intorno a cinque film realizzati da Godard tra il 1999 e il 2018 (Éloge de l’amour; Notre musique; Film Socialisme; Adieu au langage – Addio al linguaggio; Le livre d’image), intitolato Éloge de l’image, curato da Fabrice Aragno e Jean-Paul Battaggia, collaboratori di Godard, alla Ménagerie de Verre di Parigi, che si propone di donare libertà a quei film, in un luogo destinato principalmente alla danza, sembra suggerire che per fare un’immagine, nell’ottica di Godard, sia oggi necessaria una riflessione sullo spazio.

Al termine delle strette scale da percorrere per accedere al percorso, il visitatore viene accolto da cinque piccoli schermi, della grandezza di uno smartphone, che riproducono i film. Qualcosa già ci dice che l’immagine non avrà nel percorso un supporto privilegiato, ma apparirà ovunque la si possa accogliere; ovunque il nostro corpo possa arrivare persino a toccarla. In effetti, nel primo piano della Ménagerie, mentre le immagini di Éloge de l’amour, Notre musique, Film Socialisme sono scomposte e frammentate, appaiono e scompaiono, riflettendosi – come accade, in particolare, nella grande sala Balanchine che ospita la catastrofe di immagini e parole che è Film Socialisme –  negli specchi delle sale, rendendo una porta, un telo semitrasparente che in una delle sale è posizionato al centro, dei supporti su cui proiettare; i suoni dei film, le parole e le musiche, manipolati, creano un frastuono o fanno piombare in un silenzio improvviso quel luogo che diviene spettrale.

Tra quelle apparizioni e sparizioni, il visitatore è costretto a spostarsi da un punto a un altro della sala, e da una sala a un’altra, per tentare di afferrare le immagini e le parole, per tentare di rimontarli tra loro. I frammenti, allora, non appartengono più a questo o a quel film, ma inventano un movimento corale – coreografico – che danza con il danzare del visitatore, che si trova a muoversi liberamente, involontariamente tra le immagini e i suoni. A vivere le immagini, i suoni e le parole che sono essi stessi viventi, o, meglio, che assumono vita nell’atto stesso in cui il visitatore vive, si muove, danza perché danzato dalle immagini: il visitatore diventa immagine tra le immagini, colore tra i colori e suono tra i suoni.

Per affrontare la questione beckettiana di come fare un’immagine, di come montare spazialmente immagini e parole, accolta da Godard negli ultimi decenni, sarebbe forse utile immaginare un percorso che possa connettere gli ultimi scritti beckettiani, dove è centrale la questione della creazione dell’immagine, con gli ultimi lavori godardiani, in cui è fondamentale il rimando all’opera di Beckett.

Nel lungometraggio À vendredi, Robinson (Farahani, 2022), corrispondenza incorrisposta tra Godard e Ebrahim Golestan, la questione del rapporto tra immagine e parola si interseca con una riflessione sulla morte. Morte volontaria, morte prematura; morte già annunciata fin dalla nascita, ma che tarda a venire: È la storia del cinema. Non a caso, durante una riflessione registrata che invia in un venerdì come un altro al suo Robinson – Golestan –, Godard cita alcuni passi del suo JLG/JLG – Autoportait de décembre (1994): «Di solito inizia così: La morte arriva e poi si porta il lutto. Non so esattamente perché, ma io ho fatto il contrario: Prima ho portato il lutto, ma la morte non è arrivata, né per le strade di Parigi, né sulle rive del lago di Ginevra» (Cfr. Godard 2022, p. 12).

In quella sequenza dell’importante lungometraggio di Farahani, Godard non guarda in camera: è di profilo, mentre racconta a Golestan che Bazin credeva che Niepce e Lumière – in una parola, il cinema – avessero salvato l’immagine dal peccato della pittura occidentale, la prospettiva; che avessero redento l’immagine. Ma quella è la langue, secondo Godard: voce che parla. Non si è ancora arrivati al langage, che per il regista è un insieme di immagine e parola; la langue (le lettere, l’alfabeto) non si è suicidata, piuttosto continua a dominare l’esistente, vale a dire l’immagine.

La morte del cinema, per una resurrezione dell’immagine, tarda ad arrivare, nonostante Godard ne abbia portato da sempre il lutto. Ecco allora perché la morte volontaria: «La morte sapientemente disperata, volontaria», ossia il suicidio della lingua, per arrivare al punto in cui si arriva nel romanzo Come è (1961) di Beckett: «La lingua si ritira la bocca si richiude deve fare una linea retta ora è finita è fatta ho fatto l’immagine», citazione che Godard non smette di ripetere nei suoi ultimi lavori.

