Siamo ancora in tempo per diventare immortali? Andrei Michalkov-Konchalovsky, classe 1937, evidentemente pensa di sì: Grand Prix a Cannes 1979 per Siberiade, più volte Leone d’argento a Venezia (2002 Dom Durakov, 2014 The Postman’s White Nights, 2016 Paradise), continua ad essere in competizione artistica col fratello minore Nikita Michalkov (Leone d’oro a Venezia 1991 per Urga, Oscar 1995 al miglior film straniero per Sole ingannatore, Leone speciale a Venezia 2007 per l’insieme dell’opera) e dell’ormai canonizzato Andrei Tarkovsky (di cui Konchalovsky fu attore per L’infanzia di Ivan). I colori lividi, aurorali, di questo film su Michelangelo Buonarroti – ma anche la scelta stessa di girare in Italia in paesaggi toscani – rimandano all’autore di Andrei Roublev e Nostalghia (a cui, tanto per parlare di riconoscimenti, nel 1982 è stato intitolato l’asteroide 3345 Tarkovsky).
Il peccato è un film sul denaro: inizia con un conteggio di monete in casa della spendacciona famiglia Buonarroti (Michelangelo si lamenta di dover mantenere tutti i parenti) e prosegue con regolamenti di conti soprattutto economici (in particolare con la famiglia Medici, banchieri di Firenze che arrivano al soglio pontificio), calcoli sugli anticipi e le spede di produzione, acquisti segreti che vengono spiati come nella migliore tradizione della politica italiana, pagamenti a modelle e garzoni di bottega e così via. Ma Deleuze ci ha avvisato che ogni film sul denaro è un film sul cinema, quindi qui è chiaro che l’aspirante autore Konchalovsky – il regista russo che negli anni ottanta andò ad Hollywood per farsi buttare fuori dal set di Tango & Cash – prova a far vedere non l’improbabile fase creativa di Michelangelo (come fa Schnabel con Van Gogh) ma piuttosto il fuori-campo della produzione: gli accordi con la committenza (tutti i contratti con le precise clausole da rispettare), la costituzione della troupe (la “scuola”, la bottega), il casting (bella la scena della ragazza opulenta che si annoia ad essere prescelta per passare all’eternità) e soprattutto il trasferimento dei materiali (la discesa del blocco di marmo detto “il mostro” ricorda il valico montuoso della nave nel metafilm di Herzog Fitzcarraldo).
Il peccato è un film sulla scultura – ma cos’è la scultura? Riprendiamo in mano Heidegger:
I prodotti della scultura sono corpi. La loro massa, consistente in materiali diversi, riceve la sua forma in modi molteplici. Il formare avviene nel modo del circoscrivere, come un includere e un escludere rispetto ad un limite. Entra così in gioco lo spazio. Esso viene occupato dalla figura scolpita, in quanto riceve la sua impronta come volume pieno, come volume che include zone vuote, come volume totalmente vuoto. Sono cose ben note e tuttavia cariche di enigmi (Heidegger 2003, p. 17).
Curiosamente questi enigmi riguardano anche il cinema, tradizionalmente considerato arte del montaggio (dunque immagine-tempo, che sia tempo diretto o indiretto) e che però nel film di Konchalovsky – grazie all’utilizzo fuori tempo massimo (e dunque straniante, per non dire perturbante) del formato quadrato tipico del cinema delle origini e poi della paleotelevisione – rivela i propri limiti perimetrali e dunque il gioco registico dell’inclusione/esclusione rispetto all’inquadratura. Costringere il mondo titanico di Michelangelo nel blocco di un quadrato, però, significa anche cercare un equilibrio fra la verticalità statica delle statue (e dei morti: si veda l’intensa inquadratura in cui il David si erge in Piazza della Signoria mentre il corpo a candela di un impiccato pende da Palazzo Vecchio) e l’orizzontalità statica dei morti (e dei blocchi di marmo: il cosiddetto “mostro” è uguale e contrario, per colore e posizione, al monolite di 2001: Odissea nello spazio).
Il peccato è un film sulla Grande Arte, dunque sul confronto tra lavoro e vita/morte/sopravvivenza/immortalità e sulla competizione quantitativa e qualitativa in funzione della canonizzazione, visto che «l’estetico e l’agonistico sono una cosa sola» (Bloom 2017, p. 12): Michelangelo è insicuro su sé stesso (tenta d’impedire l’inaugurazione della Cappella Sistina, che non considera ultimata) ma ha ben chiara la distanza che lo separa dai contemporanei (si veda la scena in cui accusa di mancanza di forza nientemeno che Jacopo Sansovino, futuro capo architetto della Repubblica di Venezia).
Essendo il Rinascimento l’epoca in cui al massimo grado si teorizza l’analogia oraziana dell’ut pictura poesis, nessuna meraviglia che Michelangelo scelga come suo nume tutelare Dante Alighieri, di cui impara a memoria la Commedia (ma, ci tiene a precisare il personaggio del film, solo l’Inferno) e a cui dedica una delle sue poesie (contenente l’esclamazione “Fuss’io pur lui!”): se Dante è «il più aggressivo e polemico tra i massimi scrittori occidentali» nonché «sfacciato, aggressivo, altero e audace più di tutti i poeti precedenti o successivi» (così lo descrive Bloom nel Canone occidentale), il Michelangelo di Konchalovsky non è da meno, almeno in quanto uomo se non in quanto poeta. Il film, allora, sfiora il kitsch pur di far incontrare per pochi secondi l’autore del Giudizio Universale (l’attore Alberto Testone, ex odontotecnico, che somiglia al ritratto di Michelangelo lasciatoci da Daniele da Volterra) e l’autore dell’Inferno (in versione Botticelli). Peccato di presunzione?
Fare i conti cinematografici con Michelangelo Buonarroti non può significare confrontarsi con Carol Reed (Il tormento e l’estasi, 1965) o con i recenti Michelangelo – Amore e morte (Bickerstaff, 2017) e Michelangelo – Infinito (Imbucci, 2018) quanto piuttosto con quell’Antonioni che, forte dell’omonimia, nel 2004 (a 92 anni) entra nella restaurata basilica di San Pietro in Vincoli per confrontarsi con il Mosè caro a Freud. Lo sguardo di Michelangelo è un cortometraggio muto (“Perché non parli?”) in cui il maestro del cinema moderno entra in chiesa, giunge al cospetto della tomba di Giulio II, guarda e medita, poi è davanti al Mosè (il titolo inglese dice Michelangelo eye to eye), lo analizza con passione freudiana, lo accarezza con erotica devozione e infine riguadagna l’uscita, avviandosi ad entrare nell’eternità del Canone cinematografico (su musica di Palestrina). Invece Konchalovsky a 82 anni insegue il biopic, come l’86enne Polanski del caso Dreyfus, rischiando di cadere nel peccato dell’estetica televisiva.
Ma, si sa, il destino del lavoro segue il caso delle opportunità: con i costosi blocchi di Carrara si fanno le statue singole, con i marmi a basso costo di Pietrasanta si fanno colonne in serie (la scena finale del film è Michelangelo che cammina tenendo in mano un modellino di piazza San Pietro). E così, con l’abbassamento dei costi di produzione e l’innalzamento del gusto medio, l’arte cinematografica diventa fiction televisiva – e la serialità diventa l’immortale.
Riferimenti bibliografici
H. Bloom, Il Canone Occidentale, BUR Rizzoli, Milano 2017.
M. Heidegger, L’arte e lo spazio, il melangolo, Genova 2003.
R.W. Lee, Ut pictura poesis, SE, Milano 2011.