È innegabile che parlare di Rocco Siffredi significa confrontarsi con quella che è probabilmente la pornostar maschile più celebre (e celebrata) di tutti i tempi – fatta eccezione naturalmente per il povero John Holmes, di cui già nei primi anni novanta Siffredi viene infatti indicato come l’unico possibile successore. In quarant’anni di carriera, con all’attivo centinaia di film e decine di premi, lo “stallone italiano” ha sviluppato un brand pornografico molto riconoscibile e di enorme successo, fondato sulla sua straripante intensità fisica, oltre che sull’identificazione con un’idea di sesso eccessiva e talvolta parossistica, sia a livello di pratiche (è nota la sua predilezione per l’anal estremo), sia per quanto riguarda le fantasie evocate (sulle copertine dei suoi primi DVD distribuiti negli Stati Uniti veniva apostrofato come «the MADMAN», tanto per capirci).

Tuttavia, il vero miracolo (forse involontario) compiuto da Siffredi è l’essere stato capace di raddoppiare in un certo senso la propria immagine divistica e di modellare su se stesso anche una persona pubblica che potesse passare al vaglio della cultura cosiddetta “mainstream”, trasformandosi di fatto in una vera e propria icona popolare italiana. Un’icona che è riuscita a penetrare (no pun intended) negli immaginari sociali in modo ancora più pervasivo e persistente rispetto ad altri esempi del passato, come l’ineffabile Moana o l’immarcescibile Cicciolina. (Mia madre, anni 86, quando ha saputo che stavo scrivendo su di lui, mi ha risposto: «Buonaseeeera», citando una recente pubblicità televisiva che lo vede protagonista).

Non cercherò qui di (ri)comporre questo giano bifronte, né di trovare un senso all’intricata conformazione del fenomeno Rocco Siffredi. Questa premessa aveva il solo fine di porre una questione. C’è un coacervo di discorsi e interazioni, di significati e affetti, di prassi industriali e istituzioni culturali, di erotomani incalliti e di mamme maliziosamente divertite che gira certamente attorno al personaggio Siffredi, ma che sta anche e soprattutto dentro al porno in generale. Di questa complessità cosa emerge in una serie come Supersex? A mio parere, ben poco. Sono consapevole dei constraint di genere del biopic. Un film biografico (o una serie, come in questo caso) adotta sempre una prospettiva che serve a un determinato scopo, una chiave di lettura “forte” che guida il racconto di una vita e che rende questo racconto per forza di cose tendenzioso. Non in un senso negativo, ovviamente. Ma nel senso che il personaggio spesso diventa un tramite per formulare delle riflessioni più ampie e dei giudizi, o per esprimere delle speranze, o per raccontare una determinata società, e via dicendo. Quello che contesto a Supersex non è dunque la sua tendenziosità, che fa appunto parte del gioco.

Il mio disappunto rispetto alla serie scritta da Francesca Manieri è semmai la semplificazione. La scelta della sceneggiatrice è stata infatti quella di usare programmaticamente la pornografia come una sorta di specchio nero incapace di riflettere tanto la verità del sesso (la sua «meravigliosa incandescenza»), quanto la «complessità del desiderio» maschile e soprattutto femminile (come lei stessa ha dichiarato in un’intervista alla rivista Elle). Se è certamente legittimo pensare alla pornografia come a un oggetto dalla natura meramente “funzionale”, è tuttavia anche un po’ troppo facile leggerla unicamente in questo senso.

La pornografia può infatti avere usi e significati diversi, che possono affiancare (e in alcuni casi addirittura soppiantare) il suo utilizzo apparentemente naturale, cioè la stimolazione erotica. La pornografia può ad esempio far ridere (avete mai visto un film del 1989 che si chiama L’uccello del piacere?), può stupire (ma come fanno a fare questa cosa?), può servire come puntello identitario per soggettività dissidenti (siete mai stati al Pornfilmfestival Berlin?), e molto altro ancora. Esiste cioè un polimorfismo semantico ed emozionale della pornografia che spesso i discorsi pubblici che la riguardano tendono a obliterare, cedendo alla comodità di una lectio facilior che la vede semplicemente come un opaco ausilio masturbatorio per persone dotate di scarsa immaginazione o addirittura come un subdolo dispositivo di disciplinamento dei corpi e dei piaceri. Con tutto ciò che ne consegue, sia in termini simbolici che da un punto di vista strettamente narrativo.

Partiamo da questo secondo livello: le storie. Paradossalmente, la pornografia è la grande assente in Supersex. Del porno, italiano e internazionale, si racconta quel poco che basta per dipingere un mondo tanto fiammeggiante quanto sordido e inconsistente. Riccardo Schicchi, esponente di un certo peso della cultura sessuale italiana del Novecento, è ridotto a una macchietta balbettante il cui progetto rivoluzionario è dipinto come velleitario e fallimentare. Su Moana Pozzi ci si ferma al già noto, ripetendo la stanca vulgata secondo la quale in realtà non le piaceva affatto fare sesso. John Stagliano, figura chiave del porno contemporaneo e fautore della fama mondiale di Siffredi, è derubricato a una comparsa senza nome nell’unica scena “americana” della serie. Joe D’Amato, eroe di quel cinema di genere che ha rappresentato il terreno di coltura del porno nostrano: non pervenuto (eppure le sue collaborazioni con Siffredi sono state piuttosto importanti).