La vita di Godard è inseparabile dalla sua opera; Godard è la sua opera, fino all’ultimo respiro. Quando il 13 settembre il quotidiano Libération annuncia che Godard ha deciso di ricorrere al suicidio assistito, prendendo in prestito le parole di un familiare, chiarisce che «il n’était pas malade, il était simplement épuisé», e qualcun altro afferma che per il regista era importante che tutti sapessero che aveva deciso di farla finita. Che Godard fosse stanco del cinema fin da quando inizia a farlo, che addirittura anche il cinema fosse stanco del cinema, lo sappiamo innanzitutto da Michel Poiccard, che in Fino all’ultimo respiro (1960), verso la fine, poco prima di morire, afferma: “Je suis fatigué, j’ai envie de dormir”. Ma leggendo le dichiarazioni di chi è stato vicino a Godard ormai esausto, nei suoi ultimi giorni, e ripensando alla folgorante citazione beckettiana sull’immagine, che è uno dei ritornelli godardiani, è possibile ritornare all’altrettanto folgorante testo che nel 1992 un altro esausto – Gilles Deleuze – dedica agli ultimi scritti per la televisione di Beckett: L’esausto.

Mentre lo stanco esaurisce solo la messa in atto, «l’esausto esaurisce tutto il possibile. […] Il possibile si attua soltanto nel derivato, nella stanchezza, mentre si è esausti prima di nascere, prima di realizzarsi o di realizzare alcunché […] Eravamo stanchi di qualcosa, siamo esausti di niente» (Deleuze 2015, p. 14). Deleuze indica come lingua III la lingua di quell’esausto, protagonista degli ultimi scritti beckettiani, che si dà all’arte combinatoria (un’arte del montaggio?), arte o scienza di «esaurire il possibile, includendo le disgiunzioni», che non è la lingua «dei nomi o delle voci, ma quella delle immagini, sonanti, coloranti», e che, secondo Deleuze, nasce proprio nel romanzo Come è (ivi, p. 27). Problema generale, che accomuna tutte quelle pratiche (pittura, musica, non meno che il cinema) che cercano di creare un’immagine: come fare un’immagine che sia in grado di bucare la troppo spessa corazza della lingua, che sia in grado di spingersi persino fino al silenzio?

Quando, verso la fine di À vendredi, Robinson, Golestan domanda a Godard se crede ancora nel cinema, se crede ancora che il cinema possa aiutare la gente, il regista non sa cosa rispondere: “Sono domande di tipo un po’ poliziesco”. E anche quando Golestan pone la domanda alla regista del lungometraggio, molto vicina a Godard, non ottiene alcuna risposta esaustiva: “Crede nella parola e all’immagine, questo è certo”. Cosa che potrebbe farci ammettere che sì, Godard crede ancora nel cinema, se questo significa in qualche modo credere nel montaggio, cioè nel rapporto tra immagini e parole. Nel cinema, di cui oggi potremmo dire che è rimasto solo il montaggio; un montaggio che, però, adesso è ovunque: non c’è altro che cinema, non c’è altro che montaggio nel nostro quotidiano. Forse è anche per questo motivo che Godard, in Notre musique, non sa cosa rispondere neppure agli studenti di Sarajevo, quando gli chiedono se le piccole camere digitali salveranno il cinema.

Il cinema a cui pensa Godard – così finisce À vendredi, Robinson – non pone delle questioni e non dà risposte; se avesse detto che sì, crede nel cinema, Golestan non avrebbe mancato l’occasione di chiedere: perché lei, Godard, crede ancora nel cinema? Chi lavora con le immagini e con le parole, secondo Godard, non si chiede perché; è un bambino che tocca, cerca, guarda, dunque il suo lavoro rientra nel dominio del langage e non della langue (dovremmo chiederci, forse, quando il rapporto tra immagine e parola ci permette di parlare di langage); lavora affinché l’immagine venga redenta.

Redimere l’immagine vorrà forse dire liberare una «forza mobilitata per fare il vuoto o aprire dei fori, sciogliere la morsa delle parole, asciugare il trasudamento delle voci, per liberarsi dalla memoria e della ragione, piccola immagine alogica, amnesica, quasi afasica, ora sospesa nel vuoto, ora fremente nell’aperto» (Deleuze 2015, p. 26). La storia critica che nietzschianamente caratterizza il lavoro godardiano vorrebbe condurre a una resurrezione o redenzione dell’immagine, ossia innanzitutto alla sua rinascita non-linguistica; forse un’altra nascita – un’infanzia – del cinema. Come sostiene Godard, nel febbraio del 2021, durante un’intervista in occasione dell’International Film Festival of Kerala, si fa cinema quando, molto raramente, si elabora un’immagine del silenzio; quando, cioè, come diceva Jules Renard, si diventa come la neve che cade nell’acqua: “Snow on water: Silence upon silence” (il langage, che si può trovare anche nella natura).

