Sperare è vedere un tempo che non vede la realtà in cui siamo immersi. È vedere il tempo nella sua stessa possibilità di rimessa in gioco. È forse vedere un “tempo vero”, e in ogni caso un “tempo grande” che desideriamo fortemente e che intende offuscare la storia presente quando essa è nelle mani di maestri determinati a non rinunciare all’alienazione dei loro soggetti. Lo spirito dell’utopia di Bloch è stato scritto in “tempi bui”, come diceva Brecht, quelli del grande massacro europeo del 1914-1918 e della rivoluzione tradita del 1918-1923 in Germania. Cosa possiamo sperare, in tali circostanze, scrivendo – per rari lettori – un libro sulla speranza? Speriamo di vedere e far vedere un tempo altro. Ma, in queste stesse circostanze, si tratta di inventare, di reinventare il tempo di punto in bianco. Innanzitutto intendiamo correttamente la parola “invenzione”. Essa implica le due o tre accezioni dell’inventio latina, vale a dire: una facoltà immaginativa, stilisticamente o retoricamente accostata al linguaggio o alle opere dello spirito; una facoltà archeologica che permette di scoprire, di rinvenire una realtà che fino a quel momento sfuggiva alla vista comune; o, ancora, una facoltà strutturale di raccolta e rimontaggio che sottintende, soprattutto tra gli archeologi, una parola come “inventario”.

Ad ogni modo sperare inventa il tempo, nel senso che esso diviene un’istanza per ricominciare. Tale è stato, in effetti, Lo spirito dell’utopia: una serie di ipotesi proposte in vista di una simile invenzione, di una tale immaginazione, di un ricominciamento siffatto. Si trattava in primo luogo, nel resoconto di Ernst Bloch, dell’invenzione di uno sguardo. Il libro si apre con la parola Absicht che significa “intenzione”, “disegno”, “progetto”: nulla di più normale ai margini di un’opera così ambiziosa. Ma Sicht significa “vista”, attraverso cui i traduttori hanno ben compreso il pensiero di Bloch scegliendo di restituire a questa semplice parola il suo pieno valore filosofico senza che si perdesse quello desiderante e sensibile. “Ciò che è in vista”. Ossia, ciò che è in vista non è pienamente visibile, poiché ciò che è in attesa non può, per definizione, essere compiuto. Ciò che è in vista, dirà Bloch, non è completamente noto e, tuttavia, è già conoscenza: una “conoscenza non ancora cosciente” (noch nicht bewubte Wissen).

Tale elaborazione, la cui posta in gioco, ricordiamolo, è di natura politica, presupponeva necessariamente una certa relazione con Freud e la teoria psicanalitica: un dibattito nel senso più vivace, generoso, fecondo. Ernst Bloch fa parte di una costellazione di pensatori – Warburg o Benjamin, Adorno o Marcuse, ma anche Bataille o Ejzenštejn – per i quali la vita sociale in generale e la vita politica in particolare non prescindevano dall’inconscio (il desiderio inconscio, la memoria inconscia, il sapere inconscio). «Quando è che si è coscientemente presenti nella regione dei propri attimi?», comincia col domandarsi l’autore de Lo spirito dell’utopia.

Laddove lo «stesso sogno notturno è generalmente radicato a tutti gli effetti nel passato, scompone ciò che era presente nel passato e lo mantiene nei suoi elementi morti, nei suoi stereotipi» occorrerà, dice Bloch, reinventare l’arte di sognare a occhi aperti. Occorre andare oltre la nostalgia dell’inconscio freudiano e sostituirgli la speranza, che è rivolta all’altro vettore del tempo psichico (ma si potrebbe anche dire che questa speranza non è altro che il nome, etico e politico, del desiderio in quanto tale, al quale Freud non ha mai negato la facoltà protensiva). Dovremmo quindi sciogliere il presente dall’incantesimo di situazioni alienanti, così come il passato dai ricordi pietrificati: occorre rendere i nostri sogni selvaggi, infuocati, appetibili, dionisiaci, rivoluzionari. Bisogna osare di sognare rosso, sognare ad alta voce la libertà: esclamandola e mettendola in atto. Ciò che Ernst Bloch chiamerà, ne Lo spirito dell’utopia, un’arte dei “sogni a occhi aperti”.

