Il lavoro di Antonio Gramsci come critico teatrale per l’Avanti tra il 1915 e il 1920 (recentemente riproposto da Mimesis con la pubblicazione dell’antologia di articoli, critiche e recensioni Il teatro lancia bombe nei cervelli, a cura di Fabio Francione), per lungo tempo considerato un’esperienza giovanile e marginale all’interno dell’imponente bibliografia gramsciana, rappresenta in realtà un importante contributo alla riflessione culturologica del primo Novecento, non unicamente italiano. Un momento «necessario e costitutivo, e destinato ad essere immediatamente trasceso, della sua ampia missione politica», come lo ebbe a definire Edoardo Sanguineti ne Il chierico organico, e questo non solo perché in esso è già visibile quel “Ritorno al De Sanctis” che caratterizzerà una parte importante della sua produzione più matura – a cominciare da una concezione della critica quale strumento di analisi delle contraddizioni storico-culturali che l’opera d’arte è in grado di tradurre su un piano estetico –, quanto perché da esso emerge uno snodo fondamentale nell’evoluzione storica della forma teatrale moderna che sarà in grado di ridefinire l’intero sviluppo dell’estetica novecentesca, e che condurrà fino al presente.

Nella critica alle opere di Pirandello, Wilde, Ibsen, ecc., che passano in quegli anni all’Alfieri o al Carignano di Torino, Gramsci identifica, come aveva fatto pochi anni prima Lukács ne Il dramma moderno (1911), e come farà poi Szondi in Teoria del dramma moderno (1957), c’è il punto di arrivo della modernità teatrale, che trova il suo più chiaro esito formale nell’avvenuta separazione tra “dramma” e “teatro”. Se per Gramsci è già dai tempi di Shakespeare, apice ed esperienza fondativa del moderno, che il dramma rappresenta il regime in cui si consuma l’autentica creazione poetica, ovvero la drammatizzazione della vita «nella cerchia delle parole», il teatro è invece spesso solo uno spazio inautentico, dove «la suggestione di vita», che «non ha bisogno della concretizzazione scenica per trarci nel suo cerchio fatale», invece di materializzare direttamente se stessa sul palcoscenico (secondo quel principio che di lì a poco porterà alle rivoluzioni teatrali moderniste), risponde esclusivamente «a tutto ciò che è convenzione, mezzo, costrizione violenta, adattamento alle esigenze dell’ora e delle possibilità interpretative».

Questa posizione che Gramsci compendia nelle sue recensioni, che potrebbe essere immediatamente tacciata di “antiteatralità” vetero-moderna, si muove in realtà interamente dentro il solco della riflessione sulle aporie della modernità teatrale proposta da Lukács, e che verrà sviluppata in seguito da Szondi, fino ad arrivare all’ultima rilettura del Novecento offerta da Lehmann nel suo Il teatro postdrammatico. Alla radice della separazione tra dramma e teatro, secondo Lukács, sta il fatto che il dramma borghese tardo-ottocentesco è la prima forma di scrittura a non discendere da una coscienza mistica.

Nelle società industriali, che muovono dai processi di razionalizzazione della modernità seicentesca e shakespeariana, la progressiva scomparsa del mistico tipica del mondo greco e cristiano ha portato alla crisi della ritualità dell’esperienza teatrale, poiché la razionalizzazione e l’alienazione che si producono nella vita industriale impediscono all’uomo di manifestare la propria personalità attraverso le azioni (come già accadeva nel personaggio archetipico di Amleto). Non coincidendo più interiorità e esteriorità, il dramma diviene la rappresentazione di conflitti irrisolti che non trovano più forma nella sua struttura dialogica tradizionale: le azioni tendono a frammentarsi e il personaggio, «vittima» di una interiorità non più oggettivatile attraverso l’azione, cessa di essere colui che «agisce» per diventare colui che «patisce».

In altre parole, la crisi coincide con uno scollamento nell’uomo moderno tra l’ideale e l’oggettuale, il pensiero e la prassi, al punto che le forme rappresentative dell’umano quali il teatro e il dramma, non trovando più un punto di coincidenza o di consequenzialità (come nel mondo greco), tendono a autonomizzarsi. Questo è quello che per Gramsci accade, per esempio, in alcune opere di Pirandello, che sono delle «parabole» filosofiche che, in modo critico e problematico, possono quasi fare a meno del teatro, ovvero dell’azione (mancando a volte esse stesse di quella «complessa rievocazione di intuizioni interiori profonde di sentimento che conducano a uno scontro, a una lotta, che si snodino in una azione», scrive Gramsci).

