In Autobiografia di uno spettatore Calvino scrive che nel cinema di Fellini «è il fuori che invade lo schermo, il buio in sala che si rovescia nel cono di luce». Vale a dire, il vissuto del regista tenta ad ogni occasione di entrare nello schermo, come il piccolo Federico sognava di fondersi, almeno una volta, con le immagini proiettate nella sala del Fulgor di Rimini.
Pensare la propria vita come un film non significa tuttavia necessariamente autorappresentare la propria memoria personale con l’ambizione che diventi una storia per lo spettatore. Quello che accade miracolosamente nei film di Fellini è, al contrario, che il ricordo personale, fuso alla pura e irrazionale potenza dell’immagine, riesca a condensarsi nei simboli – anzi, di più, negli archetipi – dell’inconscio collettivo. Ecco perché è la dimensione onirica – condensazione (Verdichtung) della nostra facoltà immaginativa – ad incarnare per eccellenza questa operazione per così dire “rovesciata”: non è tanto l’immaginario individuale a chiamare a sé un riferimento alla memoria collettiva, quanto quest’ultima a cogliere, attraverso l’immagine cinematografica, le profondità del singolo, spiazzandolo con le sue intime corrispondenze tra l’io e l’altro, la parte e l’intero. Di fronte ai sogni felliniani, ognuno di noi – regista compreso – è capace di estrarre un proprio, privato, scenario mnemonico.
Questa tesi emerge, più o meno esplicitamente, in due libri pubblicati per il centenario dalla nascita del regista: Fellini, Roma di Andrea Minuz (Rubbettino) e Federico Fellini. L’apparizione e l’ombra di Bruno Roberti (Ente dello Spettacolo). Se il primo si concentra su un film, Roma (1972), cercando nel mondo di un’opera l’esemplarità di un intero percorso creativo, il secondo sceglie come protagonista proprio il sogno, indagandone via via, in pressoché tutta la filmografia di Fellini, le «apparizioni».
“La vera vita è quella del sogno”, dice la direttrice del fotoromanzo in cui compare “lo sceicco bianco” alla infatuata e quasi allucinata fan del personaggio. E a «Fellinia», strana terra di mezzo tra realtà e immaginazione, la vita è a tutti gli effetti partorita dal sogno, quasi che ogni film ci riproponesse una gestazione alla fine della quale, finalmente, viene al mondo il riconoscimento di ciò che siamo. Se ogni film è un «film-sogno», la realtà dello schermo è non biografica bensì «mito-biografica» (Roberti), mettendoci di fronte un presente storico che affonda nel passato e nel futuro remoto dell’uomo, incollocabile temporalmente e spazialmente eppure tracciabile – come Fellini impara da Bernhard a tracciare graficamente le sue avventure oniriche – in una cornice universalmente familiare.
La città di Roma è capace al meglio di incorporare questa pulsione “immaginativo-memoriale”. In una lettera, Freud raccontava di come Roma gli fosse sfuggita per buona parte della vita e, una volta appagato il desiderio di vederla, la sua immagine, inafferrabile, controversa e quasi deludente, l’avesse un’ultima volta lasciato a bocca asciutta, differendo ancora il piacere di possederla. Non a caso ne Il disagio della civiltà lo psicanalista parla di Roma come di una sorta di archeologia dell’inconscio in cui vivono più strati simultaneamente, un insieme di «ambienti-ricordo» cristallizzati nel regno ideale della memoria, e per questo destinati a sopravanzare sempre di un passo la realtà. Roma di Fellini, oltre a giocare sulle stratificazioni fisiche della capitale (la sequenza della metropolitana), ce la presenta a tutti gli effetti come una cassa di risonanza in cui riecheggiano più tempi: la città degli anni ’30 in cui il regista si trasferisce; quella caotica degli anni ’70 del traffico feroce (le macchine che girano a vuoto sul Raccordo Anulare) e di una «marmellata sociale» animalesca (le cene trasteverine); quella idealizzata da chi viene dalla provincia.