Il “sogno a occhi aperti” (Wachtraum) dà forma e contenuto all’Absicht, a “ciò che è in vista” in tutta l’esistenza etica e desiderante. Esso sorge in un miscuglio di conoscenza (docta) ed emozione (spes). Emerge in tutta la sua evidenza sotto l’aspetto di una vita nova. Questa non ha certamente nulla di una vita realizzata, riconciliata, nella quale tutti i problemi conoscerebbero la loro soluzione, tutti i desideri raggiungerebbero la loro soddisfazione e tutte le preoccupazioni troverebbero il loro appagamento. «Pertanto, laddove cominci una vita nuova, questa domanda aperta (offene Fragen) si avvia, questa effervescenza, questa rivelazione velata (verhüllte Enthüllen) che è generalmente l’attesa di ciò che sta arrivando». Attesa del nuovo e non ritorno dell’identico, dunque. Ma l’anamnesi freudiana non è per questo lasciata ai margini. Al contrario, il suo nuovo valore d’uso mostrerà, in un certo senso, che l’origine stessa è “rossa”, così come lo sono i sogni del futuro.

Se questa reinvenzione del tempo viene presentata innanzitutto come l’invenzione di uno sguardo, è ancora questa che rivela il motivo, onnipresente, della luce, del bagliore o del colore rosso. […] Appena abbozzata la teoria del sintomo – dove viene meno il normale corso delle cose, dove la realtà zoppica, dove affiora “l’insolito” –, Ernst Bloch ne trae una conclusione pratica o metodologica sorprendente per qualsiasi filosofo speculativo: «In breve, è bene pensare anche affabulando» (kurz, es ist gut, auch fabelnd zu denken). La favola reinventa il tempo e, con esso, le condizioni stesse della nostra attesa, del nostro desiderio – come messo in pratica in modo così efficace da Sheherazade nei racconti de Le mille e una notte –, incluso il nostro desiderio politico. Cosa apporta pertanto la storia, considerata da questo punto di vista, alla nostra esperienza del tempo? Trasforma l’attesa in quanto tale (Warten), che spesso è “vuota”, nella speranza (Hoffen) che in questo desiderio ci sia «sempre qualcosa che covi»: da cui nascerà sempre qualcosa.

Tutta l’acutezza e la tristezza di Ernst Bloch, di fronte alla storia politica degli anni venti e trenta in Germania, esplodono in mille fuochi incandescenti, in mille espressioni letteralmente rosse di rabbia. In uno straordinario paragrafo scritto nel 1933 e intitolato “Inventario dell’apparenza rivoluzionaria” Bloch parla del nazismo come di uno “tremendo terrore bianco” che osa mascherarsi in rosso, cioè “mimetizzandosi con il socialismo”. […] Da questa prospettiva tanto antropologica quanto politica, l’autore de Lo spirito dell’utopia si rivolgerà infine ai suoi compagni comunisti – ma con intento polemico: non è sufficiente, afferma, denunciare la falsità della propaganda nazista, ma bisogna altresì riconoscere, e cercare di comprendere, l’intensità stessa del loro desiderio. Si apprenderà una lezione – dialettica, ovviamente – da questa situazione atroce […] quella del “montaggio”, vale a dire lo smontaggio e il rimontaggio di ogni cosa.

