Interrogare e mutare. Forse le due istanze che più profondamente alimentano e caratterizzano le tendenze del documentario contemporaneo, e che sembrano emergere, nella pluralità delle loro declinazioni, dall’ultimo libro di Marco Bertozzi Documentario come arte (Marsilio, 2018). Il testo si propone come primo frutto «di una ricerca per una teoria estetica del documentario contemporaneo» (Bertozzi 2018, p. 7), che è non solo ricerca sul campo, ma nel campo stesso, fatta cioè dal di dentro, nutrita com’è sia dall’esperienza di studioso che di filmmaker dell’autore (Cinema grattacielo, 2017, suo lavoro più recente), e che indaga in che modo il documentario sia per eccellenza la forma artistica della contemporaneità.

Quello dell’interrogazione, condotta magari appunto anche dal di dentro, autoriflessiva, è del resto uno dei tratti che apparentano direttamente documentario e arte contemporanea. Il demone del questionarsi, del porsi domande sulle proprie mutazioni in atto, registrando sia la trasformazione che l’interrogazione su quella, e su cosa sia quella cosa che si chiama “arte” e come possa dare una forma al mondo, è per molti versi questione centrale nell’arte contemporanea. È quanto ha rilevato, per esempio, Jean-Luc Nancy, infatti citato da Bertozzi in esergo al secondo capitolo del suo libro. Mettersi in questione, allora, starsi faccia a faccia e saggiare le proprie possibilità linguistiche, tecniche, il proprio dare forma al mondo: ecco dove non solo il documentario dialoga con l’arte contemporanea, ma è concepito in quanto arte, capace di porsi dall’interno domande su cosa sia il cinema e come si ponga nei riguardi del reale.

Il documentario così configurato non può che essere, oggi, un’esperienza a carattere marcatamente laboratoriale e sperimentale. Bertozzi mette in rilievo come tale produzione non possa più essere semplicisticamente riducibile al paradigma di un’idea documentaria vincolata rigidamente a una tradizione puramente mimetica, a caratteri di oggettività e obiettività fondati su una supposta “purezza” del mezzo, capace di fotografare l’essenza delle cose quali sono tramite una minimizzazione o soppressione dell’intervento artistico, in un’eclisse dello stile e del linguaggio. Al contrario, la prospettiva che Bertozzi segue nel suo studio, posto quale teoria estetica del documentario contemporaneo, si configura proprio come uno scavo negli stili e nelle pratiche

Messe infatti in luce, nel primo capitolo, ambiguità e polisemica ricchezza del termine “documentario”, l’autore ne mappa le strategie tecniche ed espressive (performance e autobiografismo, found footage, reenactment) cogliendo in particolare i modi in cui sembra misurarsi direttamente (faccia a faccia, appunto), con il suo riprendere «lo stato in cui la realtà è osservata/perturbata nel corso delle riprese» (ivi, p. 15). Non più, quindi, una realtà in sé, come tanta lettura tradizionale del documentario ha ingenuamente voluto.

Il documentario produce, in questo senso, immagini soggette a quello che l’autore individua come una sorta di principio heisenberghiano di indeterminazione. Se specchio delle cose (già di per sé ambigue, misteriose, in divenire), il documentario lo è solo nel momento in cui le si osserva e c’è qualcuno a osservarle (donde una dimensione performativa dell’autore, che Bertozzi rintraccia, per esempio, nel lavoro di João Moreira Salles, o di Guy Maddin). Qualcuno, mettiamo, che ponga in essere lo specchio, il dispositivo di osservazione e interrogazione sulle cose. Ma il dispositivo, nel suo farsi sentire come tale, è, al pari della realtà messa in immagini, soggetto a interrogazione, dunque è una realtà a propria volta questionabile.

È una prassi che Bertozzi rintraccia, per esempio, in parte già nel lavoro di Werner Herzog, la cui voice over in Grizzly Man (2005), lungi dal costituirsi come onnisciente e autoritaria, a pura conferma del mostrato, è anzi dubitativa, volta a saggiare il rimosso delle immagini e a costituirle come luogo di interrogazione incrinando ogni idea semplicistica di verosimiglianza.

