Il cinema di Pietro Marcello, almeno da Martin Eden (2019) in poi, costruisce la sua narrazione a cavallo tra il regime espressivo della fiction e l’utilizzo di immagini d’archivio. In modo più universale potremmo dire che Marcello non ha alcuna intenzione, mai, di svincolare la sua pratica artistica dalla Storia. Questo lo fa in tutta la sua filmografia, a partire da quella documentaria, ma è con l’adattamento di London che il regista inaugura una fase in cui il foundfootage fa da controcampo – spesso attraverso sorprendenti e fluidi raccordi di sguardo – alle azioni che si svolgono sul piano visivo animato dal racconto finzionale. 

Eleonora Duse è una delle attrici più grandi di tutti i tempi, icona della sua epoca. Della riproduzione del suo corpo sulla scena restano solo testimonianze scritte – un unico nastro registrato andò perduto, per il resto si hanno fotografie, per lo più ritratti. Di questa Musa dello spettacolo Marcello sceglie di raccontare gli ultimi anni (l’artista scompare nel 1924), quelli che si intrecciano in modo indissolubile agli strascichi della Grande Guerra, la povertà e la sofferenza da essa procurate, lo sforzo di rinascita di un Paese. 

Ecco che allora Duse, prima di rappresentare per il cineasta un corpo ispiratore, capace di suscitare un sentimento di meraviglia e devozione, diventa in questo film l’incarnazione di un incontro, quello tra arte e storia, che, come si diceva, guida dalle origini la sensibilità di Marcello. Le membra della “Divina” costituiscono in ogni piccola parte – la macchina da presa non fa che indagarle attraverso riprese sempre molto prossime, intime, dal primissimo piano al dettaglio – un nodo «di carne e sangue», direbbe Bachtin, di istinto creativo e ancoraggio di esso nel tempo (ormai caduco) in cui si colloca. Un coacervo di frammenti emotivi, centrifughi, onirici e assieme razionali, radicati in un qui ed ora, consapevoli di dover corrispondere ad un senso comune.

La Duse scelta da Marcello, l’attrice che dopo anni, se pur gravemente malata di tubercolosi, decide (andando incontro ad un cocente fallimento) di tornare sulla scena per risollevare il popolo sconvolto dal primo conflitto mondiale, è in altre parole il corrispettivo narrativo di una postura ontologica che da sempre il cinema di Marcello adotta: l’arte, per essere vera, non può smettere di confrontarsi, anche di confliggere, con il tempo storico. Non necessariamente il proprio tempo, più in generale un tempo di cui non ci si dimentichi di avvertire il peso specifico, nelle diverse stratificazioni delle epoche e nelle sedimentazioni accumulate sino a noi – basti pensare a Martin Eden e alla nebulosa di decenni che in modo tutt’altro che cronologico si susseguivano nei montaggi d’archivio.

Anche in Duse compaiono sequenze d’archivio che fungono da connettori tra un piano e l’altro della finzione. Sempre più rade, come già accadeva ne Le vele scarlatte (2022), tuttavia non è più tanto il loro apparire a ricordarci in questo film quale sia la posta in gioco – ed ecco perché non ha alcun senso pensare che il loro uso sia didascalico: semplicemente è un paradigma ormai noto, che non ha bisogno di grandi sperimentazioni per ricordarci che esiste. Perché se anche la storia non apparisse ineluttabile negli sprazzi d’archivio, in questo caso è in primo luogo il corpo narrativo (e attoriale) scelto a segnare in modo progressivo la dialettica tra un tempo storico che si impone e un desiderio artistico che, per definizione più volatile, lavora a sublimare la realtà e al contempo sempre a dovervi tornare – per necessità, per dovere.

