Il «disaccordo», all’interno del campo sociale, non rappresenta una condizione eccezionale e pericolosa, al contrario, è ciò che tiene in vita la stessa moltitudine sociale: «L’attività politica è quell’attività che sposta un corpo dal luogo che gli era stato assegnato, o che cambia la destinazione di un luogo; fa vedere ciò che non aveva modo di essere visto, fa sentire un discorso laddove ne risuonava soltanto l’eco, fa sentire come discorso ciò che era inteso soltanto come rumore» (Rancière 2007, pp. 48-49). Il disaccordo, a sua volta, è l’espressione delle disuguaglianze che attraversano il corpo sociale. Come dicono in apertura del loro libro Morlino e Raniolo: «La differenza di condizione tra persone diverse che vivono nelle stesse società […] fa da motore della politica […] democratica» (Morlino, Raniolo 2022, p. 1). Quanta disuguaglianza una società possa sopportare è naturalmente una questione decisiva, tuttavia dovrebbe essere altrettanto evidente che una società senza disuguaglianze è una società malata. In questo senso c’è un rapporto complesso fra disuguaglianza e democrazia: se la prima è troppa allora la democrazia entra in crisi perché viene sentita come impotente e inefficace (la crescente disaffezione dal voto deve molto a questa sensazione); allo stesso tempo in una società senza disuguaglianze non c’è più nemmeno disaccordo, e quindi anche la democrazia, che presuppone e salvaguarda le differenze, entra in crisi e con essa l’intera dinamica sociale.
Certo, nel nostro tempo questo secondo rischio è remoto (nelle società occidentali, molto meno nelle varie forme di democrazie illiberali sempre più diffuse nel mondo, anche in Europa, come dimostra in modo inquietante il caso ungherese), mentre molto più urgente è il primo. La crescita vertiginosa delle disuguaglianze – si pensi, su scala globale, a quanto la vaccinazione contro il virus SARS-CoV-2 sia stata diseguale fra i diversi continenti – mette a rischio la democrazia, sentita ormai come del tutto incapace di risolvere i problemi sociali ed economici. E così la stessa fondamentale esperienza del voto viene sempre più sentita come del tutto ininfluente rispetto alla enormità dei problemi, aggravati ancor di più della crisi ambientale ormai acclarata. La democrazia, allora, ha bisogno di un certo grado di disuguaglianza per essere vitale, anche perché il desiderio di ridurre quelle stesse disuguaglianze è il più potente incentivo che ci sia alla partecipazione alla stessa vita democratica:
Si può ricordare, per quanto possa sembrare sorprendente, che proprio Marx e, poi, Lenin in modo più preciso postulano come l’uguaglianza dovesse essere il punto di arrivo di un percorso rivoluzionario che avrebbe portato a nuove istituzioni da creare e alle democrazie popolari caratterizzate dall’assenza di classi, propria di una situazione di uguaglianza. La caduta del muro di Berlino (8 novembre 1989) ha posto una pietra tombale sul fallimento di questi disegni, che hanno sedotto milioni di persone in diverse parti del mondo per decenni (ivi, pp. 3-4).
Tuttavia l’esaurirsi della spinta ideale del comunismo da un lato, e con questa anche la speranza di una società senza diseguaglianze, e il trionfo mondiale del sistema economico capitalistico dall’altro, hanno fatto esplodere il problema delle diseguaglianze, dal momento che l’obiettivo del capitalismo (ammesso che ne abbia uno, a parte la massimizzazione dei profitti) non è certo quello di promuovere lo sviluppo di una società egualitaria. In effetti «il capitalismo stesso inevitabilmente genera sia la disuguaglianza che ostacoli al processo contrario: è la stessa struttura capitalista, anche di Stato, che crea attori – i poderes poderosos, ben conosciuti in molti Paesi latino-americani – in grado di condizionare il processo decisionale a proprio favore» (ivi, p. 9). È questo il centro del libro di Morlino e Raniolo, che vede nel progressivo aumento delle disuguaglianze il principale problema per la democrazia. In effetti «le crisi multiple (Grande recessione, pandemia, guerra) sembrano aver innescato spinte potenti in grado di squilibrare le democrazie rispetto alla loro capacità di realizzare libertà ed uguaglianza» (ivi, p. 136).
