Il mondo del porno, si sa, è un mondo a parte. Una piccola, grande comunità dove tutti si conoscono, ma che al contempo rimane quasi impenetrabile dall’esterno. Per ovvie ragioni, s’intende. Lo stato di semi-illegalità in cui permane, per esempio, che rende necessaria una certa discrezione rispetto alle routine produttive (quando non il loro completo occultamento); oppure lo stigma sociale, che trasforma i pornografi in delle specie di paria, a mala pena tollerati dalla gente “per bene”. Si sa che esiste. Si manifesta in alcuni luoghi deputati (una volta erano i cinema a luci rosse, poi quegli spazi “dietro le tende” nelle videoteche, adesso si è dematerializzato in alcuni specifici settori della rete) e in determinate occasioni pubbliche dai confini opportunamente delimitati (pensiamo alle fiere del sesso, come l’ormai defunto MiSex, ai festival di settore, o alle grandi convention che si svolgono ogni anno negli Stati Uniti). Ma non fa davvero parte del “nostro mondo”. Nella San Fernando Valley, sul set di Barbarella XXX: An Axel Braun Parody (2015), io e mio marito eravamo chiamati “civilians”, civili, termine che l’industria nordamericana utilizza, ironicamente mutuandolo dalle forze armate, per segnalare le persone venute “da fuori”. È così oggi, e lo era certamente molto di più nell’Italia degli anni ottanta e novanta, dove una vera e propria industria del porno si stava di fatto ancora formando e dove la censura e il controllo erano ancora esercitati con un certo rigore.
Diva Futura, opera seconda di Giulia Louise Steigerwalt, ci porta dentro questo mondo. E lo fa, non a caso, attraverso gli occhi estranei e ancora vergini di Debora, incarnazione finzionale di Debora Attanasio, dal cui libro autobiografico Non dite alla mamma che faccio la segretaria il film è tratto. Debora è una ragazza “normale” che si trova (complice un mutuo da pagare) ad accettare di lavorare come segretaria presso l’omonima agenzia, introducendosi in una posizione privilegiata dentro il giardino segreto. In questo senso, il personaggio interpretato da Barbara Ronchi funziona come una figura di intermediazione, capace di proiettare e accompagnare il nostro sguardo di “civili” inconsapevoli in quell’universo proibito e di farci curiosare un po’ tra le sue strane consuetudini e i suoi bizzarri personaggi. Non è però semplicemente una questione di gestione del sapere narrativo. Quella di Debora non è, difatti, l’unica “voce” che sentiamo nel film: Diva Futura ha una costruzione a focalizzazione variabile, che ci porta di volta in volta ad aderire alle conoscenze, alle emozioni e ai valori di altri personaggi. La sua centralità mi sembra derivare piuttosto dal fatto di rappresentare una sorta di alter ego dello spettatore, che viene in un certo qual modo invitato ad allineare il proprio atteggiamento verso il mondo del porno a quello che Debora adotta nei confronti del mondo diegetico in cui viene catapultata, ovvero a osservarlo con apertura mentale e sincera volontà di capire.
Secondo me è proprio questo probabilmente il principale merito del film: il tentativo di comprendere (e far comprendere), senza fastidiosi moralismi. Spesso (e ne abbiamo avuto recentemente un esempio con la serie Netflix Supersex) i prodotti di finzione italiani ambientati nel mondo della pornografia hanno due difetti costitutivi: una tendenziale noncuranza per il contesto e una prospettiva (più o meno velatamente) moralizzante. Anzitutto, sembrano “usare” il porno per parlare d’altro, senza approfondire più di tanto. Perché, nonostante tutto, resta sempre valido l’adagio «I know it when I see it», con cui il Giudice della Corte Suprema Potter Stewart nel 1964 derubricava la hard core pornography come un fenomeno che non ha nemmeno bisogno di essere descritto per capire cosa sia. Sappiamo come funziona, che senso ha perderci tempo. E invece no, o almeno non del tutto.
Con questo non voglio dire che Diva Futura sia una “lezione” didascalica sulle vicende della famigerata agenzia che ha sfornato le più celebri pornostar italiane degli anni d’oro. Anzi, la parte di ricostruzione diciamo storica delle varie fasi della vita dell’agenzia (come nasce e perché, come si sviluppa, come si passa dagli spettacoli ai film e come dai film si tenta anche il passaggio alla politica, come si reagisce alla repressione censoria, come e perché a un certo punto l’esperienza finisce) è relegata a dei segmenti riepilogativi con commento in voce over, finalizzati a riassumere i fatti principali al fine di fornire le necessarie informazioni di cornice. Quello che il film ci restituisce in modo dettagliato e partecipe è piuttosto un’immagine (magari un po’ idealizzata) dell’atmosfera che si respirava a Diva Futura: le motivazioni profonde dei personaggi in rapporto alla loro “vocazione” pornografica, le dinamiche relazionali e quelle lavorative (che spesso possono apparire “aliene” rispetto ai comportamenti condivisi dalla maggioranza delle persone), i trionfi, i rischi e le fatiche, la scaltrezza e le numerose ingenuità, la consapevolezza della valenza pionieristica delle proprie intuizioni e azioni, la complessa dialettica con le norme sociali e culturali dell’epoca. Insomma, Diva Futura fa quello che nessuno (almeno nel nostro Paese) aveva ancora mai fatto: ci regala un affresco sfaccettato e “a tutto tondo” di una stagione irripetibile della storia del porno italiano (e forse, proprio perché non lo vuole fare programmaticamente, ci dice anche qualcosa sull’Italia stessa). Un affresco che è anche, se vogliamo, la costruzione di un’epica. Un po’ come era accaduto per il porno della Golden Age con Boogie Nights (Anderson, 1997), film che, per molti versi, sembra rappresentare una specie di testo modello per Diva Futura.
