Dungeon Food (Dungeon meshi in originale), diretto con mano ispirata da Yoshihiro Miyajima e prodotto dallo studio Trigger (che spesso ci ha regalato notevoli lavori d’animazione), è l’adattamento del manga omonimo disegnato da Ryōko Kui e terminato con il quattordicesimo volume a dicembre 2023. In Italia è edito da J-Pop. Già dal nome è più che evidente il legame con il popolare gioco di ruolo fantasy Dungeons & Dragons di Gary Gygax e Dave Arneson, creato negli USA nel 1974. Agli elementi tipici di questo genere, che possiamo ormai definire classico e che si rifà al folklore del Nord Europa, Ryōko Kui ha aggiunto il tema culinario. Tuttavia, non nel modo che ci si aspetterebbe. Infatti, il cibo utilizzato consiste proprio in quei mostri che compaiono nelle leggende.

La storia prende avvio da uno scontro con un drago rosso nel profondo di un misterioso dungeon, dove la maga Falin, sorella dei guerriero protagonista Laios Touden, viene divorata dalla creatura. Il gruppo di cui fa parte, grazie a un incantesimo, si ritrova trasportato istantaneamente in superficie. Mentre alcuni membri scelgono di andarsene, suo fratello, la maga elfa Marcille Donato e l’half-foot (una specie di hobbit) Chilchuck Tims, specializzato nel disinnescare trappole, decidono di riscendere subito sottoterra e di cercare Falin, dato che chi muore nel dungeon può essere resuscitato, a patto però che se ne recuperino i resti. Dal momento che hanno perduto ogni loro avere e non possono così comprare viveri, Laios suggerisce agli altri – con loro grande sorpresa e disgusto – di nutrirsi dei mostri che incontreranno lungo la strada. In seguito si uniscono al gruppo il nano cuoco Senshi e, più tardi, la ragazza-gatto Izutsumi.

Il tema dei mostri che diventano cibo costella, dunque, l’intera narrazione. Certo, esauritasi la sorpresa iniziale, il meccanismo avrebbe potuto diventare ripetitivo, ma dopo alcuni episodi il tono cambia nettamente registro e la trama assume completezza, sia attraverso un grande world-building, sia perché si viene a delineare una struttura narrativa complessa, cosicché quella che al principio sembrava la semplice ricerca di una persona scomparsa diventa un’intricata e avvincente avventura di ampio respiro.

Dungeon Food ha in comune con Frieren, altro recente anime fantasy di grande successo, la caratteristica di veder migliorati in animazione dei fumetti già in partenza ottimi. Lo staff è riuscito a fare tesoro dei punti di forza che la mangaka ha inserito nel suo lavoro, ottenendo così un risultato brillante. Un esempio è come sia stata ben sfruttata l’abilità di Kui nella creazione di personaggi e mostri – da questo punto di vista, uno sguardo al volume Delicious in Dungeon World Guide: The Adventurer’s Bible può aiutare a farsi un’idea precisa dell’alto livello raggiunto dall’autrice – delineati con caratteristiche fisiche che diversificano non solo le razze tra loro, ma persino i componenti di uno stesso gruppo, dando così all’opera un apprezzabile senso di realismo. Altro punto in comune con Frieren è il tema dell’immortalità del singolo, considerata come costante e ripetuta perdita del prossimo, e, quindi, come concretizzazione di un senso di solitudine infinito. Con la particolarità che in Dungeon Food l’immortalità arriva persino a generare un profondo terrore psicologico in alcuni di coloro che la posseggono.

Se, invece, vogliamo vedere delle differenze con Frieren, quest’ultimo può senza dubbio dirsi “elegante”, oppure “aristocratico”, mentre per Dungeon Food la parola che forse più gli si addice è “sanguigno”. Che cosa intendiamo con questo? Si tratta, ovviamente, di una impressione generale, data quindi da come le narrazioni originarie sono adattate nel linguaggio animato. Se in Frieren, per esempio, abbiamo scontri animati come degli assoli virtuosistici, con una ricchezza di invenzioni visive che vivono di luce propria – una percezione spesso sottolineata dalla mancanza di dialoghi – in Dungeon Food abbiamo qualcosa di diverso.