E questo è anche ciò che accade nel «cinematografo», che da Gramsci è invece inteso come il medium che ha sostituito il teatro “senza dramma”, in cui la rappresentazione dell’agire fenomenico dell’uomo contemporaneo nella vita metropolitana prende forma senza alcuna idealità, come nel caso del teatro «volgare» o di puro intrattenimento. Nessuno può negare, scrive Gramsci, che «la film abbia per questo lato una superiorità schiacciante sul palcoscenico», essendo «più completa, più varia», e soprattutto essendo «muta» (siamo nel 1916), riconsegnando cioè un puro movimento meccanico «senza anima».

Ora, se è vero che Gramsci riflette all’alba di quel secolo che ha inteso «il teatro come arte», come scrive Alain Badiou ne Il secolo, che cioè proprio facendosi carico di questa autonomizzazione del teatro rispetto al dramma ha cercato di lavorare sulla sua dimensione “autenticamente” artistica, indubbiamente la sua esperienza di critico ci riconsegna una testimonianza cruciale di un periodo storico in cui si sono consumati i grandi cambiamenti che hanno attraversato le avanguardie e neo-avanguardie novecentesche, fino ad arrivare al teatro post-drammatico contemporaneo.

Questa frattura tra dramma e teatro, che si inserisce nella rottura tra forme ideali e materiali dell’umano nella tarda modernità industriale (su cui avevano ragionato in molti prima di lui), è necessariamente per Gramsci l’esito di un percorso più ampio che da un lato ha visto emergere la crisi profonda delle prassi ideali dell’uomo, incapaci di prendere corpo in categorie del pensiero ormai disarticolate e alla ricerca di rinnovati orizzonti di senso (in questa direzione va inteso, per esempio, il suo successivo interesse per le avanguardie e in particolare il Futurismo); mentre dall’altro, ha assistito a una progressiva emancipazione delle pratiche materiali da quello che è divenuto l’ingombrante e denaturalizzante fardello del discorso ideale.

Esattamente come il materialismo di Marx, liberando l’uomo dai vincoli dogmatici del pensiero, senza il contestuale recupero della sua matrice idealistica e hegeliana è caduto in quella deriva positivistica tanto osteggiata da Gramsci, così il teatro, liberandosi dal dramma, ha avuto sì l’opportunità storica di affermarsi in quanto arte, ma il suo farsi carico astrattamente dell’orizzonte puro dell’azione non gli ha permesso di intendere quest’ultima come una mediazione incessante tra idealità e prassi.

Ecco che le critiche teatrali confermano l’orizzonte profondamente idealistico dell’intero percorso gramsciano, che nonostante le critiche allo storicismo di Croce e i tentativi di smarcamento in nome di una filosofia della prassi, ha inteso quest’ultima come punto di convergenza tra piano materiale ed etico, di cui l’arte teatrale era e rimane una straordinaria metafora. Uno spazio, quello della scena, scrive Gramsci, in grado di «suscitare immagini viventi, con tutta la loro concretezza storica di espressione», in cui il piano etico e morale è capace di trasformarsi in quello concreto della vita.

Quello che mancherà nella considerazione di Gramsci sul primato etico e concreto dell’azione rispetto alle altre dimensioni dell’umano – osteggiato tanto dalla vacuità astratta di una speculazione priva di ancoraggi alla singolarità materiale dell’azione, quanto da un’autonomizzazione della singolarità materiale dell’azione stessa rispetto alla sua eccedenza universale, di cui la pratica teatrale fornisce una perfetta esemplificazione – è, negli anni successivi, il riconoscimento del cinema quale possibile e futuro veicolo di una sua possibile rappresentazione e riconfigurazione. Nei Quaderni del 1934 infatti il cinema continuerà ad essere sottomesso al regime meramente astratto, «cosmopolitico» e «melodrammatico» dell’immagine, incapace dunque di riconsegnare una rinnovata etica ed estetica dell’azione.

Oggi, a distanza di un secolo, sappiamo che si tratta dell’unico neo di una visione che aveva altrimenti già previsto il suo futuro e il nostro presente.

Riferimenti bibliografici
A. Gramsci, Il teatro lancia bombe nei cervelli, a cura di F. Francione, Mimesis, Milano 2017.
H.-T. Lehmann, Il teatro postdrammatico, Cue Press, Imola-Bologna 2017.
G. Lukács, Il dramma moderno, SugarCo edizioni, Milano 1976.
P. Szondi, Teoria del dramma moderno (1880-1950), Einaudi, Torino 2000.

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