il tempo dell'attesa

È un film sul tempo Dragged Across Concrete di S. Craig Zahler. Sul tempo dell’attesa. L’attesa di un’azione mancata oppure troppo rapida. Sempre sfuggente. Come l’attesa di una risposta a una domanda di matrimonio che non si celebrerà mai o quella di riabbracciare un figlio lasciato a casa per andare a lavorare.

Zahler lavora sul tempo in modi diversi. Lo dilata, nelle lunghe pause in cui i due poliziotti protagonisti, il “vecchio” Brett Ridgeman (Mel Gibson) e il giovane Tony Lurasetti (Vince Vaughn), sospesi dal servizio, e privati dello stipendio, perché filmati di nascosto mentre arrestano con metodi bruschi uno spacciatore latino-americano (“Sopravviverete – dice loro il capo, il tenete Clavert/Don Johnson – sarà però meglio smettere di parlare di aumenti o promozioni”), studiano i movimenti di un gruppo di criminali intenzionati a rapinare una banca con l’intento di rapinarli a loro volta. Oppure, lo accelera, arrivando fino allo splatter, come quando si recupera una chiave nello stomaco del rapinatore che l’ha inghiottita prima di morire. Oppure ancora, procede per digressioni, prendendosi una pausa dalla vicenda principale. Come quando Tony, durante un appostamento, mangia un sandwich per troppo tempo e il suo compagno soffre a sentirlo.

Ma soprattutto come accade nella parte dedicata al personaggio di Kelly (Jennifer Carpenter). È alla fermata di un autobus che la vediamo per la prima volta, dopo metà film. Kelly è turbata. Dovrebbe essere di nuovo al lavoro in banca dopo la gravidanza ma non riesce a separarsi dal figlio. Ha bisogno del suo contatto. Ritorna sui suoi passi ed è ancora davanti alla porta di casa. Qui, dalla fessura della porta, in uno struggente dialogo con il marito (che cerca di convincerla a riprendere la sua quotidianità), si avvicina al figlio in braccio a quest’ultimo, gli tocca il piede, lo bacia, nell’attesa di riabbracciarlo alla fine della giornata. Non incontreremo più però Kelly, che irrompe nella storia, lascia un segno e nel giro di poche sequenze scompare.

Questo blocco narrativo è esemplare dell’operazione compiuta da Zahler, che utilizza i codici del genere (l’amicizia virile, la rapina, gli inseguimenti, lo scontro finale), per discostarsene appunto con continue digressioni e rallentamenti. È la logica d’azione del cinema di genere a essere ribaltata, il rapporto azione-reazione a essere intaccato (il lungo scontro finale, in cui al fuoco dell’uno non risponde immediata la reazione dell’altro). Un’operazione di svuotamento, ibridazione, dilatazione del genere che d’altra parte caratterizzava anche le sue due opere precedenti: il western/horror Bone Tomahawk (2015) e il carcerario Brawl in Cell Block 99 (2017).

Ma il tempo è anche quello depositato sul corpo e sui volti degli attori. Quello di Mel Gibson in particolare si presenta come la sopravvivenza di un cinema ormai fuori dal tempo, inattuale. Di un cinema che prende forma proprio nel momento in cui la macchina da presa si posiziona davanti al corpo dell’attore. Perché quello di Zahler, come quello di Michael Mann (verso cui questo film ha evidenti debiti), è un cinema umanista. Se non è l’azione in sé a contare è perché questa è superata a favore di una dimensione riflessiva, che trasforma i personaggi in spettatori (è così che sono continuamente mostrati nelle inquadrature che li riprendono frontalmente dietro il cruscotto della loro automobile nei lunghi appostamenti).

È il loro percorso esistenziale, sono i loro dilemmi morali ciò attorno cui si costruisce l’opera. Da una parte Brett, insoddisfatto per una vita sottopagata e piena di frustrazione (“trascinata nel cemento” secondo la traduzione letterale del titolo del film), stanco e disincantato nei confronti di una carriera in cui – come dice al tenente, suo ex compagno di pattuglia – “A 60 anni ho lo stesso grado di quando ne avevo 27”. E poi una vicenda familiare difficile: una figlia adolescente molestata dai ragazzi del quartiere e una moglie, ex poliziotta, afflitta da sclerosi. Sentimenti che lo spingono a cercare nella violenza una sorta di risarcimento per il “danno subito”. Dall’altra, il sarcasmo di Tony (“Non sono razzista. Per l’anniversario di Martin Luther King ordino sempre caffè nero”), con una famiglia ancora da costruire, con una fidanzata a cui non sa come fare la proposta di matrimonio.

Il lungo finale dello scontro con i rapinatori testimonia con grande forza tutto questo e si pone come perfetto microcosmo dell’intera opera. Qui l’inevitabile punto di congiunzione di quel montaggio alternato che costituisce l’ossatura del film e dà forma alla struttura classica dell’immagine-azione viene fatto deflagrare. I personaggi perdono i loro tratti riconoscibili (Brett e Tony e i rapinatori indossano delle maschere che nascondono interamente i loro volti e li rendono figure astratte, demoniche), l’azione procede a strappi. È ancora la dimensione temporale, malinconica, a dominare, come emerge dall’ultima battuta di Tony prima di morire colpito dalle pallottole dei rapinatori e dalla risposta negativa della fidanzata alla richiesta di matrimonio affidata a un messaggio alla segreteria del cellulare e che sintetizza un’intera vita: “Non voglio essere ricordato solo per questo errore”.

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