Ma nell’immagine redenta, ossia nel langage, è in questione anche lo spazio: come nella lingua III degli esausti beckettiani, l’immagine redenta non solo deve farsi spazio, creare un vuoto nella lingua, ma deve anche ricreare, molto materialmente, lo spazio. Spazio «qualunque, disertato e deserto, pur essendo geometricamente determinato», che si presenta «a chi lo percorre come un ritornello motorio, posture, posizioni e andamenti» (Deleuze 2015, p. 27).

Nel comunicato stampa del percorso dedicato ai cinque film godardiani, presentando quella che non si può definire né un’esposizione né un’installazione, ma propriamente un percorso, Aragno e Battaggia sostengono che: «Gli spostamenti fisici dei visitatori nello spazio, creando un gesto coreografico spontaneo e unico, ritmeranno a modo loro una presa del reale nell’immaginario delle sequenze proiettate, e faranno così nascere una involontaria ma significativa appropriazione nelle immagini».

La proiezione vivente dei cinque film, conduce Aragno e Battaggia a parlare di cinema anche in questa sede tradizionalmente non destinata al cinema, ma come un’arte dello spazio – riprendendo il titolo di un articolo, Le cinéma, art de l’espace, di Éric Rohmer, pubblicato nel giugno del 1948 su “La Revue du cinéma”. Come è possibile, oggi, rendere il cinema un’arte dello spazio? Includere il visitatore nello spazio lacerato e ricreato dalle immagini; reinventare quello spazio con delle posture, dei movimenti, che conducano persino a non poter più dire che cos’è il cinema: che la facciano addirittura finita con la domanda baziniana spettro del cinema godardiano. Per sapere che, forse, il cinema non è niente (così come diceva Godard già nelle sue Histoire(s)), se non un montaggio di immagini danzanti. Immagini che, come avviene alla Ménagerie de Verre, danzano nel momento in cui i movimenti del visitatore tracciano e ritracciano percorsi che scardinano il montaggio di ciascun film, ricreando, a loro volta, inediti montaggi coreografici.

Dal primo piano della Ménagerie, delle scale conducono al piano terra, dove sono proiettati gli ultimi due lavori godardiani: Adieu au langage e Le livre d’image. Le immagini e i suoni di Adieu au langage sono frammentati in due sale: nella prima, le immagini del film appaiono su due teli semitrasparenti, che creano nuove sovraimpressioni. È anche possibile vedere le sovraimpressioni attraverso una finestra chiusa: le immagini già doppie si quadruplicano. Al di là degli schermi si intravede un’altra finestra. Uno stretto corridoio, dove tuonano confusamente suoni, parole e musiche, conduce nella seconda sala, lo studio Cocteau della Ménagerie, in cui le immagini sono proiettate sui muri e riflesse nello specchio. Delle sedie, quasi che si volesse ricreare una più classica sala cinematografica, sono rivolte verso la finestra, attraverso cui vediamo i due teli sovrapposti e, al di là di essi, la prima finestra da cui guardavamo le immagini.

La danza delle immagini del Godard del nuovo millennio si conclude con la sala dedicata a Le livre d’image: diversi teli semitrasparenti, posizionati come se fossero le quinte di uno spazio scenico, riproducono le immagini creando, anche qui, inedite sovraimpressioni, e tra una immagine e l’altra si inserisce il nostro corpo. Quello che potrebbe essere il fondale dello spazio scenico è in realtà un ulteriore schermo che riproduce il film, e che il visitatore può decidere di guardare dietro o meno uno dei teli; di guardare il film sovraimprimendovi altre immagini, ricreando altri montaggi attraverso il proprio corpo danzante. In quella danza libera di immagini, forse il cinema stesso può rinascere in quanto infante che danza, perché non catturato dalla lingua, perché libero nei movimenti, come può esserlo anche un folle, come si dice verso la fine di Le livre d’image.

Le livre d’image, l’ultimo lungometraggio godardiano, si conclude con una scena di Il piacere (1952) di Max Ophüls, in cui un uomo e una donna ballano. L’uomo, alla fine, cade a terra. Nessun suono accompagna la scena, nessuna parola accompagna quella caduta; affinché ci sia altra danza, affinché ci si possa rialzare dopo quella caduta, sarà necessario che l’immagine si faccia spazio nella lingua, e che, forse, il cinema risorga (anche) come arte dello spazio.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’esausto, Nottetempo, Roma 2015 (Ebook).
J.-L. Godard, JLG/JLG et autres textes, P.O.L., Paris 2022.
É. Rohmer, Le cinéma, art de l’espace, in Id., Le goût de la beauté, Éditions de l’Étoile, Paris 1984.

Éloge de l’image, Ménagerie de verre, Parigi, 23 novembre – 18 dicembre 2022.

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