Un film girato in pellicola, come El gran movimiento di Kiro Russo, presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 2021, è sicuramente una scelta non casuale. La grana particolare, l’improvvisa scomparsa di quella pulizia fotografica che troppo spesso ricopre l’immagine digitale di tanto cinema contemporaneo, il ritorno di una porosità granulosa qui accentuata dal lavoro sulle immagini si pongono già come l’indizio di un lavoro temporale, il segno di una memoria cinematografica che inevitabilmente fa sì che la visione del film provochi un effetto di sdoppiamento: da una parte l’immagine che scorre di fronte a noi, il viaggio che siamo chiamati a intraprendere; dall’altra la memoria di tanto cinema evocato, ripensato, trasformato che sembra ingigantire il film e la sua visione.

Sì, perché il grande movimento è al tempo stesso quello della città de La Paz e quello degli sguardi e degli autori che sono come incorporati nel movimento intrinseco del film. Elder, il protagonista era già stato l’attore principale del lungometraggio precedente di Russo, Viejo Calavera, lo straordinario viaggio immobile negli spazi oscuri e angusti di una miniera che il regista boliviano aveva presentato a Locarno nel 2016. Qui il minatore arriva insieme ai suoi compagni per partecipare ad una manifestazione e poi decide di fermarsi nella capitale, alla ricerca di un lavoro. Tutto il film si basa quindi sull’erranza di Elder e dei suoi compagni, di quartiere in quartiere, da un lavoro saltuario all’altro: una trama esile che però permette allo sguardo di immergersi in quel viaggio temporale, nel presente della città e nella memoria del cinema.

Parlando del film, infatti, Russo lo introduce come una sinfonia visiva, che immediatamente rievoca, come fantasmi, le immagini delle grandi sinfonie urbane di Vertov, Ruttmann o Vigo. Ma se quei film raccontavano (ognuno a suo modo) uno dei miti fondanti del xx secolo, la città come simbolo di una modernità nascente, la razionalità tecnologica e il suo rapporto con l’umano, qui la sinfonia si presenta immediatamente postuma, destrutturata. I lunghi travelling iniziali sullo skyline della città, fatta di enormi palazzi tutti uguali, i lenti zoom (memori del lavoro di Michael Snow) che si avvicinano ai dettagli di queste corazzate di cemento, per poi scartare su una arteria congestionata dal traffico, sono già l’indice di un montaggio inteso come scarto, salto, come continuo cambio di registro. La sinfonia si mostra contaminata dal gusto della variazione, dall’improvvisazione a volte quasi jazzistica, in cui emerge la capacità del cinema di evocare se stesso. Ecco il gusto documentaristico nel soffermarsi sui volti e sui gesti della folla intenta nei propri affari quotidiani, ecco giungere improvviso il salto in un’atmosfera visionaria, originata dallo sguardo di Elder, che noi accompagniamo nel suo peregrinare. Il mercato, dopo una dura giornata di lavoro diventa di notte il teatro di un numero da musical in cui tutti danzano. Un’immagine-sogno, direbbe Deleuze, che termina altrettanto improvvisamente sul nero, una lunga inquadratura oscura, da cui, come in un film di Pedro Costa, emerge il volto di Elder disteso a letto.

La città non è più il simbolo di una idea della ragione trasformata in spazio concreto di vita, ma somiglia più ad un brulicante caos visivo, sonoro e umano, in cui vedere al tempo stesso le macerie del secolo appena trascorso e la comunque costante vitalità che continua a sostenerla. Lo sguardo di Russo non è infatti uno sguardo giudicante: ciò che lo sostiene è la volontà di trovare una forma in grado di dire la contemporaneità. E questa forma non può prescindere dal cinema, dalla sua storia, dalla sua memoria. Un cinema della nostalgia? No, niente affatto. Non si tratta di uno sguardo nostalgico, ma di un gesto di riattivazione delle forme del cinema del passato. Si tratta di uno sguardo che crede ancora nel cinema.

L’idea allora è cambiata: nel cinema di Russo, sia esso immerso nell’oscurità della miniera o disperso e disseminato nella capitale, quella che è in gioco è una nuova possibilità di vedere e raccontare. La grande sinfonia sulla città boliviana, che è di fatto anche un grande atto di amore nei confronti del proprio Paese, diventa la messa in forma di un cinema che per raccontare il presente si immerge contemporaneamente nel passato delle immagini, lo riattiva, lo rimette in circolo, lo rende presente.

Tutto si riattiva, in una sorta di circolo che costantemente ritorna su se stesso: come nel finale, in cui un montaggio frenetico di corpi, gesti e volti presi dalla vita della città culmina con una velocissima sequenza di inquadrature, quasi impercettibili, in cui tutti gli eventi del film vengono rivisti, come in un film fatto scorrere a velocità impossibile. Ecco allora il cortocircuito temporale nella sua forma più lampante, quella del ritorno, del film che ritorna su se stesso, così come Il cinema, allorquando non si pensa coniugato nell’eterno presente del qui e ora, ma fa i conti con la propria memoria.

El gran movimiento. Regia e sceneggiatura: Kiro Russo; fotografia: Pablo Paniagua; montaggio: Kiro Russo, Pablo Paniagua, Felipe Gálvez; musiche: Miguel Llanque, autista di mezzanotte, Anton Vlasov; suono: Mauricio Quiroga, Mercedes Tenina, Juan Pedro Razzari, Emmanuel Croset; interpreti: Julio César Ticona, Max Eduardo Bautista Uchasara, Francisca Arce de Aro, Israel Hurtado, Gustavo Milán Ticona; produzione: Socavón, Altamar Films, Doha Film Institute, Bord Cadre Films, Sovereign Films, Miguel Angel Peñaloza; origine: Bolivia, Francia, Qatar, Svizzera; durata: 85′; anno: 2021.

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