In un piccolo paesino georgiano, Lisa, giovane fotografa, da un giorno all’altro scompare nel nulla. Tutto ciò che lascia è una lettera indirizzata ai genitori in cui comunica la scelta di voler far perdere le proprie tracce. Preoccupato, Irakli – interpretato dal padre del regista e già apparso nel lungometraggio precedente, What Do We See When We Look at the Sky? – parte allora per un viaggio nell’entroterra della Georgia alla ricerca della figlia, seguendo una vaga traiettoria basata su alcuni piccoli campi da calcio che ultimamente la donna stava fotografando per il paese.

È attorno a questo pretesto narrativo da road movie che Alexandre Koberidze costruisce il suo ultimo film – presentato in concorso alla 78ª edizione del Locarno Film Festival –, che fin da principio si colloca nella catena del cinema moderno, a cominciare dall’intenzione di rifiutare in modo programmatico ogni senso di appagamento conseguente alla detection. Così come in L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni e più di recente in Essential Truths of the Lake (2023) di Lav Diaz, in Dry Leaf (2025) la ricerca da parte del protagonista di una giovane ragazza svanita in circostante inspiegabili, o inspiegate, non conduce soltanto a un paradossale allontanamento dall’oggetto del desiderio, che appare sempre più irraggiungibile e sfuggente con il passare del tempo, ma anche a una perdita della ragione stessa del viaggio di cui siamo testimoni. Di fronte agli occhi dello spettatore l’avventura intrapresa dall’uomo scivola in maniera inesorabile in un girovagare senza meta per gli spazi che (forse) Lisa ha abitato, alimentando la sensazione di spaesamento che permane per tutta l’opera.

Il percorso affrontato dal padre diventa così una “non ricerca”perché finalizzata esclusivamente a sé stessa. Una rappresentazione di quella tensione verso l’ignoto che muove gli esseri umani risvegliandoli dal torpore, di quel desiderio di indagare e sciogliere i misteri che si celano dietro la superficie quotidiana, che per necessità narrativa nelle tre opere menzionate prima si concretizza nella figura, o meglio nello spettro, di una donna (figlia per Koberidze, vittima per Diaz, amante per Antonioni). Dietro al tentativo di Irakli parrebbe celarsi in altri termini una ben più profonda e intrinseca volontà di perseguire l’idea stessa di trovare la figlia, che non di rinvenirla davvero. Difatti, il ruolo ricoperto dal personaggio femminile (Lisa, Esmeralda e in parte Anna) risulta essere quello di un’altrettanta “non figura”, capace di esistere nel mondo fenomenico come nome, come obiettivo o idea a cui tendere, ma non come corpo dotato di concretezza, come tangibile e fisico punto di arrivo dell’indagine.

Seguendo tale prospettiva, non è un caso che nel suo peregrinare il protagonista venga accompagnato da Levani, amico della figlia la cui presenza è percepibile solo grazie alla voce, essendo dotato di un corpo invisibile sia all’occhio umano che della camera. Fa così irruzione nel tessuto narrativo di Dry Leaf un personaggio contrapposto e complementare a Lisa, a cui viene affidato il compito di suggerire come nella realtà del film il regime del visibile e dell’invisibile siano collocati sul medesimo piano. In modo simile ad Antonioni, anche il cinema di Koberidze presenta infatti uno sguardo che «non va rintracciato solamente nella sua visibilità, nella sua concretezza in quanto immagine, ma si sviluppa in una metafisica del visivo che ne potenzia l’efficacia e ne rompe i confini. Lo sguardo, quindi, non si arresta in ciò che vede nello schermo, ma continua la propria traiettoria per raggiungere immagini invisibili» (Usardi 2018, p. 146).

L’identità di Dry Leaf risulta frutto dell’unione delle esperienze maturate dall’autore nelle opere precedenti, sperimentando un nuovo grado di radicalità. Dal suo esordio, Let the Summer Never Come Again (2017), Koberidze sceglie di recuperare l’idea di una fotografia sporca, realizzata con un vecchio telefono cellulare e perciò contraddistinta da una qualità dell’immagine estremamente bassa, sgranata, poco definita. Mentre dal secondo lungometraggio, What Do We See When We Look at the Sky? (2021) – un film più pulito, armonioso, dall’estetica elegante, capace di bellissime inquadrature che a tratti rievocano alla memoria alcune opere di Sergej Paradžanov, da Gli affreschi di Kiev (1966) ad Arabeschi sul tema Pirosmani (1985) –, ritorna con forza la centralità del realismo magico e l’attenzione rigorosa per i piccoli gesti, per i movimenti impercettibili, per i dettagli di mani, volti, piante, animali e per tutti quei particolari che caratterizzano gli ambienti bucolici attraversati da Irakli, come le foglie secche mosse dal vento.