La città del film è l’ennesima potenza della ricostruzione in studio di un piano simbolico, della reinvenzione, in altre parole, di un luogo fisico per come esso viene trasfigurato in «allucinazione collettiva», «nevrosi nazionale» (Minuz). Non a caso la stampa definisce il film un «documentario di fantasia», a forzare in un convenzionale ossimoro quella dicotomia così impenetrabile che Fellini costruisce tra dato di realtà e rimessa in scena di quest’ultimo nel dominio della pura immagine, palpabile e al contempo visionaria. Un paesaggio «esotico» perché straniato nella riconfigurazione onirica delle sue componenti, a partire dall’Eur, nelle parole di Zapponi «lieve sogno i cui riflessi arrivano attraverso la via Cristoforo Colombo, in verdi vibrazioni», fino ad arrivare alla corsa delle moto nelle strade vuote del centro storico, forse dirette “a Ostia”, in una città fantasma che non può non ricordarci quella immortalata dai droni qualche mese fa (Minuz).
Ma, nel viaggio dell’inconscio felliniano, Roma è la meta di molti altri film: da quella pagana del Satyricon a quella «inferica e viscerale» (Roberti) di Toby Dammit, dal jazz set de La dolce vita alle martellanti epifanie dei manifesti pubblicitari ne Le tentazioni del dottor Antonio o in Ginger e Fred, Fellini ripopola la città di figure ancestrali e sedimentate in un inconscio visivo tanto forte da fare di Roma una città «avanti Cristo e dopo Fellini» (come recitava la frase di lancio del Satyricon sul mercato americano).
Roma, ma anche le sue “emanazioni”. Una fra tutte, il litorale fregenate, con la sua spiaggia larga, gli alti tronchi della pineta, le ville barocche, labirintiche come il presidio delle femministe ne La città delle donne, schiacciate da un «cielo sfasciato» in grado di far apparire, lassù in alto in una vertigine, uno sceicco in altalena (Lo sceicco bianco) o una casa-bozzolo in cui vengono consumati erotici rituali (Giulietta degli spiriti). In uno scenario che forse, ai margini di una città verso cui tutto tende, si allontana ancora di più dal racconto per avvicinarsi all’immagine – un’immagine più intima, personale, circoscritta, e per questo più adeguabile alla zona franca e magmatica del subconscio. Una Amarcord della maturità, in cui proiettare la propria fantasia maschile, la caverna «erotica e placentare» (Roberti) del cinema, così come le zone buie, la fuggevolezza velata di figure evocate come in una costante seduta medianica. Gli stessi corpi diventano così «mutanti» (per riprendere un termine attraverso cui Elsa Morante legge la poetica pasoliniana), trasformazione della carne reale in figure astratte ricomprese in un orizzonte simbolico, pedinate (La strada) o interrogate a distanza (E la nave va) dalla macchina.
Fellini raccontava che il suo grande sogno sarebbe stato quello di realizzare un film in «una sola immensa inquadratura». Lontano dal limite dello stacco di montaggio, sulla narrazione logica sarebbe definitivamente prevalso il fluire della coscienza, l’accumulo di associazioni di idee tutte in uno stesso luogo – le immagini come i suoni (basti pensare ai titoli di testa di Prova d’orchestra o al doppiaggio di Amarcord). Forse in conclusione è proprio in questo desiderio, nel raggiungimento di una pura esperienza cinetica (ottica o sonora) che addensasse la realtà in un’unica miscela, a ravvisarsi la tensione della messa in scena felliniana verso l’elaborazione traumatica del singolo, l’inscenare un sogno per conoscerne il rovescio.
Andrea Minuz, Fellini, Roma, Rubbettino, Roma 2020.
Bruno Roberti, Federico Fellini. L’apparizione e l’ombra, Ente dello spettacolo, Roma 2020.