Detto ancora altrimenti: Duse – sin dal titolo un cognome slegato dal nome, quasi un concetto più che un’identità – è la spinta creativa consapevole di nascere da una Storia e di essere in modo imprescindibile tenuta a rendergli conto nelle sue naturali evoluzioni. Allo stesso modo un cinema di finzione disposto a slabbrarsi in modo costante nella grana di archivi indiscutibilmente più potenti, eticamente ed esteticamente, del racconto romanzesco è un cinema che, qualsiasi tempo decida di attraversare, non abbandona mai il contatto, a volte discontinuo e sofferto, con il passato e il presente da cui prende forma.

La scelta di una presenza scenica come quella di Valeria Bruni Tedeschi, a cui il regista pensa fin dalla scrittura del soggetto, è pienamente coerente con quanto detto. Non può che essere uno spirito folle, sopra le righe, a tratti delirante e sempre sull’orlo del disfacimento emotivo, quello in grado di tenere testa alla potenza senza volto – o meglio, con il volto della collettività – della storia. Se anche Luca Marinelli, un corpo attoriale già all’epoca molto connotato, riconoscibile, unico, era pensato per resistere agli sconvolgimenti che l’archivio attuava sul piano della messa in scena, l’attrice italo-francese è chiamata a fare lo stesso: in piccola parte con la reale comparsa della Storia attraverso i repertori ma soprattutto, e in modo più sottile, interpretando attraverso il suo stesso, singolo e singolare, corpo questo incontro/scontro.

Lei, come alcuni degli altri personaggi – D’Annunzio interpretato da Fausto Russo Alesi sopra tutti –, è in un certo senso costretta in alcuni momenti a creare un eccesso di interpretazione (grida, lacrime, qualsiasi tipo di eiaculazione umorale e sonora) per affermare il confine tra espressione artistica e potenza storica. Di sicuro portandosi con cura e coraggio sul corpo fisico, nel corpo recitativo, dentro il corpo narrativo, le contraddizioni di qualcosa (l’arte) che vorrebbe sfuggire al tempo (un tempo di guerra) e contemporaneamente desidererebbe incarnarne gli assunti, vestirne le tracce. 

Perché allora, andando ancora più a fondo, non leggere questo film come uno degli apparentemente meno attuali alla Mostra del Cinema – in costume, mescolato ai codici del teatro, così intriso di istrionismo e pantomima – e invece forse uno di quelli che più può dirci qualcosa del nostro presente? Si è tanto discusso in questi giorni del Festival, spesso in modo pretestuoso, su quanto ciò che sta accadendo nel mondo debba o meno condizionare una manifestazione artistica in cui si omaggia il cinema e si premia (anche) l’evasione dalla realtà. Forse Duse, senza mai davvero esplicitarlo, tematizza in primo luogo proprio questo: l’attrazione e la repulsione tra arte e storia, creatività e potere. 

Marcello compone una forma artistica in tempo di guerra (le immagini iniziali con i paesaggi fatti di soldatini ci dicono anche questo) e, forse inconsciamente, si imbatte in Eleonora Duse, nella parabola discendente della diva tra le ceneri del conflitto e nelle sue contraddizioni. Divina e sempre compromessa è innanzi tutto la forma del suo cinema e del cinema che oggi può dirci qualcosa, con un occhio tenace al possibile e un occhio irremovibile alla storia dell’umanità.

Duse. Regia: Pietro Marcello; sceneggiatura: Letizia Russo, Guido Silei, Pietro Marcello; fotografia: Marco Graziaplena; montaggio: Fabrizio Federico, Cristiano Travaglioli, Alessio Franco, Luca Carrera; musiche: Marco Messina, Sacha Ricci, Fabrizio Elvetico; interpreti: Valeria Bruni Tedeschi, Fanni Wrochna, Noémie Merlant, Fausto Russo Alesi, Edoardo Sorgente, Vincenzo Nemolato, con la partecipazione di Noémie Lvovsky; produzione: Palomar – a Mediawan company (Carlo Degli Esposti, Nicola Serra, Marco Grifoni), Avventurosa (Benedetta Cappon), Rai Cinema, PiperFilm, Ad Vitam Films, Berta Film; origine: Italia; anno: 2025; durata: 125′.

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