Ci sono film che sembrano non avere patria e riescono a creare micro-smottamenti capaci di trascinare chi li guarda verso nuovi orizzonti, contribuendo in questo modo a rendere un po’ più ampia la mappa d’interesse del cinema contemporaneo. Mi pare essere questo il caso di El paraíso, il terzo lungometraggio del regista romano Enrico Maria Artale, che non conoscevo prima di vedere questo film. Per provare a dire qualcosa di quest’opera mi sembra inevitabile partire dall’interpretazione del protagonista, Edoardo Pesce (già co-protagonista di Dogman di Matteo Garrone, tra gli altri): un’interpretazione semplicemente maestosa sulla quale l’intero film è costruito sin dal soggetto, che Pesce firma insieme al regista ed è frutto di un sodalizio e un’amicizia che risalgono al 2013, quando i due hanno lavorato insieme al primo lungometraggio di finzione di Artale intitolato Il terzo tempo.

In El paraíso – che segue la parentesi documentaria di Saro del 2016, indagine autobiografica sul padre del regista con cui questo film ha più di qualche relazione – Pesce interpreta il personaggio di Julio Cesar, un quarantenne che per mestiere si occupa di gestire il passaggio della cocaina, facendo da transito fra i narcotrafficanti latinoamericani e una piccola piazza di spaccio della periferia romana. Se il cartello di Cali c’entra qualcosa con questa storia è però soltanto come sfondo lontano; nel film non compaiono personalità assimilabili a quella di Pablo Escobar, la grande criminalità non è il centro d’interesse e tutto ruota invece attorno alla bassa manovalanza, ai piccoli ingranaggi di un sistema che qui appare come fuori campo geograficamente distante. Non è pertanto l’attività lavorativa a delineare lo spessore del protagonista e a tratteggiare il suo personaggio bensì qualcosa di diverso, che appare con evidenza sin dalle prime sequenze: il suo rapporto con la madre, interpretata dalla colombiana Margarita Rosa De Francisco, che ha ottenuto per questo ruolo il premio come miglior attrice al festival di Venezia del 2023, dove il film è stato presentato nella sezione Orizzonti.

Quella tra Julio Cesar e la madre è innanzitutto una grande storia d’amore, con tutto ciò che di opprimente l’amore è capace di portare con sé: i due lavorano insieme, vivono insieme, ballano insieme. La simbiosi tra madre e figlio non ha quasi vie di fuga, assumendo sin da subito i tratti inequivocabili di una situazione senza scampo. Al di fuori di questa relazione Julio Cesar non sarebbe neanche definibile: è essa a determinare ogni altro aspetto della sua vita e qualsiasi rapporto con gli esseri umani, a partire da quelli sentimentali e sessuali con le altre donne. Tanto nel lavoro quanto nella vita quotidiana Julio Cesar è dunque costitutivamente un essere che esiste solo come tramite, un individuo irriducibile alla dimensione di singolo, un uomo di passaggio schiacciato dalla personalità esuberante e perennemente alterata della madre. Questo rapporto edipico pronunciato, complesso e irrisolto è seguito da vicino dalla macchina da presa, reso perfettamente dalla vicinanza claustrofobica delle inquadrature che si aprono solo in rari momenti epifanici, come nel caso della prima uscita in barca nelle acque del Tevere, o in due momenti musicali che scandiscono altrettante tappe fondamentali del film: l’amore eterno e indimenticabile cantato dalla madre, accompagnata dal figlio alla chitarra; un momento solitario del figlio, nell’indimenticabile sequenza finale del film, della quale non dirò altro in questa sede.

El paraíso è dunque un film interamente costruito sulla recitazione dei suoi protagonisti (e sarebbe difficile pensarlo senza una così consistente prova attoriale) ma è anche, nello stesso tempo, un film di scrittura: la giuria di Orizzonti lo ha premiato a ragione anche per la miglior sceneggiatura. Una scrittura asciutta, precisa e fatta di continui cambi di ritmo, che sin dall’inizio sceglie di costruire ambientazioni non facilmente identificabili, come di imprecisa collocazione e di continui transiti è la storia che il film racconta.

In una sequenza notturna, in un’anonima piazzola animata dalle luci al neon di una paninoteca ambulante, Julio Cesar e la giovane Ines – la donna è appena sbarcata dalla Colombia per traghettare un carico di droga – passeggiano dopo aver bevuto un paio di birre insieme. Approfittando di un momento di distrazione di Julio Cesar, un giovane avventore della paninoteca porta a Ines un foglietto di carta, con su scritto il suo numero e un invito a contattarlo, piuttosto che continuare a perdere tempo con un poveraccio come quello. Quando si alzano per tornare a casa, Ines legge il biglietto ad alta voce nel suo italiano stentato e chiede a Julio Cesar di tradurlo. Lui allora fa una mossa che sembra trasportarci in un racconto di Daniele Del Giudice: inventa un contenuto del tutto diverso, e anche vagamente poetico. Lei intuisce, ma fa finta di niente. Siamo dalle parti di Nel museo di Reims: piccoli slittamenti, spostamenti minimi, micro-invenzioni che dipingono un paesaggio e creano la possibilità di rapporti più autenticamente umani, la nascita di relazioni diverse. Il tutto è reso possibile da uno scrupolosissimo lavoro di scrittura, firmato dallo stesso Artale.

In fondo, l’intero film sembra richiamarsi a due macrocategorie essenziali: quella dell’esperienza e quella del viaggio. L’esperienza di Julio Cesar è soprattutto quella di un grande viaggio, non soltanto fisico, tra molti luoghi: un viaggio iniziatico di incerta attribuzione non soltanto spaziale, ma anche cronologica. Ci troviamo davanti al coming of age di un uomo cresciuto? A una forma non letterale di coming out? Pare che il regista abbia dato indicazioni agli attori di non incontrarsi prima del film, e che abbia girato tutto nell’ordine degli avvenimenti, anche per salvaguardare quella dimensione di esperienza che è ineliminabile dalle avventure stesse dei protagonisti. Il viaggio di Julio Cesar è allora soprattutto un fare i conti con sé stessi che è anche uno scoprire sé stessi, mentre l’esperienza riservata a noi spettatori è quella di assistere alle peripezie di un uomo che sta per diventare ciò che è per provare a risolvere la sua incompiutezza. Nel realizzare un film apolide e senza centro, con una grazia rara che merita di essere sottolineata, Artale riesce a cogliere qualcosa di essenziale e di antico, costruendo un racconto di formazione che trascende il tempo e prova, nella disperazione, a non abbandonare la possibilità di trovare luminose tracce di speranza.

El paraíso. Regia: Enrico Maria Artale; sceneggiatura: Enrico Maria Artale; fotografia: Francesco Di Giacomo; montaggio: Valeria Sapienza; interpreti: Edoardo Pesce, Margarita Rosa de Francisco, Maria Del Rosario Barreto Escobar, Gabriel Montesi; produzione: Ascent Film, Rai Cinema, Young Film; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Italia; durata: 106’; anno: 2023.

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