Antonio è un siciliano emigrato nel Nord Europa dove lavora come cameriere. Non volendo partecipare alla faticosa scalata del successo lavorativo e monetario promessa dal suo datore di lavoro, e scandita dall’equazione tutta capitalistica tra abnegazione e competizione, Antonio abbandona il suo lavoro tentando di trovare un nuovo modo di esistere. Decide di seguire e inseguire i segni del passato, contro la precarietà di un presente che oscura la possibilità di creare una prospettiva futura. Nella sua ricerca di un tempo perduto, Antonio ritrova un tempo altro, un nuovo modo di vivere il tempo.
Nel suo primo lungometraggio, Drive Me Home, Simone Catania spoglia le due icone della serialità italiana, il Freddo (Vinicio Marchioni) di Romanzo criminale, e Ciro (Marco D’Amore) di Gomorra, delle loro “identità seriali”, per consegnarli alla pura potenza di immagini cinematografiche.
Dopo aver abbandonato il suo lavoro, Antonio parte alla ricerca del suo grande amico d’infanzia, Agostino. Quindici anni dividono i due protagonisti le cui vite si trovano, inevitabilmente, cambiate: mentre Agostino trova una casa (paradossalmente) stabile sul mezzo che gli permette di lavorare tra l’Italia e il Nord Europa, un camion di nome “Vulcano”, dove risuona la sua terra d’origine, la Sicilia, Antonio, dopo aver perso la sua (ancora paradossale) casa precaria nel Nord Europa, inizia a vagare per le capitali nordeuropee, adattandosi allo European way of life, in cui solo il precariato sembra essere ancora l’unica scelta (imposta). Le esistenze di entrambi sono nomadiche, ma mentre il nomadismo di Agostino è paradossalmente stabile, quello di Antonio si rivela instabile e inappagabile: vaga senza cercare, ma tentando di trovare un nuovo posto da poter chiamare “casa”, lontano dalla Sicilia.
I quindici anni, incolmabili, che dividono i due protagonisti dal passato comune nel piccolo paese di campagna, Blufi, in provincia di Palermo, si rivelano il punto di partenza attraverso cui creare una nuova alleanza che possa fare fronte ai disastri del presente. Agostino, infatti, è un segno del passato che ritorna nella vita di Antonio e che favorisce una nuova presa di posizione sul presente.
Per quanto Drive Me Home, nel racconto dell’instabilità delle esistenze e degli incontri fugaci e rocamboleschi che scandiscono il viaggio che i due protagonisti intraprendono casualmente, sia un esplicito richiamo al genere newhollywoodiano road movie che il film sembra omaggiare a cinquant’anni dall’uscita di Easy Rider di Dennis Hopper, Drive Me Home, più che abbandonarsi a quell’avventura dei luoghi che caratterizza i road movies, si imbatte in un’avventura del tempo.
Drive Me Home sfugge alla eroizzazione degli emarginati tipica di un film come Easy Rider (Bonitzer, 1976): non c’è alcun destino ineluttabile o una teleologia di fondo tesa a condurre all’esplosione di un evento che sconvolga la narrazione, ma che, così facendo, confermi una narrazione mitico-tragica. Perché nella struttura narrativa di Drive Me home, anche gli incontri fugaci dei due protagonisti sono tesi alla creazione di una realtà altra: né, dunque, la ristabilizzazione di una situazione iniziale che un evento ha sconvolto, né tanto meno (e qui Drive Me Home tradisce, forse inconsapevolmente, il genere road movie) presenta la messa in scena di una catastrofe “mitica”: anche il cliché narrativo del camion guasto e del meccanico che si incontra fatalmente sulla via, sembra essere tradito.
Lo pseudo-meccanico che si incontra per strada, in Drive Me Home, è un contadino che, ospitale con i due sventurati, risveglia la memoria di Antonio. Dopo la permanenza nella fattoria del contadino e l’incontro con la piccola comunità di allevatori lì residenti, Antonio non ha dubbi: deve accogliere le forze del passato che illuminano il suo presente e, così facendo, tornare nella piccola campagna di Blufi per creare, tra le rovine della sua casa d’infanzia, una nuova cartografia del presente, attraverso cui ricercare nuove possibilità di esistenza.
La narrazione di Drive Me Home è una modulazione molecolare del tempo e la memoria involontaria, che guida i personaggi, è sollecitata da segni sensibili (Deleuze 2001): quando Antonio, alla fine del film, torna nella sua casa di Blufi, ritrova la fascia per capelli della madre e, odorandola, vede emergere un’immagine del passato che impone una nuova presa di posizione nel presente.
Se Agostino conferma il suo nomadismo stabilizzato in un camion, che lo conduce in giro per l’Europa, Antonio torna in Sicilia. Lontano dalle febbrili luci a led dei non-luoghi attraversati dai due amici in viaggio, la luce della campagna siciliana ritrovata da Antonio, che caratterizza le immagini dei rimossi d’infanzia nella casa di Blufi, è la componente materiale privilegiata delle immagini di Drive Me Home: segno di un tempo ritrovato, di una nuova mimesis (Pinotti 2018) con il mondo e di una realtà reinventata attraverso l’emergere di forze del passato.
Riferimenti bibliografici
AA. VV., Costellazioni. Le parole di Walter Benjamin, a cura di A. Pinotti, Einaudi, Torino 2018.
P. Bonitzer, Lignes et voies (Macadam à deux voies), in “Cahiers du cinéma”, n. 266-267, maggio 1976.
G. Deleuze, Marcel Proust e i segni, Einaudi, Torino 2001.