Narciso. Storia del selfie da Caravaggio a Kim Kardashian si staglia davanti al lettore, ancor prima di essere aperto, sfavillando, argenteo e compatto, protetto dalle ali traslucide in tipica foggia NERO. Sia davanti che dietro, il libro, come semplice oggetto ancora privo di contenuto, già ricorda al lettore quale sarà il suo primo e ultimo problema: «Sei tu». È il proprio riflesso la prima e l’ultima cosa che si vedrà aprendolo e chiudendolo.
Qualche anno fa, Matt Colquhoun curava l’edizione postuma delle ultime lezioni di Mark Fisher. La apriva una sua introduzione (di Colquhoun) che chiariva molto bene l’alternativa davanti a cui Fisher aveva lasciato a galleggiare i redivivi: «Una contro-libido opposta al desiderio capitalista – un desiderio postcapitalista» (Fisher 2022, p. 16). Non a caso, la parola chiave dell’introduzione è «accelerare», attorno alla quale Colquhoun dedica diverse pagine di disambiguazione, chiarendo bene cosa possa significare un «accelerazionismo di sinistra» (ivi, pp. 39-42). Un’alternativa al desiderio capitalista, quindi, e ugualmente alla regressione contro-libidinale: qui si innesta, potremmo dire, Narciso. Storia del selfie da Caravaggio a Kim Kardashian. Aperte le porte, conviene entrare.
Un manuale d’uso, una cassetta degli attrezzi, come piaceva dire a Deleuze (Deleuze 2022, p. 283), Narciso incomincia in verità a metà, al capitolo 15 per essere precisi. Il cuore del testo, dal punto di vista filosofico, sta ancora una volta in una dicotomia, un bivio ben noto: potentia e potestas, potere e potenza. Data la mancanza in inglese di una resa adeguata, come nota l’autore (Colquhoun 2024, p. 135), i due poli concettuali sono tradotti rispettivamente con «possesso» e «potenziale» e il loro rapporto escludente è presto chiarito: «Il potenziale è proiettato verso l’esterno, al di là di noi stessi e delle strutture che ci guidano; il possesso cerca di racchiudere quel potenziale all’interno di una struttura o di un’istituzione sovraordinata» (ibidem). È questa infondo l’essenza oscillante del Narciso di Colquhoun, non meramente il vanitoso belloccio tristemente schiavo del suo riflesso, fino agli abissi, ma la figura di «un’affermazione da parte dell’io della propria eccentricità, altrimenti soffocata da meccanismi di controllo sociale» (ivi, p. 217).
Si scontrano così due narcisismi, la «tensione tra un narcisismo trasformativo e uno oppressivo» «un narcisismo negativo entra in conflitto con la lettura più positiva dei suoi effetti» (ivi, 196). E se il primo riflesso è il proprio, nello specchio, è la società in cui ogni individualità è immersa, a essere la posta conseguente. Basti pensare alla centralità negli ultimi anni assunta dall’identity politics negli USA (ivi, pp. 31-39).
Perciò, il problema del narcisismo, della sua pervasività e attuale stigmatizzazione, è non solo la pietra angolare dell’epoca attuale nelle società iperindustrializzate occidentali, ma anche l’immediata ricaduta – esistenzialmente, la più profonda – dei rapporti storici tra potere e rappresentazione. Attraverso una ripresa della celebre critica delle società disciplinari offerta da Foucault (ivi, pp. 135-137), Colquhoun mostra come il narcisismo si trovi nel mezzo delle dinamiche di contrazione ed espansione di potere e potenza che plasmano la soggettività, in questo bipolarismo costitutivo tale per cui «il lato conservatore del narcisismo può manifestarsi in una repressione dell’io, nel momento in cui creiamo rappresentazioni di noi al solo fine di dimostrare la nostra capacità di conformarci ai regimi del vedere e dell’esser visti. Ma può anche annunciare il desiderio di superare la limitazione dell’io imposta da una civiltà repressiva» (ivi, p. 218).