Quando il tempo è incomprensibile o, come dice Bloch, “caleidoscopico”, vi è urgente necessità – se non altro per evitare di perdere la testa – di procedere a dei rimontaggi di tempi plurali. Una nozione fondamentale è presente all’inizio di Eredità di questo tempo: cioè quella di “non-contemporaneità” (Ungleichzeitigkeit) che la storia produce per via della sua stessa stratificazione e della sua varietà. […] La “non-contemporaneità” nazista, con le sue mitologie eclettiche e con la sua versione brutale del millenarismo, si oppone quindi alla “non-contemporaneità” rivoluzionaria, nella quale è facile rintracciare – pensiamo a Rosa Luxemburg o al giovane Benjamin – «un po’ della antica e romantica opposizione al capitalismo», ad esempio. Dialettizzare l’anacronismo alla base del nostro tempo equivarrebbe a riconoscerne la complessità, il valore del montaggio di tempi eterogenei, al fine di produrne lo smontaggio (démontage) critico e ripensarli, utopicamente, attraverso un rimontaggio di elementi “rubati per impiegarli a un altro fine”. […]

In tempi caleidoscopici”, pertanto, è necessario un rimontaggio dei tempi perduti, di tempi eterocliti e ignorati, “non ancora consapevoli”. Di conseguenza: con dei soggetti dislocati, disorientati tra reificazione ed ebbrezza, occorrerà un rimontaggio degli affetti stessi. Bisogna rimpiazzare le ebbrezze, ritrovare le virtù dimenticate dell’entusiasmo che avrebbe potuto percorrere il proprio cammino, ad esempio, tra la Rivoluzione francese e la Nona sinfonia di Beethoven. Anche in questo caso sarà necessario dialettizzare e, soprattutto, saper discernere tra “l’ebbrezza intelligente” (der kluge Rausch) e l’irrazionalismo fumoso, nostalgico o criptofascista – sia pure neo-romantico – che si può rintracciare in alcuni poeti degli anni venti, in Ludwig Klages o in Carl Gustav Jung.

Questo caos antropologico – o questa “tragedia della cultura”, come la chiamavano Georg Simmel o Aby Warburg – cercava quindi (attraverso il montaggio, ossia lo smontaggio e il rimontaggio del visibile) nella speranza le sue forme. […] Quando l’operazione di montaggio ha separato gli elementi di un materiale che forma un conglomerato, le cose diventano meno stabili, ma più libere dai propri movimenti. Un paradigma fondamentale che non è altro che quello dell’interruzione: crea il legame, nella pratica stessa del montaggio, tra la nozione romantica di frammento e quella, moderna, di scossa. Esso contraddistingue quanto quest’“epoca” ha prodotto di meglio, nelle arti visive, nel teatro (in Brecht, che Bloch commenta a lungo), nella letteratura (Joyce, Döblin, Kafka) o nella musica (Stravinskij, Berg, Schönberg, parimenti molto presenti in Eredità di questo tempo).

L’eredità di questo tempo? Fallimenti, tradimenti, crolli e rovine, senza dubbio. È dunque un mondo di polvere a causa del tracollo di tutto ciò che si credeva solido. Ma Bloch tenta – dialetticamente – di individuare i possibili “poteri della polvere” (Staub Potenzen). Che cosa si intende con ciò? Semplicemente che la polvere si solleva quando l’edificio crolla: acquisisce d’interesse, scrive Bloch, quando viene sollevata dal crollo. Essa è ciò che dovremmo raccogliere e, soprattutto, rendere “esplosiva” (explosibel). Dovremo capire che la polvere non è solo un materiale obsolescente, vetusto: è un potere dal quale, dalle profondità della crisi, può emergere il futuro, come scrive Bloch in un bel paragrafo del suo libro dedicato a Berlino. Presto dal grigio – della polvere, nella misura in cui riusciremo a scuoterla – potrà alla fine emergere il rosso del desiderio, della speranza emancipatrice.

Il rosso è come la brace che arde ancora sotto la cenere o la polvere. Non chiede altro che di riapparire ogni volta, di “brillare”, di riscaldarci. È quindi il colore della speranza. E se questo deve essere inteso come un “sogno a occhi aperti” di emancipazione, come Ernst Bloch aveva già detto ne Lo spirito dell’utopia, bisognerà allora dire che il fondo del sogno è rosso.

*La cura dell’estratto dalla Lectio e la traduzione dal francese sono di Pietro Renda. 

∗∗ La Lectio magistralis è stata tenuta da Georges Didi-Huberman in occasione del conferimento ad honorem del Dottorato Internazionale di Studi Umanistici presso l’Università della Calabria il 25 giugno 2020.

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