Che cosa succede se smettiamo di pensare l’arte come la manifestazione di una “intenzione” artistica? Cioè se proviamo a non pensare più il lavoro artistico come una forma di “espressione” e tanto meno di “comunicazione”? Questo modo di intendere l’arte rimanda ad una distinzione in cui siamo incagliati da secoli, quella fra “artista” – il genio “creatore” – e “opera” d’arte, cioè l’oggetto o la performance che ha realizzato. Il nucleo metafisico di questa opposizione è costituito dal dualismo che allo stesso tempo separa e unisce l’agente che trasforma il materiale inerte in qualcosa di artistico, e appunto l’oggetto “creato” che l’artista-agente produce con le sue mani o con il suo ingegno. All’origine c’è l’opposizione fondamentale fra soggetto e oggetto, fra chi fa e chi subisce, fra coscienza (persona) e cosa. È questo dualismo la posta in gioco quando si pone la questione filosofica dall’arte. In effetti il “problema” dell’arte non è mai quello del “significato’” o del “valore” di un’opera d’arte: niente è più noioso, e futile, di quelle verbose e inconcludenti “spiegazioni” di un’opera artistica. È evidente a tutti, infatti, che ogni spiegazione lascia insoddisfatti, e non perché non sia una buona spiegazione, ma proprio perché non è altro che una spiegazione. Sapere perché un certo musicista ha composto un quartetto d’archi, su quali musicisti si è formato, quali erano gli strumenti per cui l’aveva composto e chi erano i suoi committenti, è indispensabile per collocare quel quartetto nel suo contesto. Ma questo sapere – questa peraltro indispensabile comprensione storica – evidentemente non ha nulla a che fare con l’eventuale artisticità di quel quartetto.

Questa sensazione di inutilità vale anche per quel campo di studi oggi molto praticato – si tratta di quelle ricerche che applicano le tecniche e i risultati delle neuroscienze alla “mente” dell’artista e alle “opere” d’arte che realizza – che cerca di dare una spiegazione “scientifica” dell’arte. In questo caso l’insoddisfazione è doppia. Intanto queste spiegazioni non dicono nulla di specifico sul particolare oggetto artistico che provano a descrivere. Essere a conoscenza di quali aree del cervello sono coinvolte nella realizzazione di un determinato dipinto, e quali aree si attivano nel cervello di chi lo osserva da “spettatore” non aggiunge né toglie nulla all’esperienza di chi affettivamente ha a che fare con quel lavoro pittorico. Nessuno ha mai dubitato del fatto che uno scultore abbia bisogno di un cervello funzionante per scolpire una figura femminile. Detto questo, rimane che ciò che rende un certo oggetto qualcosa di “artistico” non dipende da quale area del cervello è attiva quando lo scultore ha cominciato a lavorarci.

La seconda, e maggiore, ragione di insoddisfazione legata a queste ricerche scientifiche, è il fatto che si applicano ad oggetti artistici per lo più conservati nei musei, e ufficialmente riconosciuti come artistici. In questo modo non dicono nulla di interessante sull’operazione artistica in sé, che solo marginalmente ha a che fare con l’arte così come viene definita dagli storici dell’arte e dagli stessi artisti. È “facile” entrare in un museo, prendere un quadro da secoli riconosciuto come un’opera d’arte, e cercare di descriverla con gli strumenti della ricerca neuroscientifica. Ma in questo modo si lavora sull’arte riconosciuta, sull’arte per tanti versi già spenta e addomesticata, non sull’arte diffusa e quotidiana, sull’arte che non ha niente di “artistico” e che tuttavia si intrufola in ogni momento nelle nostre esistenze. Perché l’arte è importante non perché sta nell’artista, nei musei o nei libri di storia, al contrario, perché preme per entrare nelle nostre vite reali. Il problema non è quello che succede nel cervello di un “artista” ufficialmente riconosciuto come tale, quanto piuttosto: come mai nella vita umana si può aprire lo spazio per l’esperienza dell’arte?

Si vede così che la questione interessante non è che cosa trasforma un certo “oggetto” in un’entità artistica, cioè quale sarebbe il misterioso componente “creativo” che l’artista aggiungerebbe al materiale su cui lavora, bensì perché nella vita umana non può non porsi, in un qualunque modo (che il più delle volte non ha niente a che fare con l’arte delle mostre, dei musei e degli artisti), l’esigenza di un’esperienza che interrompa la continuità percettiva e cognitiva della vita umana. Il problema dell’arte non è quello dell’arte, bensì quello della vita degli esseri umani. D’accordo, si dirà, il problema è quello dell’arte vivente, ma in che senso questo è un problema filosofico, e non “semplicemente” artistico? Perché il problema di come “interrompere” il flusso ottuso della vita quotidiana è particolarmente pressante oggi nel tempo della continua e ininterrotta messa al lavoro della vita umana.

