Giusta l’intuizione di Massimo Maiorino nel vedere una concretizzazione del dispositivo teorizzato da Foucault nell’opera di Giorgio Morandi. Opera che va letta oltre le sue bottiglie e che, grazie alla linea tracciata ne Il dispositivo Morandi, Arte e critica d’arte 1934-2018, possiamo ripercorrere attraverso i contributi della critica e delle esposizioni di cui è stato protagonista.
«L’opera di Morandi è attraversata da linee profondamente diverse tra loro, alcune addirittura in totale antitesi, ed è da tale ricchezza linguistica che la critica e gli artisti più avveduti hanno ricavato interpretazioni e suggestioni capaci, ogni volta, di rinnovarne il significato, ma ancor più di estrapolarne, come di riflesso, un modello per la propria ricerca» (Maiorino 2019, p. 23).
Questa premessa dell’autore ci rimanda immediatamente alla volontà di rompere con l’interpretazione stereotipata del pittore bolognese, di proporre letture alternative, ripercorrendo e valorizzando alcune analisi critiche che hanno attraversato l’opera di Morandi, a partire da quelle storiche di Longhi, Brandi, Venturi, del contrastato Arcangeli, di Ragghianti, Briganti, Argan, fino a quelle più recenti e apparentemente dissonanti, che hanno colto ognuno a suo modo «linee che non soltanto formano un dispositivo, ma l’attraversano e lo spostano da nord a sud, da est a ovest o in diagonale» (Deleuze 2019, p. 12).
Gilles Deleuze nel corso del suo ultimo intervento pubblico in occasione del convegno parigino su Foucault del 1988 – pubblicato nella sua traduzione italiana da quelli di Cronopio – si è soffermato sul concetto di dispositivo, elemento alla base della filosofia foucaultiana, definendolo una «matassa, un insieme multilineare, composto di linee di natura diversa», evidenziando come queste linee possano essere di sedimentazione «ma anche linee di “incrinatura”, di “frattura”» e che dipanare «la matassa delle linee di un dispositivo significa ogni volta tracciare una carta, cartografare, misurare terre sconosciute» (Deleuze 2019, pp. 11-12).
Operazioni queste svolte da Maiorino nell’articolazione del suo testo ma, soprattutto, care a Morandi, componenti del processo artistico nel quale la disposizione degli oggetti, l’organizzazione nello spazio, il puntamento della luce, la gestione della polvere, l’ossessiva e maniacale osservazione erano seguiti dalla trasposizione degli oggetti in pianta, tracciando una vera e propria cartografia da cui emerge, come ricorda Ragghianti, «il profondo sostrato architettonico» delle sue composizioni che possono essere ricostruite «in diversi alzati e spaccati verticali e orizzontali ed obliqui, […] tale che dovrebbe far parlare piuttosto di cattedrali che di bottiglie» (Maiorino 2019, p. 90). Operazioni che esplicitano come un dispositivo dia origine a incrinature, fratture, intrecci, snodi, sia direttamente da parte dell’artista pur nella apparente ripetitività degli oggetti, sia indirettamente nelle più suggestive possibilità di lettura e accostamento ad altri artisti, rese possibili dalla singolarità dell’opera e del pittore.
Maiorino snoda, dunque, questa matassa seguendo le tracce delle varie linee attraverso i più inattesi intrecci emersi dalle analisi critiche che, pur offrendoci interpretazioni apparentemente distanti, ci riconducono sempre al dispositivo Morandi, rafforzandone la sua aristocratica immagine sospesa nel non tempo del suo divenire l’Altro, e quindi sempre attuale. Deleuze ci ricorda ancora che in «ogni dispositivo, bisogna distinguere ciò che siamo (ciò che non siamo già più) e ciò che stiamo divenendo: ciò che appartiene alla storia e ciò che appartiene all’attuale» (Deleuze 2019, p. 27).