In secondo luogo, nel film non c’è traccia di moralismo. Il porno che si fa a Diva Futura non è brutto, sporco e cattivo. Non è un lato oscuro, un demone, un disumano fallimento identitario o un bieco meccanismo di sfruttamento. È un sogno utopico, un progetto artistico, un’impresa che lavora notte e giorno per affermarsi, una famiglia (a tratti disfunzionale, forse) che interrompe le riprese di una scena hard per farsi una spaghettata. Attenzione, però: non c’è il moralismo, ma c’è la morale. “Amorali sì, immorali mai”, dice a un certo punto Riccardo Schicchi (Pietro Castellitto), per rimarcare che il suo progetto di decostruzione della morale dominante attraverso il sesso non deve assolutamente passare per la negazione della moralità. Laddove per moralità non si debba intendere l’adesione a rigide norme comportamentali codificate socialmente, ma la difesa di valori umani fondamentali come la libertà individuale e il rispetto reciproco. Significativa in questo senso è una delle prime sequenze, un montaggio a episodi che illustra l’esordio nel porno di Moana Pozzi (Denise Capezza), nel quale la pornodiva afferma con una certa ironia che l’industria pornografica è l’unico contesto lavorativo in cui non è mai stata molestata sessualmente.
Certo, anche qui non è tutto rose e fiori. Come in Boogie Nights, se il primo atto è pura commedia, nel secondo il film lambisce a tratti la tragedia. Centrale in questo senso è la sobria rappresentazione della morte di Moana, ma anche l’ampio spazio narrativo che viene dedicato ai seri problemi di salute che affliggono Schicchi. E ovviamente si infila tra le pieghe del racconto anche l’idea che il mondo del porno non sia in realtà proprio tutto quanto “pulito” e romanticamente epico come quello descritto qui. Per salvaguardare, infatti, la moralità (se così vogliamo chiamarla) della “missione” di Diva Futura, in qualche modo bisognava trovarne una controparte. Di nuovo in maniera non dissimile da quanto accadeva in Boogie Nights – dove si postulava una contrapposizione estetica e valoriale tra il porno in 35mm e quello in videocassetta – è il “nuovo porno” che comincia ad affermarsi nella seconda metà degli anni novanta a venire identificato come una specie di bestia nera ideale: un porno prodotto in serie in squallidi capannoni dell’Europa dell’Est, senza “visione” e senza storie, che non ha il minimo riguardo per l’immagine e i diritti di chi ci lavora; un porno violento, che erotizza la dominazione fisica e psicologica delle donne e nel quale si potrebbe perfino arrivare a mettere la testa delle attrici nel cesso. (Il riferimento qui è chiaramente al grande assente da Diva Futura, un celeberrimo attore e regista che non viene mai nemmeno nominato, pur avendo avuto rapporti stratificati con l’agenzia, e che non nomino nemmeno io, così vediamo se indovinate chi è). Ma il porno è anche questo, che ci piaccia o meno, come sottolinea saggiamente la stessa Debora in un momento del film. Anche, per l’appunto, e non solo. Bisognerebbe ricordarlo a chi, nel cinema e nella televisione nostrani, si è voluto occupare di porno senza purtroppo capirci granché.
Chiudo con una notazione che è anche una speranza. Con Supersex e Diva Futura sembra essersi aperta una tendenza alla riscoperta della storia della pornografia da parte dei produttori e degli autori cinematografici e televisivi italiani – tra l’altro è già stata annunciata la serie Netflix dedicata all’interessantissima figura di Adelina Tattilo, magnate dell’editoria per adulti che ha dominato il mercato delle riviste sexy a partire dalla seconda metà degli anni sessanta. Sembrerebbe quasi che l’industria dell’intrattenimento del nostro Paese abbia deciso di fare finalmente i conti con un proprio pesante rimosso storico e culturale. Mi auguro che la breccia aperta da questi prodotti non si esaurisca. Ma soprattutto che le produzioni future seguano la lezione impartita da Steigerwalt e dal suo ottimo film: studiare, cercare di capire, divertire (o anche far piangere), ma soprattutto astenersi dal giudicare.
Diva Futura. Regia, sceneggiatura: Giulia Louise Steigerwalt; fotografia: Vladan Radovic; montaggio: Gianni Vezzosi; musiche: Michele Braga; interpreti: Pietro Castellitto, Barbara Ronchi, Denise Capezza, Tesa Litvan, Lidija Kordić, Davide Iachini, Marco Iermanò; produzione: Groenlandia, PiperFilm con Rai Cinema; distribuzione: PiperFilm; origine: Italia; durata: 120’; anno: 2024.