E lontano dall’idea di documentario come specchio asettico, è già il gesto di Pasolini che in Appunti per un’Orestiade africana (1969) si specchia con la macchina da presa nella vetrina di un negozio in una città africana, facendo così emergere la «consapevolezza estrema del film come luogo di mediazione fra sé e il mondo» (ivi, p. 28). Molte delle esperienze più significative del documentario contemporaneo, allora, mettono in gioco quella consapevolezza, in cui a essere questionato è il rapporto tra sapere e vedere, tra il cogliere il sensibile e la sua organizzazione filmica, aperta ad ammettere anche l’intrusione del caso, dell’inatteso e non scritto. Come in Santiago (2007) in cui Salles cerca di filmare – e in definitiva il film viene a costituirsi come un cercare di filmare – il suo maggiordomo, invece imbarazzato e sfuggente, e quando proprio questi sembra aprirsi a fare racconto intimo di sé, ecco che la telecamera non si aziona.

Gesti, tra gli altri che Bertozzi passa in rassegna, a ribaltare l’idea del carattere meramente informazionale e certificativo di un visto che ha nutrito a lungo l’interpretazione del documentario, e che invece è oggi continua elaborazione di un’apertura al visibile. Esperienza filmica colta quindi nel suo carattere processuale, evidente sia nella già ricordata capitolazione della voce fuori campo normativa come nella presenza del corpo dell’autore e quelli altrui, analizzati nel secondo capitolo.

Tanto la performance autoriale (in 5 Broken Cameras, 2011, di Emad Burnat e Guy Davidi, il primo, nel tentativo di filmare la propria vita e quella del suo villaggio, si trova coinvolto nelle tensioni tra esercito israeliano e palestinesi, e continua a passare di telecamera in telecamera, puntualmente rotta nel corso degli scontri, ed è la performance stessa del regista a farsi «architettura drammaturgica del film», p. 46), quanto il reenactment (The act of killing, 2012, di Joshua Oppenheimer, con i killer delle purghe anticomuniste in Indonesia nel 1965-66 che rimettono in scena “le loro gesta” secondo codici e stilemi dei loro generi cinematografici preferiti), palesano il contatto tra artista e mondo, sfrangiando la nettezza dell’opposizione realtà/finzione e apparentandosi agli atti performativi di tanta arte contemporanea. È con tale ambito più vasto – espanso – che dialoga anche la pratica del riuso creativo delle immagini d’archivio (come nel lavoro di Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei, 2002, realizzato sulla base di Home Movies della famiglia Hoepli-Marazzi) e le stesse modalità di fruizione di lavori costruiti tramite found footage, sempre più spesso ospitati in musei e gallerie d’arte, al centro del quinto capitolo, volto a mettere in luce un’idea di “documentarietà” espansa, rilocata.

L’ultimo capitolo è dedicato invece alle forme del documentario italiano, in cui, nel legame tra un «carattere geo-filosofico» e una «forte vocazione umanista» (ivi, p. 86), opera un confronto con le sopravvivenze dell’arcaico e una modernità problematica, (Bella e perduta, 2015, di Pietro Marcello), che pone in essere un cinema il cui orizzonte tematico «non crede alla teologia della modernità come non crede a un compiuto processo di secolarizzazione» (ivi, p. 86). Dal documentario italiano emerge dunque una contemporaneità problematica (che Bertozzi legge, ricordando Roberto Esposito, come «illuminata per contrasto da ciò che la precede», p. 91), e un passato le cui immagini vengono esplorate nelle loro significazioni non manifeste. Addirittura inconsce, come nel lavoro di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, che riagisce artigianalmente i fotogrammi di filmati d’epoca, smontandone i significati ideologici, retorici. Alla prestazione referenziale dell’immagine si accosta così un intervento estetico.

Del resto, considerare il documentario come arte, implica liberarlo dalla considerazione di genere minore, di mero calco riproduttivo e certificazione passiva dello status quo, e accostarlo quale forma ibrida in grado di creare uno sguardo sul mondo e indagare criticamente lo sguardo nel suo crearsi. È quello che Didi-Huberman ha chiamato «riarmare gli occhi» per «provare a riapprendere il vedere» (Huberman 2010, p. 41). Il documentario si prova a farlo, passando per la reinvenzione del dispositivo, come per la consapevolezza che, se in arte si dà una verifica, è incerta. Manifesto, testimoniato, ne è l’esercizio.

Riferimenti Bibliografici
M. Bertozzi, Documentario come arte. Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema contemporaneo, Marsilio, Venezia 2018.
G. Didi-Huberman, Remonter, refendre, restituer, in L’image-document, entre realité et fiction, a cura di J.-P. Criqui, in «Les Carnets du Bal», n. 1, 2010. 
R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010.

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