Non che non ci sia inventività; anzi, l’anime dello studio Trigger è pieno zeppo di momenti altamente creativi. Tuttavia, questi elementi sono sempre, per così dire, “mimetici” alla narrazione. Non spiccano, ma servono a irrobustire il senso di quello che accade, connotandolo di volta in volta in maniera diversa. Facendo un parallelo con il cinema dal vivo, si può pensare a Frieren un po’ come a Excalibur (John Boorman, 1981), la cui bellezza figurativa trasfigura le vicende di Re Artù, Merlino e di tutti i personaggi di quel ciclo cavalleresco, mentre Dungeon Food può essere considerato come una specie di equivalente di uno dei capolavori di Mario Monicelli, L’armata Brancaleone (1966). Cioè, come noto, una commedia di ambientazione medievale in cui si mescolano divertimento e crudezze, e in cui le stravaganze stilistiche non sono fini a sé stesse ma aiutano a delineare la storia e i personaggi.

Continuando il parallelo, con una distinzione forse desueta ma non per questo priva d’efficacia, si potrebbe parlare di Frieren come di un anime la cui leggera costruzione narrativa può aver facilitato una reinvenzione più libera – e quindi poetica – di certi momenti topici nell’opera: per esempio, negli scontri con i demoni e in quelli tra maghi. Al contrario, Dungeon Food si basa su un manga già concluso, più complesso di quello di Frieren, e che di conseguenza ha richiesto che gli aspetti più inventivi dell’adattamento animato interagissero in modo organico con la visione di Ryōko Kui. Per questo, Dungeon Food potrebbe essere definito come un anime più vicino alla prosa – una gran bella prosa – che qua e là è capace anche di sconfinare in soluzioni estetiche meno vistose rispetto a quelle di Frieren ma pur sempre stilose.

A questo proposito, fra i tanti, possibili esempi, vengono in mente spunti comici da pantomima pura, come un breve momento nella parte finale dell’episodio 15 della serie, quando Marcille si trova a dover fronteggiare da sola una coccatrice, mostro dal corpo di drago e dalla testa di gallo. Prima del confronto, la regia ci mostra la nostra elfa e la creatura mitologica nella stessa inquadratura, come a formare un naturale split-screen in cui una figura imita l’altra. Oppure si può evocare la sequenza clou dell’episodio 17, in cui lo scontro in atto non risparmia dosi di crudo realismo, qualcosa che di certo dà uno scossone alle avventure che il gruppo di Laios ha avuto fino a quel punto.

In sintesi, volendo suggerire un motivo per cui vale la pena vedere Dungeon Food, si potrebbe dire che esso risiederebbe nella cura delle proporzioni, come in un certo senso prefigura la geniale sequenza d’apertura del primo arco della serie. Rimanendo fedele al bel manga di Ryōko Kui, l’adattamento di studio Trigger riesce a ricreare e sviluppare i sottotesti più interessanti del racconto concepito dalla mangaka senza sconfessarne la complessità di fondo. Ci sono il fantasy e la commedia a fare da riferimenti principali, certo, ma nello stesso tempo troviamo anche altro, per esempio delle guarnizioni d’azione, un gusto per la critica sociale – mescolata con un corposo approfondimento dei personaggi – e alcuni “estratti”, fra cui non mancano aromi molto riconoscibili come quello della tragedia e dell’horror. Ci sono sicuramente altri ingredienti, ma quanto detto può forse essere già sufficiente a suggerire come, in fondo, la composizione di Dungeon Food sia paragonabile a quella di un’opera di alta pasticcieria. E come ha spesso ricordato il maestro Iginio Massari nelle sue comparsate lunari a MasterChef, la tenuta delle giuste proporzioni fra gli ingredienti è, nel fare dolci, fondamentale, perché è la scienza alla base dell’arte.

Dungeon Food. Ideatori: Yoshihiro Miyajima, Ryōko Kui; interpreti: Kentarō Kumagai, Sayaka Senbongi, Asuna Tomari, Saori Hayami, Hiroshi Naka; musiche: Yasunori Mitsuda; produzione: Trigger; distribuzione: Tokyo MX, Netflix; origine: Giappone; anno: 2024.

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