Le parole di Deleuze risuonano e fanno eco nel testo di Maiorino che attraverso tre sezioni – I. Perché Morandi; II. 1934-1964: un artista conteso; III. 1964-2018: Morandi dopo Morandi –, ricostruisce la storia di un artista singolare, fortemente legato all’immagine delle sue bottiglie, restituendoci la pluralità contenuta proprio nelle quasi impercettibili variazioni che ebbero, tra gli altri, il merito di aver iniziato Umberto Eco all’arte contemporanea, spingendolo ad affermare che Morandi «ha fatto cantare la polvere» (Eco 1993). Variazioni rese possibili, come ci ricorda Recalcati, dal fatto che la «bottiglia non rappresenta la bottiglia ma si offre come un’icona del visibile che rinvia a un’alterità senza figura possibile. La sua esistenza non è paragonabile a quella dell’oggetto-bottiglia come semplice presenza; la bottiglia di Morandi evoca piuttosto la presenza della Cosa, del reale in quanto impossibile da rappresentare» (Recalcati 2016, p. 29).
Ed è forse anche per questo che l’autore ha ritenuto superfluo inserire immagini a corredo del testo scegliendo per la copertina una immagine tratta dalla mostra Luigi Ontani incontra Giorgio Morandi. CasaMondo. Nature extramorte antropomorfane. Del resto l’ultima parte del libro è dedicata al Morandi dopo Morandi, al cerchio (che) non si chiude grazie al suo «stare nel presente senza appartenervi», alle influenze non solo artistiche nella contemporaneità – si pensi al dialogo tra Morandi e Stuart Arends, Bernd e Hilla Becher, Lawrence Carrol, Craigie Horsfield, Franco Vimercati, Rachel Whitered nell’esposizione a lui dedicata nel 2012 dal Museo d’arte di Lugano, o ancora alla «presenza a dOCUMENTA13» che ne hanno decretato «la concreta presenza nel sistema dell’arte contemporanea» – in virtù anche della «felice apertura alle pratiche psicoanalitiche nella lettura della sua opera» (Maiorino 2019, pp. 183, 189, 186).
Molte sono, quindi, le suggestioni esercitate dal testo nel non facile compito di seguire le molteplicità che si sono aggrovigliate (forse) involontariamente nella carriera dell’artista bolognese, figura schiva e solitaria, con «una “biografia senza notizie”» (Recalcati 2016, pag. 20), che ebbe a scrivere in una lettera del 1931 ad Ardengo Soffici: «È un mondo di una tale miseria che unico mio desiderio è quello di essere dimenticato e di poter lavorare in pace» (Morandi 2004, pag. 38). Cosa che sicuramente fece e che gli consentì non solo di non essere dimenticato quanto, piuttosto, di segnare il difficile passaggio alla contemporaneità senza cedere all’abbandono della materia e dell’oggetto.
Eco ricorda come Morandi si sia posto «come cerniera tra pittura figurativa e non figurativa» e quanto la sua contemporaneità debba essere ricercata nella «semiotizzazione totale della materia», nel «rendere parlante la materia», senza mai rinunciare, scrive Briganti, alla «fiducia nel mondo visibile, che affidò alla misura del suo sguardo la perenne confidenza con la realtà» (Maiorino 2019, pp. 153, 142). Del resto anche Argan sottolinea come «il processo distruttivo di Morandi» sia «al tempo stesso, costruttivo perché non soltanto dimostra la sopravvivenza dello spazio oltre la prospettiva ma prova come soltanto al di là dell’astrazione prospettica lo spazio della coscienza si dia come realtà concreta, esistente» (Argan 1988, p. 464).
Morandi è uno di quegli artisti conosciuti da tutti, icona della natura morta, nella cui apparente semplicità si cela un’enorme complessità nella quale è racchiuso il lungo processo creativo che partiva «dall’ossessiva contemplazione delle sue composizioni» (Maiorino 2019, p. 158). Lo stesso artista, infatti, aveva dichiarato più volte di aver bisogno solo di venti minuti per dipingere una tela, ma per riuscire a far cantare la polvere dovevano inevitabilmente entrare in campo, come già detto, moltissimi fattori, e non ultima la maniacale attenzione dedicata alla scelta dei colori per giungere ad una rappresentazione prossima al monocromo. In una lettera a Cesare Brandi del settembre 1941, nel richiedere allo storico la ricerca del Vert de Crome di Lefranc, si dilunga in spiegazioni dettagliatissime invitandolo a «fare attenzione che sotto l’indicazione del colore» sia «segnata la composizione chimica e cioè oxide de crome. Le dico questo perché sotto lo stesso nome viene smerciato altro prodotto che non ha nulla a che fare con ciò che mi occorre» (Morandi 2004, p. 71).