Quando si parla di “biopolitica”, cioè del potere sulla vita, si parla proprio di questo controllo che non cessa mai. Un controllo che prevede che la vita sia sempre in servizio, vigile, concentrata su una meta, pronta a rispondere alle richieste del mercato del lavoro o del tempo dello “svago”. In ogni caso la vita è sotto il controllo del soggetto, che tratta il corpo come il primo e principale oggetto al suo servizio. È questo dualismo fondamentale, Homo sapiens non è altro che questo dualismo, che l’arte disattiva. Perché l’arte non produce opere, al contrario, smonta il bisogno di produrne. In questo senso l’arte può essere rivoluzionaria, e non perché rappresenti contenuti rivoluzionari – come il popolo nel realismo socialista – quanto piuttosto perché interrompe il dispositivo dualistico che sempre di nuovo pone la vita al servizio dell’utile e del calcolo.

Si apre così una possibilità del tutto diversa di intendere il rapporto fra arte e scienza. È l’idea alla base del bellissimo libro di Marco Senaldi Duchamp. La scienza dell’arte (Meltemi 2019) che esplora, con un livello di dettaglio documentario e di approfondimento teorico affatto inconsueti, il lavoro “artistico” di Marcel Duchamp a partire proprio dalla sue fonti scientifiche, cioè dagli studi sulla psicologia della percezione e del cinema fra fine ’800 e primi decenni del ’900. Non si tratta allora di fare scienza dell’arte, bensì di fare dell’arte una operazione scientifica, più propriamente una “sperimentazione estetica (Senaldi 2019, p. 163). Scienza vuol dire esperimento, cioè la costruzione di una situazione artificiale in cui il mondo stesso viene messo alla prova, viene cioè messo in dubbio: similmente l’esperimento artistico mette alla prova l’esperienza quotidiana e scontata del mondo. L’arte, in quanto esperimento, revoca in dubbio da un lato la banalità “borghese” del mondo (quella appunto che relega l’arte negli spazi innocui dei musei e degli studi degli artisti), dall’altro la banalità del soggetto sicuro di sé e della propria capacità di comprenderlo.

Si pensi al celeberrimo orinatoio che si sarebbe dovuto esporre a New York nel 1917: propriamente «Fountain è un test in cui a essere “collaudati” sono sia l’autore (l’artista, che scompare sotto uno pseudonimo e che non esercita più un lavoro “manuale facile”) sia lo spettatore, che si confronta con i limiti della propria capacità di integrazione percettiva e simbolica» (ivi, p. 429). In questo senso l’orinatoio non è in nessun senso una “opera d’arte”, tantomeno la “creazione” di un genio artistico. Si tratta piuttosto di una operazione che vuole semmai smontare tanto il bisogno di un’opera quanto quello di un creatore: l’orinatoio destituisce così il dualismo soggetto/oggetto. Si tratta infatti di un test che da un lato mette a nudo la fatticità non soggettiva del mondo, dall’altro mette in scena la parzialità prospettica di ogni percezione, che in questo modo si scopre come nient’altro che un possibile sguardo sul mondo. Cade così l’oggetto come altro dal soggetto, ma cade anche il soggetto come legislatore dell’oggetto, che riacquista così la sua completa autonomia.

Appare così che l’operazione di Duchamp non è – come poi è finito per accadere anche a lui una volta riassorbito nel sistema dell’arte, cioè dei musei e delle mostre – qualcosa che abbia a che fare con l’arte; Duchamp ha piuttosto cercato per tutta la vita di disattivare quella che chiamava “arte retinica” (ivi, p. 147), cioè quell’arte che addormenta la percezione e che rende innocuo ogni atto percettivo. Al contrario, «nelle opere di Duchamp qualunque cosa è effettivamente diversa – non da qualcos’altro, ma da sé stessa» (ivi, p. 51). Esiste un solo modo, in effetti, per insinuare un dubbio nel soggetto, che fa della propria ottusità la propria caratteristica distintiva: mostrargli come quello che vede non rientra in nessuna delle categorie in cui è inconsciamente abituato a collocarlo. Ecco che, allora, l’orinatoio non è più un oggetto funzionale, ma nemmeno un oggetto artistico.

Che cos’è allora? Evidentemente quello che conta non è la risposta che si può dare a questa domanda, mentre invece quello che è rilevante è riuscire a sostare in quella stessa indecisione, in quel «punto di indifferenza» (ivi, p. 70) dove collassa la distinzione metafisica fra soggetto (cioè la domanda “che cosa sto vedendo?”) e oggetto (è un “orinatoio” o una “opera d’arte”?). In questa prospettiva il ready-made perde la rigidità funebre che acquistano invece le opere d’arte una volta “sepolte” nei musei: al contrario, «tutti i ready-made» si mostrano come «immagini ideomotrici, in grado di muovere le nostre facoltà, di riattivare la nostra memoria, di catturare la nostra attenzione, di accendere la nostra immaginazione o suscitare il nostro desiderio» (ivi, p. 103). Torna qui in primo piano l’ispirazione “scientifica” del lavoro “artistico” di Duchamp, che Senaldi mette in luce attraverso una ricostruzione meticolosa di tutte le possibili fonti filosofiche, psicologiche e scientifiche, che direttamente o indirettamente sono confluite nei suoi lavori:

Duchamp non usa le scoperte della psicologia della percezione per produrre “dipinti” con tecniche tratte dalla psicofisiologia, ma ancorati al valore della “rappresentazione” tradizionale; egli usa i dispositivi o le pratiche di “laboratorio” direttamente come un’opera d’arte e, di conseguenza, trasforma la nozione di “opera d’arte” da “oggetto contemplativo” immobile a test dinamico e “ideo-motorio”. Questo gesto radicale sovverte anche il senso generale dell’Arte, trasformandola da attività individualista dedita alla ricerca della bella forma, a un “esperimento psicologico” intersoggettivo il cui scopo è la liberazione da ogni stereotipo visuale, e anche esistenziale (ivi, pp. 23-24).

Al contrario, la cosiddetta “arte retinica” fissa il movimento in una immagine o una forma statica (in questo senso anche un film può essere immobile, cioè inoffensivo e conformista), cioè in qualcosa di tranquillo e sereno, in un oggetto “bello” che non crea disagio né agitazione: un’arte del genere è innocua, cioè semplicemente non è più arte. Si tratta invece, per Duchamp, di mettere in evidenza «l’estrema inquietudine ontologica» (ivi, p. 109) tanto delle cose quanto di colui che le osserva. Mettere in crisi il mondo, ma non per guadagnarne una superiore visione armonica ed omeostatica, al contrario, per sempre di nuovo ricordarsi della estraneità del mondo, e del soggetto a sé stesso. In questo senso ogni ready-made è per definizione «indecidibile» (ivi, p. 119), cioè inassegnabile e inclassificabile.

Un’arte del genere, senza opera né artista, è un’arte libera in senso radicale, è anzi l’unica possibile esperienza di libertà che possiamo fare, perché libera da ogni nostra decisione, calcolo e spiegazione: «è un frammento di libertà allo stato puro» (ivi, p. 146). Il gesto di Duchamp, su questo punto ruota tutto il libro di Senaldi, «È (dis)ontologico: le cose e le loro immagini, sdoppiandosi, si “dis-identificano” da sé stesse. […] Riuscire a “stordire” la visione – questo è il compito dell’arte moderna» (ivi, p. 435).

Non si tratta allora di stupire, o commuovere, si tratta invece di mettere in mostra attraverso il gesto impersonale (senza autore) del ready-made il carattere parziale di ogni sguardo sul mondo, di ogni atto percettivo come di ogni nominazione. Si tratta di mettere in crisi la pienezza compiaciuta e borghese del soggetto, la sua sicurezza presuntuosa, mostrando allo stesso tempo la sua radicale mancanza di immaginazione (come in Rrose Sélavy, l’alter ego femminile di Duchamp). Per pensare un mondo, e una vita diverse, occorre invece vedere la propria visione, e così scoprirne la parzialità e l’arbitrarietà che la contraddistinguono.

In questo senso l’arte di Duchamp non ha nulla, propriamente, di artistico, e semmai è un’arte radicalmente politica. In un doppio senso: perché rende possibile immaginare l’inimmaginabile da un lato; e offre a tutti un’occasione di “stordimento”, cioè di libertà: i lavori di Duchamp, infatti, «finiscono per delocalizzare definitivamente non tanto il “luogo di godimento” dell’opera […], ma anche il suo senso: non il luogo né l’oggetto sono il centro della fruizione estetica, ma la fruizione come tale, nel momento in cui avviene. E questo momento o istante privilegiato è, d’altra parte, a disposizione di chiunque, dovunque e ogni volta che lo desidera» (ivi, p. 310).

Il ready-made accade tutte le volte che il nostro sguardo è contemporaneamente «aperto e chiuso, dinamico e statico, plastico e rigido, mentale e visuale, evolutivo e meccanico, prefabbricato e creativo» (ivi, pp. 98-99). In quello spazio indecidibile l’arte smette di essere semplicemente artistica, e coincide finalmente con la vita. Una vita molto poco umana, se la vita umana è quella del lavoro e della produzione, del fare e del calcolare, mentre il ready-made non è altro che la disattivazione della distinzione fra lavoro salariato e tempo libero, cioè fra necessità e libertà. Fare della propria stessa esistenza un ready-made sempre di nuovo sorprendente e banale, divertente e noioso.

Quello che conta è riuscire ad abitare quello spazio di indecisione in cui l’orinatoio non è più un orinatoio, ma non è ancora un oggetto artistico (cioè museale). Una esistenza del genere infine «imita il gioco» perché è una «vita [che] nel suo insieme […] è divenuta estetica» (ivi, p. 555). Come disse una volta lo stesso Duchamp in una intervista, «se proprio volete, la mia arte sarebbe quella di vivere: ogni secondo, ogni respiro è un’opera che non viene registrata da nessuna parte, che non è né visiva né cerebrale. È una sorta di euforia costante» (ivi, p. 592).

Riferimenti bibliografici
M. Senaldi, Duchamp. La scienza dell’arte, Meltemi, Sesto San Giovanni 2019.

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