Come liberarsi? La storia del selfie è in verità lunga e illustre, rileva l’autore. Basterebbe guardarsi allo specchio e «scopriremmo che le nostre moderne abitudini non sono poi così recenti. Anzi, sono rimaste in gran parte immutate fin dal Rinascimento» (ivi, p. 38). Così, la prima parte del libro (ivi, pp. 43-101) è dedicata a una ricostruzione, non sempre precisa ed esaustiva, dell’ascesa della nozione di “individuo” nella cultura occidentale, «invenzione recente» (Foucault 1978, p. 13), secondo la famosa sentenza foucaultiana, e di cui infatti anche Colquhoun come tanti altri rinviene il grembo germinale nell’avvio della cosiddetta «età moderna», e, seguendo in primis Husserl e Heidegger, paradigmaticamente nella filosofia di Descartes (Colquhoun 2024, p. 50). Eppure, proprio nell’estensione di uno spettro ormai talmente frequentato da parere quasi un canavaccio, Colquhoun compie una virata metodologica tutt’altro che scontata; sulla scorta di Susanna Berger, infatti non è tanto nella filosofia e nelle sue perle rare che vanno cercate le discontinuità canonizzanti nell’evoluzione dell’individualismo europeo.
È piuttosto nella pittura che bisogna cercare: infatti i ritratti «hanno avuto un ruolo cruciale nel plasmare molte nozioni filosofiche moderne, dal concetto di io a quello di Stato-nazione» (ivi, p. 66). Dürer (ivi, pp. 47-51), Caravaggio (ivi, pp. 53-60), sono i primi artefici dell’autorappresentazione. Testimoni, e a volte veicoli, dell’ascesa di una nuova organizzazione economico-politica tutta incentrata sull’individuo, proto-capitalistica, ricamata attorno a un’etica protestante, questi maestri dell’autoritratto inaugurano una stagione che li sorpasserà, sotterrandoli, nella direzione di una secolarizzazione immobilizzante dove «il ruolo dell’arte come fondamento della coscienza sociale – ovvero un’autocoscienza sia del proprio io che della propria classe – è continuamente minacciato, e la sua importanza circoscritta ai risultati immediati del lavoro individuale» (ivi, p. 95).
Dunque, ancora una volta: come liberarsi? La risposta di Colquhoun è canalizzata, ristretta al campo focale di un unico medium: la fotografia. È proprio «una storia queer della fotografia e del suo radicale rapporto con l’io» (ivi, p. 38) l’oggetto della seconda parte del suo testo. La fotografia, anzitutto, per la sua costitutiva ambivalenza, parallela e coessenziale a quella di Narciso. Essa infatti rappresenta tanto il piano d’appoggio per l’affermazione di una nuova idea di individualità, precisa, oggettiva, tecnicamente riproducibile, quanto, almeno come scommessa, l’«arma temporale nell’era capitalista, che può interrompere la falsa coerenza che ci viene imposta, aprendo a nuove forme di vita che possono emergere concretamente solo attraverso quegli atti di autoriflessione e mediazione che troppo spesso bolliamo come “narcisistici”» (ivi, p. 107). Una falsa coerenza alla quale la fotografia ci approssima, intensificando e modulando il nostro rapporto con la finitudine, o meglio, la morte. Non a caso, uno dei primi autoritratti fotografici di cui l’Ottocento porti testimonianza è proprio l’Autoritratto da annegato di Bayard, che immortala in un quantum di rappresentazione la morte del fotografo, la sua «soggettività spettrale» (ivi, p. 125) che ricorre davanti allo sguardo di spettatori che possono solo constatarne la permanenza falsata.
La morte dell’autore, per come tematizzata da grandi pensatori del Novecento (principalmente Bathes e Foucault), diviene nella persona del fotografo, il ricordo vivido, come un rintocco freddo ogni autunno, della transitorietà della vita; della sua incurante irrequietezza che pure dischiude la primavera dall’inverno: che fa nascere i narcisi dalla nuda terra, scura e umida. Sono infatti gli autori che meglio hanno indagato l’esperienza di tentennamento, di esitazione davanti al richiudimento, che Colquhoun cerca di fare oggetto di maggior attenzione. Friedlander, Guibert e poi una chiusa molto intima su Derek Jarman. Tutti autori che attraverso la propria autorappresentazione – che talvolta sfocia nella semplice scrittura, come in Guibert – denudano la fragilità di esistenze spezzate dalla ricerca di intensità, di sperimentazione. Non è un caso che due dei soggetti citati abbiano praticato un narcisismo estremo sul proprio corpo malato, emaciato e lentamente strappato dall’HIV.