Mi si dirà che non era quello l’intento della serie. Io ribadisco che comprendo, ma che a mio parere si è comunque persa una grande occasione, cioè quella di raccontare una storia interessantissima e ancora poco conosciuta attraverso le vicende di uno dei suoi maggiori protagonisti. Producendo una sorta di strana dissonanza cognitiva, cioè, l’enorme rilevanza della figura di Siffredi nel pornomondo è qui al contempo sempre sottolineata (l’enfasi sui premi, i paparazzi, le folle adoranti) e mai davvero valorizzata in quanto tale. Il suo programma narrativo è infatti tracciato come un percorso sostanzialmente di natura interiore, all’interno del quale il successo in campo pornografico non rappresenta per il personaggio un vero “oggetto di valore” (come si diceva una volta), ma incarna semmai il più insidioso degli ostacoli.

E qui arriviamo al problema simbolico. L’operazione tentata da Manieri mi ha ricordato per certi versi quell’idea di demistificazione del sesso pornografico che era stata al centro di Il n’y a pas de rapport sexuel, film di montaggio realizzato nel 2011 da Raphaël Siboni a partire dalle centinaia di ore di making of dai set porno archiviate dall’attore e regista hard francese HPG. In quel caso, l’autore sembrava voler far emergere il vuoto di reale che sta dietro la performance pornografica del sesso “reale”. (Ma, anche in questo caso, sono consapevole di una specie di regola non scritta, ovvero che, con rare eccezioni, ad artisti e intellettuali il porno interessa solo se possono “sublimarlo” in discorsi più seri).

Per certi versi, anche Supersex sembra cercare di smascherare la pornografia, guardando al di là della bulimia dei corpi e oltre il godimento contabilizzato al minuto qui incarnato dalla figura di Siffredi, per trovare non tanto (e non solo) un vuoto, quanto piuttosto una specie di lago oscuro dell’identità e del desiderio maschile, un cortocircuito delle relazioni tra i generi, un luogo dove, per l’appunto, lacanianamente il n’y a pas de rapport sexuel, ma solo incommensurabile distanza. Emblematico, in questo senso, è il duro confronto verbale che Rocco ha con Lucia circa a metà del sesto episodio. Lei lo ha appena visto girare una scena “forte”, in cui sodomizza un’attrice tenendole la testa dentro un water e tirando lo sciacquone. Nel dialogo che segue, quella scena diventa il pretesto per discutere di violenza e consenso (“Peccato che non era la tua la faccia nel cesso, mentre lei te lo metteva nel culo”), della pericolosa trivialità della sessualità maschile (“Perché nel vostro mondo la regola è che le femmine si spostano. Ve le passate”) e per cercare di sciogliere, non riuscendoci però fino in fondo, il nodo dell’intricata relazione tra desiderio e verità.

“Tra desiderio e verità c’è un po’ di differenza, o no?”, dice a un certo punto Lucia, ponendo l’enfasi positiva sul secondo termine di questa relazione. Il centro del discorso sul sesso e sul porno impostato da Supersex mi pare che stia tutto in questa frase. Il vero sesso non sta nel porno. La verità dell’identità e delle relazioni nemmeno. Il porno, per il Rocco finzionale, può sembrare inizialmente una risposta al dolore dell’esistenza (il suo “superpotere”), ma rappresenta di fatto una discesa orgiastica nell’autoassoluzione e nel fascino malato del cupio dissolvi. Quanto c’è di vero sono i rapporti famigliari (su questo è infatti incentrata la serie), con le loro contorsioni e asperità. Quanto c’è di vero (come nelle migliori rom-com) è l’amore per Rózsa, deus ex machina del finale, attraverso il cui sguardo Rocco acquisisce l’unico potere che conta davvero: quello di essere diventato un uomo. (Curiosamente, lo stesso Siffredi si racconta in un modo non del tutto dissimile nelle sue manifestazioni come figura pubblica mainstream).

La scena del water, però, ha in sé un elemento di verità, sebbene si tratti di una verità di segno molto diverso: non la supposta verità del sesso e delle relazioni ma una verità, per così dire, “storica”. In quel momento, infatti, Supersex riproduce la famigerata toilet fuck contenuta nel film del 1995 Sandy l’insaziabile, diretto proprio da Rocco Siffredi. Quella particolare performance (che vede coinvolto lo stesso Siffredi e l’attrice Sidonie Lamour) viene annoverata dai connoisseur come una specie di punto di non ritorno nello sviluppo di quello stile estremo che sarebbe poi diventato la firma del pornoattore. Chi ama il porno (e Siffredi in particolare) guarda a quella scena con occhi molto diversi da quelli con cui la osserva Jasmine Trinca nella serie: senza nulla togliere alla questione (oggi più che mai sacrosanta) del consenso, in questa scena si può cioè anche banalmente vedere la materializzazione di una fantasia di dominio e sottomissione, di abbandono e controllo. Una fantasia certamente controversa, ma non per questo meno legittima (o meno “vera”) se consideriamo le complessità e le sfaccettature dell’umano erotismo, che (nel bene e nel male) è un universo più articolato di quanto Supersex non ci voglia lasciare intendere. Ma questa è una verità che forse non interessava a nessuno raccontare.

L’ultima puntata si chiude con una battuta che la dice lunga sulla superficialità con cui viene trattata la pornografia nella serie. Dopo aver magnificato l’importanza del sapersi abbandonare (all’amore, cosa avete capito?), la voice over di Alessandro Borghi sentenzia: “Tutto il resto è porno”. E io aggiungerei: per fortuna.

Supersex. Ideatore: Francesca Manieri; interpreti: Alessandro Borghi, Jasmine Trinca, Adriano Giannini; produzione: The Apartment, Groenlandia, Small Forward Productions; distribuzione: Netflix; origine: Italia, anno: 2024.

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