Quello che emerge con forza è che la semplicità dei soggetti rappresentati nelle nature morte favorisce la lettura di inusitati e apparentemente forzati accostamenti ad altri artisti che, però, nella rilettura di Maiorino appaiono meno azzardati proprio per l’uso del concetto di dispositivo. La molteplicità di processi lascia così intravedere imprevedibili relazioni, da quella già segnalata da Argan con Mondrian a quella con Duchamp, con la pop art, ma anche con Proust o Leopardi, al di là della lettura longhiana che vedeva in Morandi la prosecuzione della lezione dei grandi maestri italiani Giotto, Masaccio e Piero della Francesca per poi divenire artefice insieme a Cézanne di quella che sempre Longhi definiva una «pittura meditata». Lo stesso Morandi «nella sua Autobiografia per “L’Assalto” pone Cézanne tra gli “eredi più legittimi della gloriosa tradizione italiana”» (Maiorino 2019, p. 41).
Un’altra fondamentale linea sbrogliabile dalla matassa morandiana è quella che si riallaccia al cinema italiano: nature morte appaiono ne La dolce vita di Federico Fellini e ne La notte di Michelangelo Antonioni, ma anche in Io sono l’amore di Luca Guadagnino. Morandi, idolo conviene ricordarlo di Pasolini, diviene poi protagonista in Still Life e Day for Night di Tacita Dean realizzati in occasione della mostra Giorgio Morandi e Tacita Dean. “Semplice come tutta la mia vita” del 2009 a Palazzo Te e nel docufilm del 2012 La polvere di Morandi di Mario Chemello.
Ovviamente questa linea-cinema si dipana da quella fotografica, che trova nel penultimo capitolo del libro L’eredità di Morandi nella fotografia italiana la dovuta attenzione. «La riflessione dei fotografi è cresciuta con la scoperta dell’atelier dell’artista, un incontro diretto che ha restituito la forza evocatrice dell’universo morandiano e ha suggerito una modalità d’interpretazione della realtà postmoderna» e tra questi si impone il lavoro di Luigi Ghirri al quale si deve anche l’intuizione dell’uso dell’atelier come una camera ottica. «A un lavoro compositivo che faceva dello studio una camera ottica, Morandi unisce quasi un occhio fotografico che elabora “gli stessi oggetti in una visione dove varia la messa a fuoco e la distanza focale”, come rileva Maurizio Fagiolo» ed ancora, «Ghirri sente Morandi come un congenero, percepisce la sua pittura in termini fotografici, sia per la costruzione compositiva che la precede, sia perché essa, come la sua fotografia, è una scrittura di luce capace di cogliere l’evanescenza, l’impalpabilità delle cose» (Maiorino 2019, pp. 155, 157, 159).
Impalpabilità che si manifesta nella ripetitività delle bottiglia come immagine soltanto: «Chiara e distinta, l’immagine è un’evidenza. È l’evidenza del distinto, la sua stessa distinzione. C’è immagine solo se c’è questa evidenza: altrimenti c’è solo decorazione, illustrazione, cioè supporto di un significato. L’immagine deve toccare la presenza invisibile del distinto, deve toccare la distinzione della sua presenza» (Nancy 2011, p. 47).
Riferimenti bibliografici
G.C. Argan, L’arte moderna, Sansoni Editore, Firenze 1988.
G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo, Cronopio, Napoli 2019 (II ristampa).
U. Eco, Il mio primo Morandi, in “La Repubblica”, 5 ottobre 1993.
G. Morandi, Lettere, a cura di L. Giudici, Abscondita, Milano 2004.
M. Maiorino, Il dispositivo Morandi, Arte e critica d’arte 1934-2018, Quodlibet, Macerata 2019.
J.-L. Nancy, Tre saggi sull’immagine, Cronopio, Napoli 2011 (I ristampa della II edizione).
M. Recalcati, Il mistero delle cose Nove ritratti di artisti, Feltrinelli, Milano 2016.