Insomma, il narcisismo cui tenta di volgere lo sguardo Colquhoun è quello capace di mostrare che «la reale complessità dell’io» «è incompatibile con gli ideali del capitalismo della comunicazione e della rappresentazione» (ivi, p. 212), spezzando la forma reificante del selfie per come oggi mediamente lo si incontra, come vettore di potere che ingessa l’io in calchi stretti: vettore di quella che forza che «muta l’uomo in pietra» (Weil 2021, p. 42).
Eppure, il potere non si limita a reprimere nelle società postfordiste. Come già Foucault diceva ormai molti anni orsono, il potere anzitutto produce. Il vero tratto distintivo del capitalismo, il motivo per cui alla fine si è affermato a discapito di tutti gli altri sistemi economici, non è la codificazione, fosse anche il modo in cui impone schemi morali, ma la capacità di scaricare il proprio peso su una rete infinita di meccanismi di decodificazione (Deleuze 2022, p. 361): il desiderio capitalista vince perché ognuno ha la percezione di fare quello che vuole. Sono dunque le canalizzazioni di questi flussi di desiderio che occorrerebbe mettere a tema, e su cui lo stesso Fisher aveva finito per arenarsi. A un’esplorazione veramente sperimentale del sé occorrono dei piani d’appoggio.
Pur dichiarandosi l’autore in più punti consapevole delle ipoteche strutturali dei media, compresi i social media (ivi, pp. 155, 157), nel libro di Clquhoun il risultato di una mancata analitica delle modalità in cui il potere produce la voglia di rappresentarsi nella forma statica del selfie da mettere nelle stories, è la pericolosa ingenuità apologetica di trovare in teste di serie del consumismo aggressivo nella sfera dell’intrattenimento spiccio come Kim Kardashian (ivi, pp. 172-175) e Britney Spears (ivi, pp. 23-29, 152-154) degli esempi di emancipazione da paragonare a movimenti politici quali Black Lives Matter. Figure che incarnano l’inarrivabilità classista tipica delle forme più sclerotizzate di divismo e delle moderne tattiche di capitalizzazione dell’anticonformismo e del disagio. Guardando Spears che si rasa i capelli per la sua community di affezionati, più che veder risaltare il gesto emancipatorio di strappo tra sé e la propria spettacolarizzazione, risulta assai più fondamentale la dinamica che rende possibile il fatto che centinaia di migliaia di persone ritengano in un qualsiasi modo rilevanti per la propria giornata i patemi di una popstar mediocre e milionaria.
Se il narcisismo può essere un’arma (e il grande merito di Colquhoun è quello di averlo mostrato), occorre studiarne gittata, peso, capacità di danno e resistenza. Ci occorrono dei modi per rendere il nostro narcisismo invendibile se vogliamo sperare che divenga possibile estrometterci da quel flusso incessante che è l’intrattenimento, lo scrolling ansiogeno cui si è ridotta la vita nei paesi benestanti.
Riferimenti bibliografici
M. Colquhoun, Narciso. Storia del selfie da Caravaggio a Kim Kardashian, Nero, Roma, 2024.
G. Deleuze, L’isola deserta e altri scritti (1953-1974), Orthotes, Napoli-Salerno, 2022.
M. Fisher, Desiderio postcapitalista. Le ultime lezioni, Minimum fax, Roma, 2022.
M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano. 1978.
S. Weil, L’Iliade o il poema della forza, Asterios Abiblio, Trieste, 2012.
Matt Colquhoun, Narciso. Storia del selfie da Caravaggio a Kim Kardashian, Produzioni Nero, Roma 2024.