Tanto più le diseguaglianze aumentano, su scala globale e nazionale, tanto meno i sistemi democratici riescono a rimanere vitali; in effetti come fare a credere ancora nelle promesse del voto, e in generale della politica, quando è sempre più evidente che le scelte elettorali (si pensi al caso italiano, e alla successione di governi tecnici che si susseguono da oltre un decennio) non riescono ad incidere sulla sostanza dei problemi e che invece sono sempre più le ragioni del capitale a dettare le scelte delle nazioni? Il populismo, nelle sue diverse accezioni di «populismo rivendicativo» e «identitario» (ivi, pp. 123-124), è la prima scontata risposta ad un senso di progressiva erosione del sistema democratico, di cui l’astensione dal voto è un sintomo evidente. Un populismo che va inteso sia come «l’uscita dal mercato elettorale di quote consistenti di elettori» sia come «protesta non convenzionale che scavalca i canali della mediazione politica, anche quelli offerti da partiti sfidanti e neopopulisti» (ivi, p. 138). In questo senso il populismo non è affatto il problema con cui devono confrontarsi i sistemi democratici: il problema è la crescita delle disuguaglianze, che produce disaffezione rispetto alla democrazia, di cui il populismo è soltanto un effetto e non certo la causa.
Anche in questa campagna elettorale quasi tutti i candidati dicono di non essere più interessati alla distinzione fra destra e sinistra, che sarebbe un relitto inutilizzabile del tempo delle ideologie, di quel novecento finito con la caduta del muro di Berlino. Tuttavia, se come scriveva Bobbio quasi trenta anni fa, «il carattere distintivo della sinistra è l’egualitarismo» (Bobbio 1994, p. 83), allora è la lotta contro le disuguaglianze il modo principale per difendere il sistema democratico (e non la riforma del sistema elettorale, o il passaggio al presidenzialismo, o tutte le altre risposte “formali” al problema affatto materiale della disuguaglianza). Da qui deriva la necessità di «formulare e realizzare politiche perequative, cioè tese a ridurre asimmetrie e sperequazioni. La strada maestra con la quale ciò può avvenire è attraverso la redistribuzione, cioè un compromesso sociale e politico solidaristico che riflette il marxiano da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni» (ivi, p. 175).
La prima mossa in questa direzione non può che essere quella di «regolare e ridimensionare la finanza» (ivi, p. 181). In questo caso la posta in gioco, in effetti, non è tanto e non solo economica ma propriamente democratica: se non si permette alla politica, e quindi al confronto democratico, di riprendere il sopravvento sopra l’economia e la finanza la deriva populista, e quindi antidemocratica e infine dispotica è inevitabile. La finanza non è un evento naturale, come le galassie o la composizione chimica dell’acqua; l’economia non è una scienza naturale, al contrario, è una scienza storica (va insegnata nei dipartimenti umanistici, non quelli scientifici). L’attuale primato della modellizzazione matematica negli studi economici, al contrario, muove in tutt’altra direzione, portandoci a pensare alle questioni economiche come se fossero del tutto oggettive, al di là della presa umana. Per salvare la democrazia occorre allora, e in primo luogo, tornare a pensare all’economia come ad un prodotto storico, e quindi umano, e soprattutto modificabile. In questo senso la questione della disuguaglianza è più importante di qualunque vincolo economico.
È in questo quadro che Morlino e Raniolo chiudono il loro libro con un’affermazione molto netta: «La via più praticabile» per ridurre le diseguaglianze e quindi per salvare il sistema democratico, «rimane quella di scegliere politiche distributive, magari in un contesto di crescita economica» (ivi, p. 188). Quest’ultimo inciso è, forse, l’affermazione più importante di tutto il libro. Se è possibile le necessarie “politiche distributive” devono essere messe in campo in un “contesto di crescita economica”. Se è possibile, appunto, non necessariamente in un contesto di crescita economica. Sono le “politiche distributive” la variabile indipendente, non la crescita economica, come invece i sacerdoti del capitale non fanno che ripeterci (che poi, dal momento che la crescita economica non è mai quella che si vorrebbe, questo non vuol dire altro che il tempo delle politiche distributive non arriva mai). Prima l’eguaglianza, poi l’economia. Quindi prima la democrazia, poi l’economia. Prima gli esseri umani poi il PIL e le quotazioni della borsa.
Riferimenti bibliografici
N. Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, Roma 1994.
J. Rancière, Il disaccordo. Politica e filosofia, Meltemi, Roma 2007.
Leonardo Morlino, Francesco Raniolo, Disuguaglianza e democrazia, Mondadori, Milano 2022.