Fatta eccezione che per Levani, la dimensione dell’invisibile, del trascendentale, del magico è messa in scena grazie all’aspetto estetico-formale, sfruttando appieno le potenzialità espressive del dispositivo impiegato. Se in What Do We See When We Look at the Sky questa dimensione è forzata a emergere attraverso differenti strategie (voce narrante, scritte su schermo, elementi diegetici di vario tipo) che veicolano lo sguardo dello spettatore verso una direzione ben precisa – quella del magico –, ora invece il tutto si esaurisce in semplici immagini registrate con un Sony Ericsson W595, che senza grosse manipolazioni trasfigura il referente aprendo a una rinnovata e «piena espressione della soggettività» (Denvir 1992, p. 34) che sconfessa «la comune percezione del reale, minando alla base i tradizionali concetti di materia e forma» (Ibidem). Al pari dei dipinti riconducibili all’impressionismo – con cui il regista condivide persino l’ossessione per i paesaggi naturali – le immagini di Dry Leaf non sembrano voler imitare la natura bensì mostrarsi come vibrazioni luminose, con le pennellate rapide e frammentate che si traducono nei grezzi e sgranati pixel delle riprese in low quality.

Si tratta di un tipo di rappresentazione della realtà materiale che, regredendo quasi a pura luce – ovvero il grado zero dell’immagine cinematografica –, restituisce l’impressione di giungere a un livello di astrazione che di rado ha occupato il grande schermo, se non nel cinema sperimentale di Stan Brakhage. In maniera non troppo dissimile dal posacenere di vetro di The Text of Light (1974), che abbandona le sue proprietà formali per elevarsi a puro bagliore, accedendo così a una sorta di stadio più profondo della realtà, anche le immagini di Koberidze spesso sembrano perdere la loro immediata riconoscibilità trasfigurandosi in altro. Del resto, come esprime il titolo del suo ultimo cortometraggio: The More I Zoom in on the Image of These Dogs, The Clearer it Becomes That They Are Related to the Stars (2023).

Proprio in questo approccio che lega indissolubilmente forma, estetica e contenuto risiede il (realismo) magico di Dry Leaf. Nei singoli pixel che compongono le immagini dell’avventura di Irakli, in quegli istanti in cui la percezione che abbiamo dell’acqua che cola su un finestrino, di un uomo che esce da un bosco o di una panoramica su un campo di fiori ci suggerisce di star guardando più in profondità della superficie. Un anti-iperrealismo che, in un certo senso, riesce a raggiungere comunque lo stesso esisto baudrillardiano: una rappresentazione più vera del vero, più reale del reale – seppur nella sua deformità. L’invisibile (il fantastico) in sostanza ci circonda, occorre soltanto trovare il modo per accedervi e ricordarsi che «per cercare delle realtà visuali umane l’uomo deve […] trascendere le restrizioni fisiche originarie ed ereditare mondi negli occhi» (Brakhage 1970, p. 61).

Riferimenti bibliografici
S. Brakhage, Metafore della visione e Manuale per riprendere e ridare i film, Feltrinelli, Milano 1970.
B. Denvir, Impressionismo, Giunti, Firenze 1992.
S. Usardi, La realtà attraverso lo sguardo di Michelangelo Antonioni. Residui filmici, Mimesis, Milano-Udine 2018.

Dry Leaf. Regia: Alexandre Koberidze; sceneggiatura: Alexandre Koberidzeo; fotografia: Alexandre Koberidze; musiche: Giorgi Koberidze; interpreti: David Koberidze, Irina Chelidze, Giorgi Bochorishvili, Otar Nijaradze, Vakhtang Panchulidze; produzione: New Matter Films; origine: Germania, Georgia; durata: 186’; anno: 2025.

Share